La filosofia occidentale nasce nella Grecia antica e indica un particolare tipo di riflessione sul cosmo e sull’uomo e sui rapporti tra queste due istanze. In Cina non esiste una filosofia simile a quella occidentale, ma una sapienza in senso lato, una serie di riflessioni, assai eterogenee, che forse collimano in qualche modo tra loro attraverso un taglio eminentemente pratico. La metafisica non esiste nel pensiero cinese se non rivolta al comportamento dell’uomo. Scrive Lanciotti: “I cinesi dalle prime testimonianze in poi hanno sentito la necessità, ogni qualvolta esprimevano un concetto, di collocarsi nel tempo e nello spazio. È questa una particolare forma mentis cinese, risalente a remota età, per cui sia nel parlare che nello scrivere si indica per prima una collocazione spaziale o temporale, e solo successivamente l’azione. Si limita perciò il tempo o lo spazio, lo si circoscrive, manca a prima vista una vaga idea di senza confine oppure di eternità, preferendosi invece ad un concetto universale qualcosa di più particolare, di delimitato”. Come ricorda Lucidi, è dal bisogno di organizzarsi e ordinare spazialmente che nasce l’identità cinese antica e moderna. Il bisogno cinese di ordinare i dati empirici è presente sin dall’antichità più remota: alcuni passi della letteratura cinese antica trattano del Mito dei Nove Tripodi, secondo il quale Yu, fondatore della dinastia Xia, ordina il mondo in Nove Regioni.
La parola “filosofia” deriva dal greco e significa amore (filo-) per la conoscenza (sofia). In cinese un termine in qualche modo analogo è zhexue, che deriva da zhe (sapienza) e xue (dottrina). Ha origine dal vocabolo giapponese testugaku, coniato da Nishi Amane e proveniente dall’inglese philosophy. Gli antichi testi nei quali si esprime il pensiero cinese non procedono mediante concetti, come fa invece la filosofia greca, ma le idee espresse procedono per spirale entro la tradizione: vale a dire che si comprendono mediante una serie di rimandi ai maestri che hanno preceduto la trattazione. Non c’è quindi una speculazione lineare per categorie universali, come fa Platone, ma un insieme di impliciti che hanno senso solo all’interno di una scuola di pensiero.
Sin dalle origini il pensiero cinese è strettamente connesso con la religione, la magia e le varie pratiche oracolari. I primi testi scritti della letteratura cinese sono le Ossa Oracolari, ritrovate negli scavi di Yinxu, che testimoniano il clan regale Shang (dalla metà del II millennio a. C.). La parola jiaguwen è composta da tre caratteri: jia, che significa carapace, gu che significa osso, e wen che vuol dire scrittura, carattere. Quando parliamo di jiaguwen, parliamo proprio di gusci di tartaruga o ossa di altri animali che riportano incisi sulla superficie antichi caratteri cinesi. I governatori Shang erano infatti molto superstiziosi, perciò, prima di prendere qualsiasi decisione, erano soliti interrogare le divinità. Il metodo divinatorio in questione è stato unicamente osservato in Cina e in poche altre regioni dell’Asia settentrionale, e viene chiamato “plastromanzia” o “scapulomanzia”: secondo questo metodo, gli indovini (zhenren) tentavano di predire il futuro praticando dei fori o delle incisioni (bu) sulle ossa. Applicando poi una fonte di calore sui fori, gli indovini erano in grado di predire il futuro interpretando le crepe che venivano a formarsi in seguito a questo processo. In seguito, le jiaguwen che si dimostravano veritiere venivano conservate, diventando così la prima forma di documentazione ufficiale della storia della Cina.
Circa dal XIII secolo a. C. prevalse l’usanza di incidere sul supporto usato per il rito brevi testi, che in genere non superano la quindicina di caratteri, contenenti la domanda formulata e il responso, e talvolta anche brevissime annotazioni.
Rinvenute in gran quantità nel XIX secolo d. C. e in buon numero anche nei decenni seguenti, con le loro iscrizioni attestano un lessico di quasi 5000 caratteri, dei quali oltre 1500 decifrati con sicurezza. Le Ossa oracolari, così come le iscrizioni coeve presenti su un certo numero di vasi sacrificali in bronzo forgiati a scopi cerimoniali o per celebrare avvenimenti importanti, pur nella loro estrema laconicità, testimoniano con il lessico e le strutture sintattiche una notevole maturità linguistica, cosa che fa pensare che questa lingua abbia una storia ben più lontana nel tempo rispetto alla datazione di questi documenti.
Sono famosi i bronzi del periodo Zhou. Un reperto molto trattato da studiosi e osservato dai collezionisti è il Bacile pan di Qiang, in bronzo, seconda metà del X secolo a. C., la cui lunga iscrizione (270 caratteri) ha permesso di ricostruire la storia di una famiglia, la Wei, fino al suo committente, lo scriba Qiang, attivo alla corte del re Mu, e di ordinare cronologicamente i bronzi del sito.
Fino al 1899, le Ossa oracolari non erano riconosciute come tali. Fu solo nel tardo XIX secolo che Wang Yirong, un businessman della dinastia Qing, si rese conto di trovarsi davanti a una delle prime forme di scrittura cinese. Questa ipotesi attirò l’attenzione di archeologi e linguisti che cominciarono ad analizzarle. Fino a oggi, quasi 150.000 jiaguwen sono state rivenute grazie a numerosi scavi archeologici. Questi frammenti di scrittura sono infatti un potentissimo mezzo per studiare e comprendere la società cinese di 3000 anni fa. A questo proposito, ad Anyang, nella provincia dello Henan, è stato costruito un enorme museo dedicato alle jiaguwen, ritrovate in abbondante quantità proprio nella zona dove è stato poi eretto il museo.
Attraverso queste Ossa il re poteva comunicare direttamente con le divinità, identificate con i membri di alto lignaggio del suo clan. In questa maniera il re era intermediario tra le divinità e gli uomini. Invece gli Zhou (dal XI secolo a. C.) veneravano il Cielo, Tian, che attraverso il Tianming, riversava su clan meritevoli il potere di essere intermediari tra le divinità e gli uomini. Questo mandato celeste poteva essere revocato e assegnato ad altri clan. Colui che riceveva l’investitura Tianming era considerato Tianzi, Figlio del Cielo, e sarebbe stato venerato dopo la morte.
Scrive Rastelli: “La dipendenza da fonti cinesi e l’orientamento eurocentrico, sommandosi alla scarsità di informazioni (rispetto ai tempi recenti) e a all’impossibilità spesso di verificare in situ, favorì il diffondersi della convinzione che l’arte cinese – riflesso del paese – si fosse sviluppata in modo, isolato continuo e omogeneo. Tale concetto non era tuttavia una invenzione occidentale: l’idea di continuità e unicità era ed è profondamente radicata nella mentalità cinese … Solo in anni recenti, grazie a nuove scoperte archeologiche e alla rilettura critica delle fonti classiche, in Occidente è cominciata a emergere una visione diversa della civiltà cinese … ciò significa che finalmente percepiamo la civiltà cinese come dinamica, discontinua e disomogenea”.
La scrittura cinese segue la storia dell’arte perché il testo scritto non è solo da leggere ma anche da ammirare esteticamente. La scrittura è parte integrante della pittura stessa. “Nella poesia c’è pittura, nella pittura c’è poesia”, commentava nel XI secolo d. C. Su Shi riferendosi alle opere di Wang Wei, poeta di epoca Tang.
Ogni carattere della scrittura cinese è composto da una serie determinata di tratti, cioè linee orizzontali o verticali di varia lunghezza. Il carattere ri, “sole”, si compone di quattro tratti, nel caso se ne aggiunga un quinto si trasforma in mu, “occhio”. La scrittura cinese, per essere anche esteticamente espressiva, deve seguire il numero esatto dei tratti, poi, affinché i tratti possano dar mostra di tutta la loro eleganza, quello orizzontale deve essere piano, quello verticale dritto e il baricentro ben equilibrato, l’insieme deve risultare compatto e ben proporzionato, i tratti devono apparire vitali e dinamici. I caratteri possono essere semplici (costituiti da un numero ben ravvicinato di tratti) oppure composti, cioè formati da più caratteri semplici (del quale uno potrebbe indicare non sempre il senso ma semplicemente il suono). Per esempio, lin, “bosco”, è un carattere composto formato da due caratteri semplici: quello di albero e quello di albero (entrambi sono unità portatrici di senso). Invece qing, “pregare”, è un carattere composto formato dal carattere “parlare” (portatore di senso) e dal carattere qing (portatore di suono). Queste unità autonome, almeno due, che compongono un carattere composto sono dette pianpang. All’inizio tutti i pianpang erano caratteri semplici, e ancora oggi molti possono essere usati come tali. Invece alcuni pianpang trovano impiego esclusivamente come componenti di caratteri composti.
Per quanto riguarda la lingua delle Ossa oracolari, si tratta di una forma di cinese monosillabico. Quasi tutte le parole hanno una sola sillaba; non ci sono desinenze né coniugazioni verbali; le relazioni grammaticali tra le parole di una frase sono indicate dalla posizione delle parole stesse e da parole funzionali. Non si sa bene se questa forma arcaica di cinese sia già una lingua a toni: le teorie moderne suggeriscono che i toni siano nati da specifiche desinenze, come una s finale o una occlusiva glottale.
In seguito, con l’emergere della letteratura vera e propria, il cinese scritto mantiene il collegamento con la lingua parlata, poi dal IV e dal III secolo a. C. la lingua scritta inizia ad essere a sé stante; sulla base di questi testi tra il 206 a. C. e il 48 d. C. si sviluppa una specifica lingua scritta (è il cosiddetto cinese classico o wenyan). Con il proseguire del tempo la differenza tra lingua scritta e lingua parlata (baihua) si accentuerà sempre di più. Dal 1917 in avanti la letteratura cinese moderna si esprime nella lingua moderna comune, la quale è relativamente simile alla lingua cinese parlata moderna, pur mostrando spesso forti influenze di wenyan.
Già dal pensiero cinese più antico si enuncia che il cosmo e in esso l’uomo è permeato e diretto da due forze contrapposte: Yin e Yang. Il loro alternarsi e la loro dialettica continua strutturano il Tao, cioè la Via con cui si realizzano le cose e in cui si manifestano. Nell’uomo il tao è la via morale, invece nel cosmo è la forza muta ma pervasiva che domina ogni cosa. Il tao può essere definito come l’Assoluto, talmente alto da non poter essere nominato pur pervadendo ogni realtà. Invece con Ming si intende la dimensione degli oggetti materiali evocabili mediante le parole.
In Occidente si sente parlare a volte di Confucio (551-479 a. C.), originario della provincia di Lu, vicino alla casata regale Zhou, il che spiega il suo profondo attaccamento ai valori della stessa. Egli non ha creato nuovi principi morali, ma era osservante di quelli degli Zhou e li trasmetteva ai suoi discepoli. A Confucio è stato attribuito il Lunyu, un’opera frastagliata, composta di aforismi, che sono delle sentenze morali per ripristinare il passato e creare un futuro carico dei valori di ciò che è stato. Scrive Leys: “Il testo, che consiste in una serie discontinua di brevi enunciati, di corti dialoghi e aneddoti, venne compilato dopo la morte di Confucio da due successive generazioni di discepoli (discepoli e discepoli di discepoli), nell’arco di circa settantacinque anni; il che significa che la stesura venne portata a termine probabilmente poco prima del, se non proprio verso il 400 a. C. Il testo è un patchwork composto da frammenti di mano diversa cuciti insieme con esiti disomogenei: non mancano infatti le ripetizioni, le interpolazioni e le contraddizioni; e vi si incontrano non pochi enigmi e ambivalenze a non finire; nell’insieme però gli stilemi anacronistici sono pochissimi: il linguaggio e la sintassi dei frammenti sono per lo più coerenti e risalgono allo stesso periodo”.
Confucio pone la sua attenzione costantemente sugli altri, in quanto l’individuo, attraverso le sue pulsioni, può essere ricondotto ad un equilibrio sociale. Egli ammette che bisogna utilizzare il Principio del Ren, che vuol dire mettersi nei panni altrui. Per Confucio sono tre i poli da seguire:
- L’apprendimento, attraverso il quale l’uomo è capace di migliorare e perfezionarsi;
- Il senso di benevolenza, cioè l’uomo deve essere un soggetto morale nei confronti di chiunque incontri;
- Lo spirito rituale, che unisce il mondo dei vivi con quello dei morti. Attraverso la venerazione dei defunti si trasmette lo spirito di eticità, in quanto il figlio impara ad essere un soggetto morale rispettando il padre che, una volta morto, gliene sarà grato mediante l’assistenza dal Cielo.
Confucio ammetteva che il rapporto con il prossimo è rituale in quanto il sacro non si identifica con qualcosa di trascendente ma con la moralità da usare verso tutti gli uomini, cosa che permette a chi la pratica di seguire la Via. Per Confucio l’eccellenza dell’uomo non è data dal rango sociale bensì dal junzi, cioè dalla qualità morale. La parola indica “uomo di valore” contrapposto a xiao ren, “uomo meschino”. Pertanto l’insegnamento di Confucio aveva e ha un valore politico: il giusto stato si costruisce giorno per giorno rettificando le relazioni interpersonali, che devono essere permeate da quella moralità che fa bene a tutti.
Mencio, un secolo dopo Confucio, riprende le tesi del Maestro del confucianesimo. Per Mencio la natura dell’uomo è buona, anziché essere malvagia, come sostenuto invece da Xunzi. Il cuore dell’uomo possiede quattro virtù, secondo la tradizione Ru: benevolenza, giustizia, conoscenza e adeguamento ai riti. Queste virtù sono in tutti allo stato almeno latente e sono inviate direttamente dal Cielo, cosicché si può parlare di una uniformità tra Uomo e Cielo. I fluidi che l’uomo possiede (Qi, simili al prāṇa degli indiani) sono potenziati dalla moralità. Se l’uomo si comporta in maniera etica, quei fluidi prendono vigore.
Il libro che Mencio scrive e nel quale riversa i suoi consigli per il buon governo, si rivela troppo utopistico per il tempo e non troverà applicazione pratica. Mencio attribuisce grande importanza al talento (xian), alle capacità (neng) e alla preparazione (xue) delle persone destinate alla funzione del governo a prescindere dalla loro estrazione sociale, nonché a trovare il modo del buon impiego di costoro. Altri intellettuali si preoccupano in seguito di reinterpretare le dottrine di Confucio e di Mencio in termini più attuali e pragmatici. Tant’è che qualche secolo dopo, in pieno periodo imperiale, esse saranno adattate alle necessità del momento, divenendo l’ossatura di quella ideologia confuciana che, con ulteriori aggiustamenti e mutamenti, guiderà imperatori, ministri e funzionari di ogni epoca nel reggere uno degli imperi più estesi e progrediti, sicuramente il più duraturo della storia dell’umanità.
Il confucianesimo, infatti, è da secoli un caposaldo del pensiero e della società cinesi. Gran parte della letteratura cinese, dalle cronache ai romanzi, dalla filosofia alla politica, non è che un riflesso della ideologia confuciana (hanno esercitato una influenza, sebbene minore, anche il taoismo e il buddhismo, quest’ultimo introdotto in Cina nel I secolo d.C.; in Cina il buddhismo ebbe l’apice culturale con la dinastia Tang).
Un altro dei classico della letteratura filosofica cinese è La costante pratica del giusto mezzo, una raccolta di aforismi e massime attribuita a un nipote di Confucio, anche se vi contribuirono altri autori di epoche successive. Il testo conobbe particolare fortuna nel XII secolo, quando, tornati in auge gli studi classici, divenne uno dei Quattro libri (si-shu), canone della tradizione confuciana e raccolta in uso nei sistemi degli esami imperiali, unica via per l’accesso alle cariche pubbliche sino all’inizio del XX secolo. Gli altri libri sono: La grande scienza, I Dialoghi di Confucio, Il libro di Mencio. Altri capisaldi della cultura cinese scelti dalla tradizione confuciana sono i Cinque classici (wu-ching): Il libro dei documenti, Il libro delle odi, Il libro dei mutamenti (il famoso I-Ching), Il libro dei riti, Primavere e autunni.
Ne La costante pratica del giusto mezzo è scritto: “Per Natura umana si intende ciò che si riceve per decreto del Cielo; per Via si intende ciò che è conforme alla Natura umana e la guida; per educazione si intende il processo di coltivazione della Via”. Ancora: “L’uomo nobile d’animo agisce conformemente alla condizione che gli appartiene, non aspira ad andare oltre”.
Il taoismo, nato dal cinese Laozi nel VI secolo a.C., postula che il Tao è Xu, cioè vuoto che permea tutto, allora la realtà materiale (Shi) è limitata: questo perché Xu ha efficacia attraverso la rivalutazione degli aspetti di vuotezza. Laozi incarna i valori che sono contrapposti a quelli della tradizione Ru (anteriore a Confucio), secondo i quali l’uomo si perfeziona per via di una acquisizione sempre maggiore di saggezza: invece per Laozi la speculazione allontana l’uomo dalla propria natura e dalla fusione con il Tao, la base del buon governo. Laozi è un vecchio maestro che lavora presso la biblioteca regale dei Zhou, e scrive il Tao Te Ching, che fonda il taoismo, anche se non è attestato prima del 250 a. C. Per comprendere questa ideologia, tuttavia, non bisogna leggere tale testo bensì i commentari.
Il Tao opera in maniera non invasiva nel mondo, infatti è la polarità Yin-Yang a determinare gli eventi. Il Tao crea solamente le condizioni affinché la polarità si possa esprimere. Agire per il bene degli enti da parte del Tao significa non farli essere coscienti di nessuna predilezione, cosicché essi possano vivere e agire liberamente.
Laozi non conia la parola Tao né dà ad essa un significato particolare. La nozione di Tao esiste dai primordi del pensiero cinese e accomuna tutti i cinesi: taoisti, confuciani e persino buddhisti. Il termine Tao significa Via e Parola. I cinesi in millenni di osservazioni ricavando il loro modello di vita dall’agricoltura, hanno evidenziato dei collegamenti tra la vita umana e il cosmo, già millenni prima di Confucio e di Laozi: hanno chiamato questa armonia tra l’uomo e la natura con la parola Tao. Dato che l’universo ha un corso immutabile scandito dalla trasformazione (da notte a giorno, le stagioni, e così via), l’uomo per stare in armonia con sé stesso e il mondo circostante deve seguire una via in accordo con la natura. L’unico modo concesso all’uomo per seguire la Via è quello di emulare la natura, cioè il fluire dell’universo. È ovvio che questa duplice natura del Tao (regolatore supremo del cosmo e alto codice morale) trovi corrispondenza nella medicina tradizionale cinese. La salute dipende in gran parte dalla obbedienza alle leggi del Tao. La longevità quindi è vista come segno di santità.
Prima di manifestarsi, il Tao è Wu Ji, Gran Nulla, assenza di tutto. Poi, all’inizio della manifestazione, diviene dualità (e in seguito pluralità) attraverso la polarizzazione Yin e Yang, Femminile e Maschile. Dalla continua sinergia tra Yin e Yang si genera il Qi, cioè lo stato attuale del Tao, l’energia che permea gli esseri.
Spesso il taoismo viene considerato come l’altra faccia del pensiero cinese, ma contrario al confucianesimo. Questo è vero, ma non del tutto. Il confucianesimo si concentra sullo stato, mentre il taoismo sulla natura. Per essere felici, secondo quest’ultimo, bisogna seguire le leggi naturali, invece secondo il confucianesimo occorre adoperarsi per il buon governo e per una società migliore, essere degli agenti morali nei confronti degli altri esseri umani. Per il taoismo solo la natura è costante, quindi degna di essere presa a modello come Via, al contrario dei governi, che cambiano nel tempo.
Sono tre le vie per capire il taoismo:
- Il mondo degli sciamani, che appartati in qualche grotta evocano le forze magiche;
- La dottrina dei testi sacri;
- La pratica personale.
Da queste tre vie ne esce una religione che non può essere assimilata a ciò che conosciamo con questo termine in Occidente. Per capire il taoismo bisognerebbe essere nati taoisti. La Cina è un mondo a parte, non solo nelle tradizioni e nella filosofia, ma soprattutto nel pensiero concreto del cinese. Nessun occidentale può capire, se non per approssimazione, cosa passi nella testa di un cinese. I libri che si trovano in Occidente sul pensiero cinese sono solo occidentalizzazioni di fenomeni mentali e pratici carichi di mistero, di una magia e di un afflato talmente altro da noi che non è errato chiamare “incomprensibile” per l’uomo che abita a New York o a Roma.
Non solo, ma il pensiero moderno cinese, per essere compreso, deve essere spiegato a partire da quello passato. E qui si pongono altri problemi. Scrive Granet: “A noi non è arrivato che un piccolo numero di opere attribuite all’Antichità. La loro storia è oscura, il testo incerto, la lingua mal conosciuta e la loro interpretazione viziata da glosse più tarde, tendenziose e scolastiche”.
Scrive Andreini: “Gli studi sinologici classici sono stati messi a soqquadro a seguito dell’acquisizione di un crescente numero di manoscritti … risalenti dai Regni Combattenti ai primi anni dell’era cristiana ….”.
Un orientamento di pensiero sviluppatosi nella fase finale del periodo degli Stati Combattenti (770–221 a. C.) è la Cosmologia Correlativa, basata su una visione d’insieme del mondo e dei suoi elementi, mai presi singolarmente. Questo pensiero influenzò tutte le riflessioni cinesi, confucianesimo compreso. Yang Xiong sostiene la legittimità delle fonti testuali scritte secondo gli stili dei testi antichi degli Zhou. Essi sono riscritti secondo le jinwen, cioè le grafie correnti degli Han (206-220 d. C.), e in questo viene consolidata la teoria cosmologica correlativa di Zuo Yan. Zuo Yan è il massimo esperto della corrente degli esperti dello Yin-Yang. Secondo questo letterato, dato che nel cosmo tutto è tenuto insieme, se il singolo individuo pratica un comportamento morale, ne trae beneficio tutto lo stato. Inoltre, come gli elementi (fuoco, terra e così via) si succedono a vicenda, così le dinastie cinesi si succedono a loro volta. I sostenitori della legittimità dei testi scritti nel jinwen iniziano a interessarsi a letture interpretative esoteriche dei classici della tradizione cinese, aperte alle speculazioni cosmogoniche e alla interpretazione di determinati segni dal Cielo come prodotti dalla attività umana. I letterati che praticano queste letture tendono a sostenere con determinati segni celesti l’autorità politica di personaggi ben noti. Gli oppositori di tutto questo sono i guwen, ossia i testi antichi, che traggono la loro ispirazione dalla interpretazione secondo la tradizione Ru operata da Xunzi.
Uno dei principali esponenti della cosmogonia correlativa è Dong Zhongshu, il quale enfatizza l’importanza degli annali Chiunqiu come fonte di ispirazione sia dell’azione politica sia della speculazione cosmica. Viene considerato l’iniziatore della teoria della interazione tra Cielo-uomo, Tain Ren Ganying, per la quale l’azione divina e quella umana sono correlate, sia nel bene sia nel male. se il sovrano sbaglia l’azione malvagia si ripercuote nel mondo circostante. Questa sapienza obbliga il sovrano a portare miglioramenti alla propria azione di governo per ristabilire l’equilibrio sia nella società umana sia a livello cosmico. Dong attraverso la lettura del commentario Guniang del Chiunqiu riconduce le calamità che colpiscono la famiglia Han all’azione di governo di Hanwudi.
Si tratta di un tipico orientamento non occidentale che noi europei facciamo molta fatica a capire. In Occidente abbiamo un pensiero divisorio dove il singolo fenomeno è a sé stante accanto ad altri fenomeni, mentre in Cina i fenomeni sono correlati, infatti c’è un pensiero olistico. Una conseguenza di questo orientamento è che in Occidente si ragiona spesso in termini antinomici (vita-morte, giusto-sbagliato), invece in Cina si guarda al “tra”.
Anche la semplice idea di morte non è per i cinesi qualche cosa di simile a quella che abbiamo noi. Nella Cina classica (VI-II secolo a.C) la morte è un insieme di idee e pratiche legate a precise e diversissime tra loro (e rispetto agli occidentali) concezioni di sacro, visione dell’aldilà, ritualità, filosofia, arti, fisiologia, medicina. I cinesi sono caratterizzati da un “ottimismo epistemologico” per il quale l’universo è amico in quanto tutte le trasformazioni (e le possibili lacerazioni tragiche) poggiano su una unità sostanziale nella quale l’essere non cambia. È il concetto cinese di wuxing, che deriva da xing, parola che significa che c’è una ontologia di base immutabile e terna la quale però è votata a un cambiamento, che però non denatura l’ottimismo di avere un universo solido, stabile, in cui tutto concorre al bene del cosmo e dell’individuo. Anche se il confucianesimo sembra non accettare il mondo così come è e vuole innalzare l’uomo attraverso la moralità, mentre il taoismo cerca di trovare la bellezza in questo mondo di sofferenze (un po’ come fa il buddhismo zen).
Nella cultura della Cina la categoria dello spirito è essenziale in quanto la spiritualità ha sempre inflazionato ogni processo semantico e, possiamo dire, anche storico. Quando un occidentale pensa al mondo della religiosità e della spiritualità ha in mente l’insegnamento cristiano: un Dio assoluto che crea l’uomo. Per il confucianesimo, invece, lo spirito rientra nell’ambito del culto degli antenati. È significativo che ancora oggi gli eredi del confucianesimo indichino il mondo della religione con la parola cinese zongjiao, alla lettera “dottrina degli antenati”. Inoltre le teorie cosmogoniche cinesi non sono granché creazioniste come antitesi tra essere e non essere, ma vedono il passaggio da una condizione iniziale di indeterminatezza a una di ordine. Abbiamo a che fare, in Cina, con un cosmo che si regge su sé stesso e che non cambia ontologicamente, come abbiamo accennato, ma nel quale le forme cambiano incessantemente. Un termine chiave di questa visione tradizionale è ziran, per cui le cose rimangono “sempre sé stesse”, anche nel cambiamento che sembra più radicale. Affinché il mondo dei fenomeni si sviluppi è necessaria però una forza numinosa, che i cinesi chiamano shen, collegata in qualche maniera con il concetto occidentale di divinità, ma molto più ampia. In questa dimensione del divino e della sacralità indicata come shen non è escluso l’uomo. Ne deriva anche il concetto di shenming, composto da shen (divino) e ming (illuminare, intelligenza, brillare). La categoria di shenming è stata studiata da molte menti e si può intendere grossomodo come Intelligenza divina, conoscenza sovrumana, dei, divinità. Da queste poche battute si può notare come il mondo spirituale e culturale cinese non solo sia alquanto complesso e frastagliato.
Lo stesso concetto di natura evoca in noi i fisiologi greci o le idee romantiche oppure la spiritualità New Age. Ma per la Cina antica la natura è tutt’altro. per il confucianesimo la natura è quanto resta di sopravvissuto alla civiltà umana. I testi cinesi antichi esaltano l’operato di quei saggi maestri che hanno introdotto i li, cioè le esemplari norme di comportamento rituale cui fondare un impianto etico teso alla dimostrazione della moralità dell’uomo: questo impianto porta l’uomo sapiens a cambiare (hua) pelle mediante un apprendistato ai valori, cioè a modificare la natura carnale corrotta dalle false tradizioni e riscoprire la vera “natura”. Per la Scuola del Mistero, di ispirazione confuciana ma che guarda con simpatia al taoismo, le leggi di solito in vigore tra le persone, sono contro natura: invece l’uomo deve vivere secondo natura, le leggi devono essere fatte avendo la natura come modello e l’educazione deve avvenire secondo gli atteggiamenti più spontanei che provengono dal cuore. Per questi letterari confuciani le norme morali di Confucio non vanno imposte ma vanno trovate nel fondo dell’animo umano. Liu Shao ha unificato gli insegnamenti del confucianesimo con quelli del taoismo, non considerandoli quindi contrapposti: i primi danno le regole morali, i secondi pongono nel giusto ordine l’uomo all’interno del cosmo. Il massimo rappresentante della Scuola del Mistero è Wang Bi: egli considera il Tao come wu, non-essere. Applica al saggio il Principio della Azione della Non Azione, wei wu wei: egli deve porsi al di là delle diversificazioni e delle contraddizioni del mondo fenomenico e deve porsi al di sopra delle vicende degli uomini per incarnare il libero flusso dell’energia.
Secoli di speculazione filosofica e psicologica fanno vedere a noi occidentali un destino come causa dei nostri comportamenti e che vincola o addirittura annulla la nostra libertà. Come nota Santangelo, qualcosa del genere è impensabile in tutta l’area della Cina. In Oriente il destino pare collegato all’idea della retribuzione per le buone azioni, quindi è visto con sicurezza e ottimismo. In cinese uno dei tanti termini è mingyun, “il volgere degli eventi della vita”, ma dalle attestazioni più antiche non si tratta di una volontà sovrumana che limita la libertà dell’individuo, bensì qualcosa che concorre alla sua realizzazione in base alle buone azioni compiute, le quali derivano in ultima istanza dalle passioni. Ci sono molti studi occidentali sul concetto della passione negli antichi testi cinesi. Le passioni sono viste come la base dei riti e del destino, ragion per cui avere giuste passioni naturali equivale a stare in armonia con il cosmo intero. .
I filologi e i linguisti si sono occupati spesso del sintagma cinese Xing Ming Zhi Qing. Facciamo questa breve nota di filologia cinese per mostrare ancora quanto il mondo culturale cinese sia complesso. Si pensa che xing e ming siano due morfemi che formino una sola parola: natura delle cose (shen), forza vitale, destino. Non è chiaro il rapporto tra xing e ming. Ora, l’espressione Xing Ming Zhi Qing compare in opere classiche tra il regno degli Stati Combattenti e il periodo Han. Gli studiosi si sono sbizzarriti con le ipotesi. In cinese poi luna stessa parola può essere un nome oppure un verbo. Le varianti con cui si può intendere questa espressione sono numerose. Quello che ci preme far notare, tralasciando la ricostruzione filologica che lasciamo a chi voglia leggere il contributo citato nella bibliografia, è che per i cinesi il linguaggio non solo indica delle cose ma è la struttura stessa del pensare, ragion per cui da una complessità linguistica può nascere tutto un pensiero filosofico dai risvolti vertiginosi. Per i cinesi la parola è strettamente collegata sia con l’essere sia con il pensiero: per questo Confucio voleva far passare la rettificazione del governo e della società attraverso la rettificazione del linguaggio.
Invece Il Tao va oltre tutto ciò che possiamo nominare, siamo lontani dalla tradizione teologica occidentale cristiana che vuole spiegare Dio in termini razionali, mentre quella teologica orientale cristiana ne riconosce il mistero insondabile. Il taoismo è come lo zen: sono illogici. Il taoismo va al di là delle distinzioni occidentali: per esempio, considera il Tao sia immanente sia trascendente. Un classico del taoismo, il Zhuang-Zi (XIII) afferma: “Il Tao che il mondo apprezza è quello che si trova nei libri. Il libro è fatto solo di parole. Ciò che vi è di prezioso nella parola, è l’idea. Ma l’idea trae vita da qualcosa di ineffabile. Benché il mondo stimi i libri, io li considero indegni di stima. Tutti pensano che le forme e i colori, i nomi e i fonemi rappresentino la realtà delle cose, e questo non è vero. È in questo senso che si dice: Chi sa non parla, chi parla non sa”.
Nel mondo occidentale si vedono le cose e si pensa a vivere fruttandole. Per questo in Occidente è nata la scienza e la tecnica. Nel mondo cinese, invece, si pensa a essere e solo dopo vengono le cose.
Il mondo occidentale pensa in termini di causalità. Invece nel mondo cinese si pensa in maniera contestuale. Detto in altri termini, si tratta di un pensiero, quello cinese, basato sul “discernimento” (zhi), che rileva in ogni fibra della situazione un innesco della “trasformazione” (ji). Vale a dire che i cinesi pensano in termini di fasi o tappe piuttosto che analizzare degli stati: ora in queste fasi la mutazione futura è avvertita presente in germe già all’inizio, cioè nella fase precedente, di modo che un evento non ha solo una causa attuale ma sia un processo in divenire, cioè contestuale.
Bisogna anche dire che in Cina non è comune la cultura del mare: nei popoli occidentali ma non solo è tipico il contrasto concettuale tra terra e mare, invece nel mondo cinese antico c’è solo quello tra terra e cielo. In cinese il “mare” viene indicato dal carattere hai, che è di tarda introduzione. Compare per esempio nel testo artistico più antico della letteratura cinese a noi giunto: la raccolta di poesie denominata Shih-Ching o Classico delle Odi (composto forse a partire dal X secolo a. C.).
La cultura cinese è un patrimonio immenso di storie esemplari e di aneddoti. Tra folclore, letteratura, mistero e sapienza. Xi Kang, Ruan Ji, Xiang Xiu, Wang Rong, Shan Tao, Liu Ling, Ruan Xian sono conosciuti come i Sette Savi del Bosco di Bambù, sono famosi letterati, scrittori e musicisti attivi nel III secolo d. C. I testi ce li tramandano come personalità eccentriche, libere dalle convenzioni comuni, dedite al bere in compagnia e amanti del taoismo. Per secoli sono stati fonte di ispirazione per letterati. Anche in Occidente la Scapigliatura era qualcosa del genere, reiterando lo stereotipo del “genio e follia/sregolatezza”.
Anche la letteratura cinese conosce la novellistica, dal sapore esoterico (con mostri sovrannaturali, come ne Le Mille e una Notte di tradizione mediorientale) ma anche incentrata su episodi tratti dalla esperienza sociale o amorosa dei letterati. Si parla di chuanqi, racconti in prosa, talora con inserti in versi o in prosa rimata. È una letteratura fiorita nel corso della dinastia Tang (618-907 d. C.), che ha il suo momento di splendore tra il 780 e il 820. E’ dall’epoca Tang, infatti, che nasce in Cina un nuovo modo di vedere i sentimenti e la vita privata delle persone: comincerà l’espressione dello stridore tra convenzioni sociali e esigenze più intimistiche.
La dinastia Tang ha rappresentato l’apice della cultura cinese, soprattutto per quanto riguarda le innovazioni in campo poetico; la poesia ha raggiunto in questo periodo la sua epoca d’oro (invece la letteratura sperimenta un brutto declino nel periodo Ming, dal 1368 al 1644, anche se continua a svilupparsi la letteratura erudita). La dinastia Tang nei suoi trecento anni di dominio ha visto la nascita di circa 48.000 poesie di 2300 autori diversi che sono state raccolte nell’opera Raccolta completa delle poesie Tàng, fatta nel 1707 e voluta dall’Imperatore Kangxi dei Qing. L’evoluzione della poesia Tang si può dividere in 4 periodi:
- albori (VII sec)
- apogeo (700-785)
- centrale (785-835)
- tardo (835-900).
Dal punto di vista stilistico abbiamo la nascita dello “Stile Moderno” che comprende tre sottoclassi:
– “versi troncati”, poesie di 4 versi
– “poesia regolata” di 8 versi
– “versi concatenati regolati”.
Per quanto riguarda le tematiche e i contenuti, si spazia dal realismo al romanticismo, troviamo sentimenti convenzionali, critiche allegoriche, eventi di vita sociale. All’epoca Tang appartengono grandi poeti della storia della letteratura cinese, possiamo ricordare Li Bai e Bai Juyi, che insieme a Du Fu e Wang Wei formano i “Quattro Grandi poeti “ di epoca Tang.
Il pensiero cinese è molto variegato e non può essere posto sotto uno stesso denominatore comune. Forse però i grandi pensatori della Cina si sono soffermati più sull’aspetto della felicità rispetto a quello dei beni materiali. Pensiamo solo a Tao Qian (365-427 d. C.), che abbandona la carriera amministrativa per dedicarsi alla vita a contatto con la natura, lontano dai fastidi del mondo e dalle passioni umane. Questa serenità di spirito gli permette di scrivere alcune tra le sue più belle poesie, di cui il verso più celebre è “Una mente serena si crea sereni dintorni”, che nell’originale cinese suona: xīn yuǎn dì zì piān. Noi occidentali dovremmo riscoprire questo autentico spirito della Cina antica. La vita è breve e tutto passera. Pensiamo ad essere felici, tutto il resto verrà da sé.
Una espressione idiomatica cinese è: Nánkē-yīmèng, letteralmente “un sogno di Nanke”. Ma da dove deriva questa espressione? E’ un idiomatismo nato da un famoso chuanqi di Li Gongzuo chiamato Nanke taishou zhuan- Storia del prefetto del ramo meridionale. Il protagonista è un uomo che trascorreva le sue giornate dedicandosi ai piaceri della vita, dal vino alle belle donne. Costui un giorno si addormenta ubriaco e comincia a sognare: si ritrova in un regno e finisce per sposare la figlia del re e ricevere la carica di governatore. Il re tuttavia sentendosi minacciato dal potere del genero o per mancanza di fiducia lo rimanda indietro e il sogno si spezza. Il prefetto esce dalla dimensione onirica e si rende conto che l’onore, il potere, la gloria e la felicità sono svaniti, egli da quel momento cambia in meglio anche il suo stile di vita. Il significato di questa espressione è usato ancora oggi per indicare un sogno vano o una gioia illusoria. Ciò che ci rende felici non è l’aspetto dell’avere, ma solo ed esclusivamente quello dell’essere. Le cose possedute possono essere anche importanti, ma non sono mai indispensabili per la nostra felicità.
In cinese la parola gaoxing è un modo per indicare la felicità, e deriva da gāo, “alto”, e xing, “fiorire”. Pertanto per essere felici dobbiamo arrestare la nostra dimensione materiale e puntare in alto, ai beni spirituali, al regno dei valori e della perpetua realizzazione degli esseri. Bisogna affrancarsi dagli interessi particolari come il denaro e i beni e innalzarsi verso ciò che accomuna le persone, cioè i valori universali, che soli riempiono il cuore. Non per nulla la parola cinese le, “felice”, è espressa da un carattere che stilizza uno strumento musicale, infatti questo stesso carattere può essere letto anche yue, “musica”. E Nietzsche ricorda come la musica è la forma d’arte più universale e spirituale che esista, essendo svincolata dalla forma delle cose materiali. I greci antichi esprimono queste idee chiamando la felicità eudaimonia, che etimologicamente veicola il significato di avere un dio propizio. In antico egiziano ci sono moltissimi sostantivi che indicano la gioia, alcuni di essi contengono la parola “cuore”, nel senso di interiorità profonda dell’uomo, ove questi si incontra con il dio. Nei giuramenti mesopotamici si fanno spesso auguri del tipo: “Possa il dio Enlin gioire in te”. Un termine semitico della gioia è gil, forse in connessione con l’arabo galla, “stare in alto”.
È scontato seguire le passioni materiali, che appagano semplici desideri, più difficile è seguire la via etica, che appaga il cuore in profondità donando la vera felicità. I cinesi lo sanno bene ed è ancora molto ricordata nella cultura della Cina questa frase: shí nián shù mù, bǎi nián shù rén, detta dal politico Guan Zhong (720–645 a. C.). Questo modo di dire si può tradurre: “Occorrono dieci anni per far crescere un albero e cento per formare un uomo”, e fa riferimento al fatto che coltivare il talento o le abilità o i valori etici in una persona richiede molto tempo e non è certo cosa semplice.
Seguendo il confucianesimo possiamo dire che i più alti valori morali sono quelli di amore disinteressato verso il prossimo. La parola cinese ai può essere sostantivo “amore” o verbo “amare/ essere appassionato di”. Per comprendere il significato di questo carattere basta osservare la sua forma non semplificata che è composta da 4 elementi:
- zhuǎ: artiglio, di cui il significato originario era “mano”, ovvero una forza che afferra e alla quale è difficile resistere;
- mì: coprire, rappresenta lo spazio che divide il cielo e la terra, in questo caso “la mano” e “il cuore”;
- xīn: cuore, l’essenza del carattere, senza il cuore non c’è amore;
- zhǐ : rappresenta una mano che brandisce una frusta, il suo significato quindi si estende a “frustare”, ”soffrire” “sacrificare”. L’amore può far soffrire quando non è corrisposto.
Quindi l’amore viene dall’alto, riempie il cielo e la terra, nasce dal cuore ed è sacrificio.
Avere i giusti atteggiamenti verso gli altri è un atto di amore che nasce spontaneamente ma anche un atteggiarsi per rispetto verso tutti, pratica che comunque si fa, alla fine, per empatia.
La Cina è un paese fortemente legato ai riti e all’etichetta. Il concetto di li risale ai tempi di Confucio. Uno dei famosi cinque classici confuciani è Il libro dei riti, un testo che all’epoca si occupava di registrare e diffondere i riti, le usanze, le cerimonie che riguardavano tutti gli aspetti della vita sociale. Il li è ancora fortemente presente nella Cina di oggi e regola i comportamenti nella vita delle persone. Confucio propone modelli comportamentali che indicano la retta via da seguire. Letteralmente li significa “faccia/volto” nella lingua parlata, in senso figurato si riferisce alla “reputazione” e in certi casi anche ai “sentimenti”. I cinesi tengono molto alla reputazione e ritengono sia importante trattare gli altri con gentilezza, per questo spesso non esprimono direttamente il proprio punto di vista o una critica.
Come l’amore, anche lo studio finalizzato alla conoscenza è una attività che viene dall’alto, ricca di aspetti spirituali, perché la conoscenza è un attributo delle divinità. In cinese “studiare” si dice xué. Per comprendere il significato del carattere corrispondente partiremo dalla sua forma tradizionale, che ricorda quella arcaica presente sulle ossa oracolari e ancora meglio quella sui bronzi Zhou.
Partendo dall’alto ai due lati in posizione speculare, possiamo notare quelle che assomigliano a un paio di mani, al centro di esse troviamo le linee che compongono gli 8 trigrammi usati nell’antica arte della divinazione di cui ci parla il famoso Classico dei Riti, in questo caso indica un sistema di calcolo e quindi per estensione la conoscenza, le nozioni. Proseguendo c’è il radicale di “coprire”, indica una stanza o un edificio quindi la scuola, in questo ambiente è stato inserito, a partire dalla scrittura sui bronzi, il segno per “bambino”, il ricevente di questa conoscenza. Sulle ossa oracolari il bambino, ovvero lo studente, non era presente nella struttura del carattere poiché il significato originario era quello di “scuola”.
Con l’aggiunta di “bambino” e legando tutti gli elementi sopra citati, il carattere ha finito per indicare “un insegnante che apre una scuola unendo le proprie forze (un paio di mani) per trasmettere conoscenza e proteggere (ecco perché il tetto) lo studente (il bambino)”. Secondo un’altra possibile interpretazione, indica l’atto del maestro che scaccia via (con le mani) l’oscurità (il tetto) dalla mente del discepolo, aprendogli il varco verso la luce della conoscenza, un po’ come nella caverna di Platone, in cui gli ignoranti restano nelle tenebre e coloro che acquisiscono conoscenza procedono dalla caverna verso l’alto, verso la luce.
Il cinese è una lingua con caratteristiche molto singolari, per esempio il verbo essere (shi) può essere usato anche come avverbio per enfatizzare sostantivi, aggettivi, verbi; l’aggettivo può essere usato anche senza il verbo in tipiche frasi nominali; esistono i direzionali complessi figurati (verbi che non hanno il senso che hanno di solito); e così via.
Di solito le parole cinesi non contengono informazioni grammaticali visibili. Non indicano singolare o plurale né il genere, sono senza articoli, coniugazioni e casi, e spesso non viene precisata nemmeno la categoria grammaticale. Questo aveva portato alcuni studiosi occidentali a ipotizzare che i cinesi non sappiano pensare in maniera precisa. In realtà la lingua cinese è ben strutturata e non lo fa tanto nelle singole parole, come siamo abituati noi occidentali, ma nell’ordine delle parole, cioè nelle frasi. Il cinese conosce tre tipi fondamentali di frase le quali fanno in modo che, individuando la struttura, il parlante sappia già cosa aspettarsi. Il primo tipo di frase permette di esprimere come è un oggetto descrivendo le sue caratteristiche; ha questo ordine: 1. Sostantivo o pronome; 2. Avverbio; 3. Aggettivo; quindi non ha il verbo. Il secondo tipo di frase consente di individuare il gruppo o la categoria a cui appartiene un oggetto o ciò con cui può essere identificato; ha questo ordine: 1. Sostantivo o pronome; 2. Verbo essere; 3. Sostantivo o pronome. La struttura minima del terzo tipo di frase permette di affermare cosa fa un oggetto o cosa gli succede; le tre parti fisse sono: 1. Sostantivo o pronome (soggetto); 2. Verbo; 3. Sostantivo o pronome (oggetto). Grazie all’ordine fisso delle parole, in cinese si evitano le ambiguità che potrebbero derivare dal fatto che una parola presa di per sé può essere sostantivo, aggettivo o verbo. Date queste tre frasi minime, esse, rispettando determinate regole strutturali, possono essere composte insieme per indicare enunciati più complessi in una infinita possibilità espressiva. Le frasi possono essere decorate in maniera sobria o sontuosa.
Il verbo cinese, non avendo coniugazione, non esprime in sé nemmeno il tempo o, meglio, esprime la temporalità in una maniera diversa dall’italiano o dall’inglese. Innanzitutto pur senza coniugazione il tempo in cinese, se si vuole, è espresso con avverbi e in altre maniere. In cinese le frasi che noi europei per abitudine rivestiamo della forma presente, in cinese invece appaiono illimitate, non pongono cioè domande sulla temporalità, però nell’ambito della infinità temporale il cinese può esprimere l’estensione, la continuazione, l’inizio di un evento e molto altro. In cinese il futuro non è indicato rispetto al momento in cui si parla, bensì rispetto al fatto che l’evento stia per accadere, che abbia una probabilità di avvenire successivamente o che un agente esterno lo porti a svolgersi. In cinese il passato non è concepito come lo concepiamo noi, ha più importanza che un evento si sia concluso o che sia ancora in corso, e altro ancora. Questo tipo di temporalità è indicato dagli aspetti che descrivono un processo all’interno del tempo osservato dal parlante. Le indicazioni temporali sono considerate come corpi all’interno dei quali si svolge l’evento.
Inoltre, il cinese predilige l’ambiente per dare significato a parole o frasi e anche per pronunciare convenientemente le parole. Se per esempio un cinese sta parlando di cucina e dialoga con un altro cinese che, stando dall’altra parte della Cina, ha una cucina diversa, è molto probabile che i due non si capiranno, non solo relativamente al contenuto ma anche rispetto alla grammatica.
Un’altra peculiarità sono i chengyu, cioè delle frasi fatte, formate da pochi caratteri che vengono usate dai parlanti anche con una certa funzione logica nella frase e che denotano il livello culturale di chi le pronuncia. Per capirmi meglio, questa forma espressiva cinese è una sorta di massima, di proverbio e di frase idiomatica insieme, che non si modifica ed è molto comune tra i cinesi. Questo dimostra come in Cina si ponga particolare attenzione alla tradizione e quindi alle frasi del passato o anche dei grandi classici della letteratura cinese, anche senza che siano chengyu. Un classico cinese è intitolato Mondo ordinario, un romanzo composto da Lu Yao (1949-1992), il quale scrive: “In verità la vita di ognuno di noi è un piccolo mondo e persino l’uomo più comune deve lottare per averlo”. Ci ricorda che nella vita non bisogna mai smettere di combattere per conquistare il mondo che si cela al suo interno.
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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 39 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.