di Marco Calzoli
La licenide è una farfalla che presenta una vita molto particolare. I bruchi vivono nelle foglie e mangiano fino a svilupparsi ma, mentre stanno sul punto di diventare crisalidi, smettono di mangiare e iniziano a secernere una sostanza zuccherina, che attira le formiche, le quali l’assaggiano e, scoprendo che è di loro gradimento, prelevano l’organismo e lo portano nel formicaio sotterraneo. Lì, dopo averlo creduto cibo, le formiche lo scambiano per una delle loro larve, presso le quali lo sistemano, lo fanno mangiare e lo accudiscono fino a che non si trasforma in farfalla. Quindi le formiche si sbagliano ancora una volta e la scambiano per un nemico cercando di ucciderla mordendola, ma la natura ha dotato la neo farfalla di una pelliccia che la difende dagli attacchi. A questo punto, mentre la farfalla cerca di risalire in superficie, gli attacchi delle formiche le mangiucchiano gradualmente la pelliccia togliendola del tutto all’uscita. La farfalla così è in grado di spiegare le ali e di prendere il volo.
Questa meravigliosa storia può dirci, se vogliamo, che il cambiamento è un processo graduale, ma soprattutto che è spontaneo. È la forza della natura, quel dharma insito in ogni cosa, che ci fa crescere e, crescendo, ci porta a maturazione, sotto diversi punti di vista. I cinesi esprimono questo mistero con l’espressione wei wu wei, “azione della non azione”.
Però, al contrario delle formiche, l’essere umano ha un pensiero evoluto che gli conferisce la possibilità di non sbagliare, ovvero di discriminare per emettere un giudizio opportuno. L’essere umano, a differenza degli animali, può emettere giudizi lontani dai condizionamenti esterni. Può essere originale, artefice di una propria linea di pensiero, in una parola può essere padrone della propria vita, sotto certi aspetti.
Il giudizio si forma dalla appropriata attribuzione di un predicato a un soggetto. Esso ha natura ambigua, in quanto gli esseri umani pensano confrontando il concetto con il suo contrario. Se pensiamo alla luce, abbiamo in mente anche le tenebre.
Di più, la massima realizzazione della nostra natura noetica avviene nel Sé: il Sé è la totalità della nostra vita psichica. Come scriveva Jung, esso è paradossalità assoluta, perché rappresenta sotto ogni riguardo tesi e antitesi e contemporaneamente sintesi.
Jung, precisamente, non faceva psicoanalisi, intesa come la disciplina teorizzata da Freud, anche se si richiamava a volte ai suoi concetti. È sbagliato parlare anche di “psicologia junghiana”. Jung, infatti, si allacciava a un pensiero antichissimo e tradizionale. Il concetto di Sé richiama l’Atman della filosofia indiana. Ma possiamo fare un parallelo anche con la cultura dell’antico Egitto. In certe epoche l’uomo era composto da cinque parti, in altre sette, ma più spesso da nove. Tra queste c’è il Ba (l’anima individuale, che rende una persona unica) e il Ka (lo spirito vitale). La unione di queste due parti, in qualche modo la sintesi, forma Akh, cioè possiamo dire l’anima immortale, il Sé, quel condensato energetico che sopravvive alla morte fisica. In buona sostanza Akh è ciò che sviluppa l’iniziato durante le prove. Amenofi IV era un iniziato che cambiò il nome in Akhenaton: come a dire che il dio Aton gli conferì Akh. La benevolenza di una divinità verso un faraone era espressa nell’antico Egitto come atto di amore, in egiziano antico mer. Per esempio un faraone poteva avere come nome anche meriamon, cioè “amato dal dio Amon”. Curiosamente la concezione egiziana di mer è l’unione degli opposti, quindi andrebbe tradotto meglio con “attrazione”: mer erano dette anche le piramidi, nel senso che costituivano l’unione tra cielo e terra. L’amore verso il faraone era anche una figliolanza: Tutmose significa “figlio (mose) del dio Tot”, Ramesse o Ramses significa “figlio del dio Ra”.
Tommaso d’Aquino (Somma teologica I-II, 17, 6) sosteneva che esistono due atti di ragione: quando si apprende la verità intorno a qualcosa e quando si dà l’assenso a quanto si è appreso. Il capire qualcosa e il dare l’assenso non sono sempre la stessa cosa. Nei principi primi la comprensione va di pari passo con l’assenso perché essi sono evidenti del tutto. Ma esistono casi in cui il rapporto tra il soggetto e il predicato non è del tutto evidente: allora prima l’intelletto conosce la verità per procedimento logico, poi dà l’assenso.
C’è chi ritiene che esista lo spirito di un popolo, cioè una maniera grossomodo collettiva di organizzare l’esperienza. Già la filosofia antica pensava anche a una Anima Mundi, un pensiero più esteso rispetto ai limiti umani individuali fino ad abbracciare la materia apparentemente inerte.
Alberto Magno (L’unità dell’intelletto, Introduzione 2, 15) scriveva che “nella natura non può esistere niente che non abbia una funzione”, frustra autem non potest esse in natura. Dio è per la filosofia cristiana la causa prima che determina la funzione di ciò che sta sotto (cause seconde), che determina la funzione di ciò che è a sua volta subordinato. Tra le cause seconde vi sono anche le intelligenze angeliche e l’anima come forma dei corpi.
Per sospettare che l’anima non sia solo qualcosa di individuale pensiamo a una cultura antica come quella dell’Egitto faraonico, ove lo spirito di quel popolo si manifestava in maniera assai originale. Sembra che le categorie di spazio e tempo fossero molto diverse dalle nostre. Gli egiziani non concepivano il vuoto: lo spazio era un tutto unico. Le sculture di figure umane e umanoidi non hanno spazio vuoto dietro, come se si stagliassero da un tutto unico, così come non hanno lo spazio vuoto tra le braccia e il busto. Invece il tempo era visto come un ciclo che si ripeteva in ogni occasione importante (per esempio tutte le incoronazioni del re prevedevano una fondazione delle due terre, Alto e Basso Egitto). In altre parole, il tempo era pensato per archetipi ciclici. Il mondo nel suo complesso era concepito finito: la fine del mondo sarebbe dovuta avvenire con Atum veniente sulla terra in spoglie di serpente unico essere nelle acque primordiali.
La religione è uno degli aspetti più caratteristici di una popolazione. Eliade affermava che le religioni dicono in fondo le stesse cose, anche se ogni cultura le elabora in maniera sui generis. Benedetto da Norcia nella sua vita ascetica cercò di estirpare i tre vizi principali dell’uomo: affermazione di sé, sessualità, ira. Ma spesso le religioni propongono cammini in qualche modo simili.
Oggi nel mondo occidentale, influenzato dal cristianesimo, siamo abituati a pensare a Dio e ai santi secondo concetti stabili e univoci, pena l’eresia o l’apostasia. Invece nell’antico Egitto la divinità era caratterizzata dalla molteplicità: aveva più nomi, svolgeva più funzioni, era raffigurata in maniera anche molto diversa (forme simili a stendardi, a animali, a umanoidi). A partire dal IV millennio gli animali erano visti dagli egiziani come manifestazioni di forze divine: ma non dei in quanto tali, e questa distinzione è molto importante in egittologia. Il gatto non era un dio, ma poteva caricarsi di una energia tale per cui diventava una sua manifestazione. La religione egiziana ha fondamenti sempre uguali nei tremila anni di storia di questa civiltà, che affondano grossomodo sin nella preistoria, accanto a innovazioni che si susseguono nel tempo e sono espressione della particolare politica e società di una data epoca. Il mito di Osiride e Iside, definitamente formalizzato, compare solo dal V secolo a. C. Osiride lotta con Set, viene ucciso, ma risuscita grazie alla sorella Iside, dea della magia. All’inizio Osiride e Set avevano poteri equipollenti: espressione del fatto che nella storia le lotte tra diversi re egiziani si svolgevano alla pari, quindi si intercambiavano. In seguito Osiride diviene Signore di Maat, cioè l’ordine cosmico, allora gli attacchi di Set erano visti come attacchi all’ordine cosmico: espressione del fatto che nella storia il potere si era concentrato su di un unico re egiziano, quindi le rivalità da parte di altri centri di potere divennero non scontri alla pari, ma delitti di lesa maestà.
Noi, dalle fonti che abbiamo, non conosciamo i miti egiziani. In esse non sono presenti nella loro interezza, anche se magari gli egiziani li raccontavano a voce. Abbiamo solo spezzoni di vicende. Le fonti dei popoli vicini non aiutano per ricostruire i miti egiziani. Ad esempio, il greco Plutarco nella sua celebre opera Su Iside e Osiride selezionava solo alcuni episodi, per di più secondo una prospettiva greca e per giunta una lettura filosofica platonica.
Spesso le culture prossimali riprendono a vicenda personaggi e storie mitici. Questo lo facevano soprattutto i greci, dotati di una tipica mentalità aperta. La dea egiziana Neit venne vista dai greci come la dea Atena. Era una divinità molto famosa, specie nel passato dell’antico Egitto. Durante la I Dinastia il nome della dea veniva spesso assegnato alle fanciulle (su 8 regine della I Dinastia ben 3 avevano nel nome quello di Neit). Il simbolo di Neit è un palo verticale con due frecce a forma di X. Anticamente il palo ha una bilobatura nella estremità superiore, cioè due specie di anse. Gli egittologi hanno dibattuto molto su cosa potessero essere: uno scudo oppure una faretra oppure due archi legati assieme oppure un coleottero. Il coleottero era un simbolo della dea, la quale era legata non solo alla guerra ma anche alla inondazione del Nilo. Questo perché il coleottero si comportava in maniera particolare durante tale inondazione.
Il pensiero umano, essendo ambiguo, cioè basato su opposti, ama il sincretismo, la unione di simboli e aspetti differenti. Nel Medioevo si entrava in monastero per quaerere Deum, “cercare Dio”. Si trattava del Dio cristiano. Agostino diceva che chi non ha trovato Dio, ma lo cerca, proprio per questo è degno di trovarlo. Ma la cultura medioevale, fiorita spesso entro spazi religiosi, è stata una grande fusione del cristianesimo con il paganesimo e le altre religioni abramitiche. Non solo in Occidente, ma anche in Oriente. Il sufismo, importante corrente mistica islamica, è nato da un incontro di culture differenti. Ci sono varie ipotesi formulate dagli orientalisti: ariana oppure dalle religioni orientali come l’induismo oppure dal monachesimo cristiano orientale.
Ci sono pensatori cristiani medioevali molto differenti tra di loro, ma è stato notato che alcuni sembrano non cercare la verità in quanto tale ma adeguare le dottrine pagane e eterogenee con il cristianesimo, un po’ come avvenne anche prima con Eusebio di Cesarea. Questi in realtà non era radicalmente ariano, ma si collocava tra Ario e Alessandro, tuttavia aveva sempre appoggiato il primo. Però quando Costantino andò contro Ario, Eusebio per non porsi come eretico cercò di modificare la propria dottrina.
La vita “consiste essenzialmente nel partecipare a Dio” (Ireneo di Lione, Contro le eresie 4, 20, 5). Per questo la vita è un mistero. È Lui che la dirige, ma Dio non si può comprendere mai del tutto. Agostino finiva il libro Sulla Trinità con una preghiera, che ha anche queste parole: “Davanti a te c’è la mia scienza e la mia ignoranza”, coram te est scientia et ignorantia mea. Nella stessa preghiera Agostino altresì diceva: “Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’interno della mia anima misera alla tua presenza e che si rifugia nella tua misericordia”.
Nei vangeli Gesù ha due temi principali: il Regno (in greco basileia) e il Padre. Ma negli altri libretti del Nuovo Testamento, gli scritti apostolici, compare quasi sempre la Chiesa (in greco ekklesia), che figura assai sporadicamente nei vangeli. Certamente si tratta di un problema storico e esegetico: perché c’è questa dicotomia? Alcuni ritengono che il Regno non sia la Chiesa: già le prime comunità cristiane avrebbero travisato il messaggio autentico di Cristo. Per altri Regno e Chiesa sarebbero la stessa cosa oppure la Chiesa terrena preparerebbe il Regno, che si realizzerà solo nei cieli. Ma in buona sostanza cosa è il Regno se non la realizzazione della volontà di Dio? Il Regno sta nei nostri cuori e in ogni nostra azione quando avviene ciò che Dio vuole. Il Regno è la vita stessa, da Lui stabilita e guidata.
Dio può essere visto come l’essere che tutto unifica. Ma il nostro pensiero libero ci fa approcciare a questa base unica in maniera sempre nuova, originale, di cui il sincretismo è un aspetto. Rutilio Namaziano (De reditu suo I, 63) alla fine dell’Impero Romano disse una cosa che si ritrova sin dagli albori di Roma: “Hai fatto una sola patria per diversi popoli”, fecisti patriam diversis gentibus unam. Questo anche dal punto di vista culturale: l’arte visiva tra la tarda Repubblica e l’inizio dell’Impero si basa su quella greca, etrusca, laziale e anche egiziana, tutto rielaborato in modo assai originale, unico. Con il tempo questo patrimonio inestimabile venne sempre più dimenticato. Solo nel Rinascimento Raffaello Sanzio e Baldassarre Castiglione in una celebre lettera a Papa Leone X Medici lo invitavano a tutelare Roma antica e non a farne, come si era fatto per secoli, materiale per avere calce e pietre.
Sin dall’origine la letteratura latina riprese molto da quella greca: la prima opera è la traduzione dell’Odissea fatta da Livio Andronico. Ma il verso di quest’opera non è l’esametro, di già collaudata tradizione greca, bensì il saturnio: romano e accentuativo.
Nel 2003 è stata condotta la prima grande campagna di scavo per trovare le tracce di una antica civiltà sepolta nell’Iran, di cui non si sa niente, per mano dell’archeologo iraniano Madjidzadeh. Pare che abbia un tipo geometrico di scrittura mai rinvenuto prima. Alcuni ipotizzano che si tratti di Aratta, città citata dai poemi sumerici, altri che si tratti di Marhashi, citata dalle tavolette di Akkad. In ogni modo dagli scavi si è capito che era una civiltà molto avanzata e antichissima, sorta in Iran, dove a quell’epoca non si ipotizzava ancora che potesse sorgere qualche cosa di sofisticato culturalmente. I manufatti e le costruzioni dimostrano che essa era profondamente sincretistica: si richiamava spessissimo a motivi mesopotamici.
Marco Calzoli