di Gianluca Padovan
24 maggio 1915. Il Piave mormorava… ma nessuno diceva la verità. L’Internazionale socialista non voleva la guerra, ma proprio chi di fatto tirava le fila del socialismo e del comunismo preparava con cura lo scontro che avrebbe irreversibilmente ribaltato i giochi politici ed economici dell’Europa e, a cascata, del resto del mondo.
Prendiamo la rincorsa e facciamo un saltino indietro, al 1903. Il comunista e massone Benito Mussolini è arrestato in Svizzera, a Berna, per attività sovversiva. Al museo ne conservano ancora i documenti. Dimorava colà dall’anno prima, ovvero dal 1902, in quanto renitente alla lava militare e apertamente antimilitarista. Sulla sua tutt’altro che specchiata attività d’arlecchino novecentesco ricorderò solo due cose: sul finire del 1914 si fa acceso promotore dell’entrata in guerra contro i nostri alleati tedeschi ed austroungarici fondando i «fasci di azione rivoluzionaria».
La seconda cosetta è persino più intrigante: il generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris appoggia Benito Mussolini in parlamento. Il nostro Fiorenzo era giunto alle massime onorificenze concedibili da casa Savoia per aver represso nel sangue la sollevazione popolare di Milano nel 1898. Il gioco gli fu facile. Con poco più di diecimila soldati ai suoi ordini e tra attacchi alla baionetta e cariche di cavalleria raggiunse le ambite medaglie facendo sparare sui milanesi con i cannoni, a palla piena e a mitraglia. Tanto quelli erano disarmati. Si ricorda che la rivolta del Popolo Italiano del 1898 s’era accesa in Sicilia, a Siculiana, per il rincaro dei generi alimentari, la mancanza di lavoro e le tasse salate da pagare; fattore, questo, che ha sempre caratterizzato casa Savoia prima e casa Italia dopo. Fiorenzo stava proprio nel palmo della mano del reuccio savoiardo, capo formale della massoneria italiana, analogamente ai regnanti inglesi, a loro volta capi della massoneria britannica.
Il Piave mormorava… ma nessuno tra gli ufficiali d’alto grado diceva la verità. Intanto chi non contava, ed era la vera e propria carne da macello in una Italia tenuta assieme da forze dell’ordine e dalle baionette dell’esercito, nonché dalle navi da guerra della marina militare, marciava verso il fronte. Uno su tre con fucile ad avancarica. Per chi fosse ignaro di faccenduole belliche si ricorda che già da un pezzo si usava il fucile a cartuccia metallica e a retrocarica.
In quel maggio fatale del 1915 il Deutsches Alpenkorps si prepara a scendere in Italia per dare man forte agli Austriaci e il giorno 23 maggio truppe bavaresi varcano lo spartiacque alpino. La conca di Cortina d’Ampezzo è sempre stata splendida, oggi un po’ meno a causa dell’urbanizzazione selvaggia. Le truppe italiane la occupano e cominciano a spingersi, senza troppa fretta, forse perché incantati dal paesaggio, o per mancanza di ordini coerenti, verso nord. Una pattuglia composta da soldati austriaci e tedeschi avanza incautamente verso Sella Fiorenza, ma è attaccata e sbaragliata: «Gli italiani s’accorsero con stupore d’aver catturato dei soldati di una nazione con la quale non erano ancora in guerra» (Luciano Viazzi, Le aquile delle Tofane 1915-1917, Mursia editore, Milano 1976, p. 23).
Che storia sarà mai questa? Beh, per dirla tutta l’Italia (o forse dovrei dire il Popolo Italiano costretto dalle forze dell’ordine) muove guerra solamente all’Impero d’Austria e Ungheria, alleato dell’Impero di Germania. A quest’ultimo si dichiarerà guerra un annetto più tardi.
Nel frattempo noi ci guardiamo bene dall’interrompere i rapporti commerciali con i Tedeschi. Al proposito, chi sarà colui che intraprenderà le ricerche per chiarire come e perché nei porti dell’Adriatico si scaricavano materie prime, le quali venivano poi caricate sui vagoni ferroviari destinati a varcare il Brennero e andare in Germania? O forse è solo una “leggenda metropolitana”?
Ma torniamo al fatto che si dichiara guerra agli alleati austroungarici e tedeschi. Da trattato con essi potevamo rimanere tranquillamente neutrali, quindi non sparare nemmeno un colpo di fucile, perché al termine del conflitto, comunque fosse andato, avremo ricevuto le cosiddette «terre irredente». Ma gli altri, ovvero i nostri futuri “alleati” (Francia, Inghilterra e “compagnia bella”), ci avrebbero dato più o meno le stesse cose se fossimo entrati in guerra al loro fianco. Quindi sparando più d’un colpo di fucile e tradendo.
Credo che l’attenzione debba però essere spostata su di un altro piano, tanto per fare chiarezza sulle commemorazioni liberative delle «terre irredente», che tra un po’ i nostri media ci propineranno a pioggia. Lo spazio sulla Madre Terra va misurato in cadaveri? Ovvero, le cosiddette «terre irredente» necessitavano di essere date in scambio con 650.000 morti e un paio di milioni di feriti? E questo senza contare le perdite causate all’avversario. Ovvero «il Nemico». Queste sono le cifrette “ufficiali” delle perdite italiane, ma che sarebbero meglio quantificabili, stando alle “leggende metropolitane”, in un milione di morti e quattro milioni di feriti.
Un mio conoscente comunista, anni addietro, quando ancora in giro si palesava la bandierina rossa con falce e martello, mi disse che il popolo italiano aveva trovato la propria unità e la propria consapevolezza di «popolo» nel sangue versato nel corso della Grande Guerra, ovvero nella Pri
ma Guerra Mondiale: «… lottando, soffrendo e morendo assieme nelle trincee si sono guadagnati la dignità d’essere un popolo unico e unito». La mamma mi ha fatto d’animo mite e gli risposi solo per le rime. Io, d’altro canto, ho sempre saputo (ma sarà anche questa una “leggenda metropolitana”?) che un popolo si forgia con la rettitudine, con la consapevolezza, con l’istruzione, con il lavoro e, soprattutto, nel rispetto della vita umana.
ma Guerra Mondiale: «… lottando, soffrendo e morendo assieme nelle trincee si sono guadagnati la dignità d’essere un popolo unico e unito». La mamma mi ha fatto d’animo mite e gli risposi solo per le rime. Io, d’altro canto, ho sempre saputo (ma sarà anche questa una “leggenda metropolitana”?) che un popolo si forgia con la rettitudine, con la consapevolezza, con l’istruzione, con il lavoro e, soprattutto, nel rispetto della vita umana.
1915, trincee italiane sul monte San Michele. «È questa la prima linea?», scrive l’allora ufficiale Carlo Salsa nel suo libro Trincee.
«Signorsì. Tutte buche come questa», gli viene risposto.
Le trincee sono profonde un metro, protette da pochi sacchetti un tempo pieni di terra, ora sforacchiati, sfondati, ma rinforzati da innumerevoli cadaveri che stanno sotto, di lato, di traverso, e il tutto è amalgamato da un fango tenace, oramai fetido come l’aria circostante e come la terra di nessuno, tra i due schieramenti, zeppa di morti che imputridiscono.
Ed ecco, abbastanza ben esemplificato, il concetto patriottico espresso dal comunista poc’anzi citato: «Di notte due vedette vigilano dietro lo sbarramento: gli altri soldati del plotone devono rimanere passivi, in attesa, gremiti come durante il giorno, nella lordura. Ma, nell’oscurità, si può strisciare su e giù come bisce, tra i grovigli delle gambe e gli impacchi pantanosi dei corpi sdraiati (…). Durante tutto il giorno nessuno può muoversi: si cerca di sonnecchiare nelle ore di calma (…) i cecchini guatano con una selvaggia avidità sulla preda, con pazienza implacabile. Sanno che qualcuno si dovrà pur muovere; e attendono (…). Quando odo la trafittura di una fucilata, guardo su, pel camminamento: talvolta un cenno di assicurazione ridente, talvolta un ammucchiarsi di schiene curve, un ferito che sarà portato giù a sera, o un morto che stanotte verrà buttato fuori, sugli altri, come un sacco di zavorra» (Carlo Salsa, Trincee, Mursia editore, Milano 1982, p. 67).
Da chi e come è stata concertata a tavolino la Grande Guerra?
Tra poco, 24 maggio 2014. Il fiume Piave continua a mormorare, ma chi dirà la verità?
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