16 Luglio 2024
Preistoria

Il Polo opposto – Rita Remagnino

Nei testi indù il monte Meru era chiaramente il Polo Nord sul quale i pianeti giravano da sinistra a destra. L’emisfero inferiore veniva percepito invece come una montagna invertita, la sede dei demoni, o Asura. Laggiù si trovava la dimora di Yama, il dio dei morti, che per l’esattezza era nato al Polo Nord ma dopo il decesso fu nominato guardiano del Polo Sud.
Si tratta di una narrazione mitologica, o di un capitolo di Storia delle Migrazioni? Ad un certo punto del suo travagliato cammino, il Sapiens sceso dal Nord andò a popolare il Sud? Oppure, l’emisfero meridionale era già abitato da stirpi autoctone, le quali si spostavano né più né meno dei gruppi umani settentrionali? L’ipotesi è plausibile: se infatti nel periodo considerato le condizioni climatiche erano molto diverse dalle attuali al Nord, si presume che lo siano state anche al Sud.

Può darsi che la catastrofe di Toba abbia interrotto i collegamenti per un po’, forse per millenni, facendo in modo che l’una parte (il Nord) tagliata fuori dall’altra (il Sud) si sviluppasse autonomamente; ma il ricordo della reciproca esistenza deve avere accompagnato il cammino degli antenati ancestrali per un lungo periodo, come pure la memoria delle rotte oceaniche che indicavano i punti di approdo sparsi sull’Oceano Pacifico, a quei tempi punteggiato da una miriade di terre emerse, senza contare la rassicurante presenza della piattaforma di Sahul.
Riguardo alla parte australe del pianeta, le conoscenze attualmente in nostro possesso si fermano ai popolamenti relativamente recenti da parte di stirpi negroidi di alcune aree dell’Asia meridionale. Tracce di questi meticciamenti sono riscontrabili dall’India alle Filippine. In modo assai singolare, tuttavia, i melanesiani e gli australoidi rispetto ai sud-asiatici presentano un fenotipo differente.
Recentemente in Australia sono venuti alla luce utensili litici, macine, avanzi di ocra ed altri pigmenti risalenti a circa 65.000 fa. Chi li ha forgiati? Prima di rispondere a queste domande vale la pena di soffermarsi sul genoma degli aborigeni australiani, che, pur contenendo percentuali di DNA sia di Sapiens sia di Denisova, mostra una netta dominanza di quest’ultimo, il quale risulta a sua volta superiore del 4% rispetto a tutti gli altri popoli della Melanesia.
Purtroppo fino alla fine del secolo scorso le datazioni risalenti a circa 60.000 anni fa non venivano prese in considerazione dal mondo accademico, incapace di spiegarle. La cosiddetta «scienza» si è limitata ad avanzare l’ipotesi della discendenza degli australo-papuani da due diversi gruppi provenienti dall’Eurasia meridionale e orientale, i quali si sarebbero fusi in Oceania attorno ai 39.000 anni fa.
Nasce da questo presupposto la narrazione del Denisova siberiano che partendo dal Nord ha raggiunto il Sud, non si sa bene per quale motivo né a fare cosa, visto che la Siberia di allora offriva ogni bendidìo. L’affermazione si avvale del recupero in Australia di manufatti chiaramente denisoviani quali resti di focolari, ossa abilmente lavorate di animali, aghi da cucito, un magnifico bracciale in clorite verde scuro, eccetera. Indubbiamente il Denisova in Oceania c’è stato; ma quali erano le sue origini?

 

Il terzo uomo

Gianfranco Drioli nel saggio Iperborea ha paragonato il ritrovamento dei resti dell’Homo di Denisova nella ricerca genetica alla scoperta del bosone di Higgs nel modo scientifico. La riesumazione nel 2010 sui Monti Altaj di alcuni resti di una donna X vissuta in un periodo compreso tra 70mila e 40mila anni fa (media statura, carnagione abbronzata, capelli castani) ha inferto un nuovo colpo all’ottocentesca teoria monocentrica che colloca in Africa il ceppo umano originario, ridando contemporaneamente voce alla teoria policentrica sostenuta dal consesso dei paleontologi e degli archeologi russi, tra i quali vi è l’insigne Anatolij Derevjanko.
Nell’attesa di ulteriori sviluppi la narrazione ufficiale resta dell’idea che gli Aborigeni australiani siano nati dall’unione di genti autoctone con gruppi «eurasiatici» di Denisova giunti a più riprese nell’emisfero australe. Ma se davvero è andata così, da quali genti erano costituiti i «gruppi autoctoni» di cui si parla? Chi popolava il Polo Sud in tempi preistorici?
Certo il sospetto della presenza nell’altro capo del mondo di una cultura alternativa a quella del Sapiens mina il primato del civilizzatore bianco, tralasciando però l’orgoglio di parte si può proseguire l’indagine, ovvero passare alla prova del nove: “cui prodest?” Per quale motivo il Denisova avrebbe dovuto lasciare l’allora rigogliosa savana tropicale siberiana, accollandosi per di più i rischi di un viaggio lungo 8.500 chilometri? Mosso da curiosità, o da spirito di avventura, non avrebbe potuto spostarsi in senso orizzontale anziché in verticale?

Essendo una specie poco numerosa, risponde con prontezza l’archeologia ufficiale, i gruppi che la componevano non avevano la forza sufficiente ad espandersi nel cuore dell’Eurasia. Questi signori spieghino, allora, come hanno fatto a raggiungere l’Oceania. Tracce di DNA denisoviano sono state trovate non solo in Australia ma anche in Indonesia orientale, Papua, Nuova Guinea, Isole Fiji e Polinesia [immagine 1]. Al contrario nel continente eurasiatico nessuna stirpe, nemmeno tra le popolazioni autoctone più defilate e meno ibridate, reca nel proprio patrimonio genetico percentuali di DNA del Denisova, fatta eccezione per i Tibetani che grazie a una variante del gene EPAS1 riescono a respirare meglio ad alta quota.
Il fatto è quanto mai sospetto, oppure eloquente se si sposta l’angolazione dell’inquadratura. L’unico dato sicuro tra tante incertezze riguarda il mezzo di trasporto: il Denisova viaggiava a cavallo, al contrario del sedentario Neanderthal che invece il cavallo lo cacciava e se lo mangiava. Alcuni ritrovamenti datati attorno ai 40.000 anni fa ed effettuati nella grotta di Mandrin, nel Sud della Francia, hanno riportato alla luce piccole punte in selce (un centimetro appena) e resti di un femore di cavallo con impressi segni compatibili con quelli delle armi suddette che confermano l’uso dell’arco e delle frecce per colpire le prede.
Detto ciò, la storia del Denisova rimane incompiuta. Sappiamo che ha viaggiato per svariate migliaia di chilometri ma ignoriamo il motivo di tale scelta, che pure deve esserci stato. Solo da pochi decenni l’uomo ha iniziato a muoversi per sport, ovvero per far girare la ruota dei consumi, ma in tempi preistorici i gruppi umani si spostavano per reali necessità. Non potrebbe darsi, dunque, che troppo concentrati a studiare la fuga del Sapiens dai ghiacci artici i ricercatori abbiano trascurato gli analoghi allontanamenti da quelli antartici?
Il freddo è freddo da qualsiasi parte lo si guardi, e, com’è noto, le calotte polari sono interdipendenti. Ribattezzato il «terzo uomo» dopo il Sapiens e il Neanderthal, il Denisova potrebbe essere stato dunque il navigatore antartico che in tempi primordiali solcò gli oceani (Indiano e Pacifico) in cerca di terre più tiepide dove stare. In fuga dal gelo la sua stirpe approdava sulle coste dell’Asia mentre nell’emisfero opposto quella del Sapiens scopriva le Americhe e il Nordeuropa.
Il fatto che Homo Sapiens nel corso dell’ultima Era Glaciale abbia rappresentato la specie dominante, cioè vincente, non significa che appartenesse all’unica stirpe in grado di viaggiare e scoprire nuovi mondi. Dopotutto la separazione dei rami nel grande albero dell’evoluzione umana era già avvenuta da un pezzo (si stima 400.000 anni fa), perciò i discendenti dell’Homo Erectus si erano moltiplicati, come e dove lo diranno il Tempo e la Storia.

 

La lampadina bruciata

La stessa Tradizione primordiale ricorda la presenza all’inizio dell’attuale Ciclo di una «Luce del Nord» accanto a una «Luce del Sud» spiritualmente tellurica e culturalmente matriarcale (J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno). Per quale motivo entrambi i barlumi di civiltà non avrebbero dovuto brillare d’ingegno con la stessa intensità? Perché non sarebbero stati altrettanto capaci di spostarsi, camminare, navigare, scoprire e colonizzare?
Forse l’ipotesi del Denisova «antartico» (dal greco antarktikós, «opposto all’Orsa») anziché «siberiano» è più realistica di quanto si creda. Mentre la sua biografia ufficiale è stata costruita su una base alquanto fragile: al Polo Sud il ghiaccio esiste da almeno 122mila anni. Non importa se si moltiplicano i rilevamenti che segnalano sotto il manto ghiacciato l’esistenza di un enorme arcipelago che in tempi preistorici potrebbe avere favorito una discreta mobilità navale [immagine 3]. Un fatto tra l’altro noto agli iniziati di tutte le epoche, come dice e non dice la mappa dell’Antartide stampata nelle ultime pagine del racconto fantascientifico (?) di Jules Verne La sfinge dei ghiacci (1897).
Sembra ormai certo che l’Antartide Minore fosse relativamente sgombro dai ghiacci fino al 4000 a.C., trovandosi al di fuori del circolo polare, ovvero distante da esso circa duemila chilometri in direzione nord. La qual cosa appare del tutto normale se si considera il fenomeno del «ghiaccio provvisorio» dovuto all’estrema mutevolezza del clima della Terra, che oggi non può essere nominata neppure per sbaglio, pena l’accusa di negazionismo climatico.
E le immense quantità di alberi fossili che stanno riemergendo dalle nevi di entrambi i Poli? Come spiegano i sostenitori del «ghiaccio perpetuo» la supposta disparità di condizioni tra il sopra e il sotto? Vogliono farci credere che una parte del globo è ricoperta di ghiaccio da 122mila anni mentre quella opposta ha avuto un clima temperato fino all’ultima glaciazione? Come ha fatto a non «sbilanciarsi» il pianeta?
Oggettivamente sembra improbabile che il Sud sia stato un cimitero bianco (il regno dei morti di Yama) mentre al Nord sterminate distese erbose ospitavano grandi mammiferi, cavalli, bisonti e rinoceronti, tutti animali presenti tra i 70mila e i 12mila anni fa. Vero è che i ritrovamenti sono maggiori al Nord e scarsi al Sud; ma, siamo sinceri, quale investitore sarebbe disposto a giocarsi il proprio capitale per scavare sotto un manto di ghiaccio spesso in media due chilometri con punte di quattro? Il tutto gratis et amore dei, dato che l’Antartide è protetto da un trattato internazionale che vieta qualsiasi tipo di estrazione fino al 2041.
Stando alle teorie vigenti, i casi sono due: o sono sbagliati i dati che riguardano il Nord, cosa abbastanza improbabile, oppure sono mere supposizioni quelli riferiti al Sud. Ma se si prendono per buoni i dati relativi alla Siberia-Beringia-Alaska (che indicano concordemente un clima temperato in questa zona prima del 10.800 a.C.), allora vanno ritenuti validi anche quelli che descrivono una situazione analoga sul fronte antartico. Dove, mistero nel mistero, ad un certo punto la «luce» citata dalla Tradizione si è spenta, lasciando invece accesa la Luce del Nord.

 

Materiali biologici o culturali?

Presto i cambiamenti climatici smaschereranno gli illusionisti della Storia divulgando tutto (o quasi) quello che c’è da sapere. Già oggi profonde fratture si stanno aprendo sotto la massa antartica e il ghiacciaio di Pine Island, il più grande di tutti, è entrato in un processo irreversibile di scioglimento. Sembra che al livello del sostrato roccioso si stiano insinuando le acque sempre più calde degli oceani. In genere le fratture si formano ai margini delle calotte di ghiaccio, dando vita agli iceberg, stavolta però la spaccatura si è verificata a circa 32 km all’interno, un evento inedito che promette clamorose sorprese.

Alcuni ricercatori prevedono il crollo totale della lastra di ghiaccio «all’interno delle nostre vite», cioè nel giro di pochi anni, causando un aumento del livello dei mari di oltre tre metri e la relativa scomparsa di un numero imprecisato di città costiere. Ma non è il caso di prendere alla lettera i pronostici della «comunità scientifica» meno affidabile della Storia dell’Umanità, la stessa che dieci anni fa prevedeva l’avvento di una mini-Era Glaciale nel periodo 2030-2040 e adesso dice invece che moriremo tutti di caldo.
Comunque vada la specie umana si adatterà, come del resto ha sempre fatto. L’importante è mantenere accesa la «luce» dello Spirito giacché l’essere umano non è fatto soltanto di un corpo e di un cervello. Nessuno di noi è il frutto della semplice evoluzione biologica. Dai batteri agli animali marini, ai mammiferi, all’Homo Sapiens; e così eccoci qua: pallidi, di media statura, grassottelli, con pochi peli e tendenti con l’età alla calvizie.
Ovviamente nel corso del tempo le modificazioni biologiche sono state numerose; tuttavia, al netto della credenza religiosa di stampo darwiniano in una direzione evolutiva preordinata, appare piuttosto strampalata la teoria del progresso lineare capace di trasformarci da esseri dotati di strumenti litici a scimmie bipedi, quindi in umani moderni. Se anche fosse vera una tale speculazione ammetterebbe tante di quelle eccezioni da rompersi la testa nel tentativo di spiegarle tutte.
Probabilmente non siamo neppure le uniche creature viventi provviste di un pensiero simbolico, come sostengono invece i seguaci dell’antropologo Terrence Deacon. Scendiamo una buona volta dal piedistallo e siamo seri: quanto ne sappiamo delle forme di comunicazione altrui, quelle insite in certi fenomeni di mimetismo animale e vegetale? Ad esempio: qualcuno conosce fino in fondo i processi interni che guidano le api durante la nota «danza» in cui avviene lo scambio di informazioni sociali relative alla traiettoria e alla distanza di un campo fiorito?
Possediamo solo una vaga idea della «cultura degli altri», ovvero del motore che aziona i processi biologici di ciascuna specie, e, tutto sommato, anche della nostra. Non sappiamo dire, infatti, per quale motivo la «Luce del Sud» si è spenta mentre la «Luce del Nord» è rimasta accesa. Tuttavia un’ipotesi può essere avanzata: forse la sfolgorante affermazione del Sapiens nella Storia non è dipesa dal vigore del suo corpo né dalle qualità del suo cervello (sempre lo stesso da almeno 100mila anni) bensì dalla sapiente introduzione di un nuovo modo di produrre e diffondere la cultura.
L’evoluzione culturale potrebbe avere determinato il sorpasso del Sapiens sul Neanderthal e sul Denisova, e questo il Demens dovrebbe tenerlo bene a mente poiché la cultura è la pietra angolare del Tempio dello Spirito che lo sostiene. Ne consegue che nei prossimi anni non gli basterà affermare in linea teorica che la cultura è più importante della «carne», ossia della dimensione biologica dell’esistenza, ma dovrà dimostrarlo nei fatti.
La «crociata contro la ragione» ingaggiata da chi sogna di uniformare l’uomo come ha fatto con le merci va combattuta e vinta. Non c’è scelta. Né servirà alla causa della sopravvivenza della specie chiamarsi fuori da quel «qualcosa» che ormai non possiede più la forma della Storia ma assomiglia piuttosto a un gigantesco e inarrestabile processo, a un titanico scivolamento del terreno. Essere nati in un mondo sbagliato, o particolarmente duro, non significa affatto essere nati ieri.

 

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

4 Comments

  • Michele Ruzzai 12 Novembre 2023

    Complimenti Rita per questa serie, che sto seguendo con grandissimo interesse. In questo articolo hai toccato molto opportunamente il tema della dualità fra le “Luce del Nord” e la “Luce del Sud”, concetto espresso da Julius Evola e che mi ha suggerito una breve riflessione.
    Interessandomi di Preistoria in chiave “tradizionale”, devo dire che mi ha sempre notevolmente incuriosito la differenza di approccio tra Evola e Guénon nell’abbozzo delle linee storiche generali e, pur sussistendo tra i due molte concordanze di fondo (l’impostazione antievoluzionista, la strutturazione ciclico-involutiva anche dal punto di vista spirituale, il tema nordico, la “non-primordialità” della fase atlantidea…), credo anche si possa dire che, in quest’ambito, vi sia una sorta di significativa “specularità” tra di loro: ovvero, se da un lato Guénon non mi risulta proponga mai l’opposizione irriducibile “Luce del Nord/Luce del Sud”, dall’altro lato Evola non mi sembra faccia mai riferimento al concetto – in fondo unitario e quindi di direzione opposta – che corrisponde al “Manvantara” e nemmeno, se vogliamo dirla tutta, a quello correlato di “Umanità” in senso ampio e meta-razziale. Il Manvantara invece per Guénon è ben centrale ed in effetti pare più “omogeneo” al tema di una Trazione Primordiale unica, di origine boreale, che poi si sarebbe dispersa ed “adattata” in mille rivoli, anche apparentemente molto dissimili tra loro e dalla non semplice riconducibilità ad un’unica fonte arcaica.
    Ti confesso che, su questo specifico punto, come approccio di base mi sento più vicino a Guénon, anche se il mio tentativo generale è sempre stato quello di provare a riconciliare le due vedute e di cercare tra i due Autori più i punti di contatto rispetto a quelli di divaricazione: magari spiegando le differenze non tanto con delle visuali radicalmente opposte ma soprattutto con “ambiti” diversi che vennero esplorati dai due. E cioè uno più “profondo” del francese, ed uno più “prossimo” – anche cronologicamente parlando – del romano, quando ormai una netta dicotomizzazione Nord/Sud si era già consumata nei Primordi, ma sempre partendo da una fonte unica, ed allo sguardo indagatore veniva a proporsi con particolare evidenza la netta polarizzazione tra Borealità ed Australità.
    Non dimenticherei nemmeno che, forse molto più di Guénon, Evola fu “figlio del suo tempo”, con chiare influenze sul suo pensiero che gli giunsero da Bachofen, da Wirth, ed anche da molti razziologi anteguerra, per i quali sappiamo bene che pronunciare certe parole non erano “tabù” come lo sono oggi.
    Dal mio modestissimo punto di vista, quindi, la “Luce del Sud” non la vedrei tanto come una fonte “primaria” – in ottica dualistica, opposta e perfettamente speculare alla Luce del Nord – ma piuttosto come un particolare “riflesso” di questa, esattamente come il Raggio luminoso va ad incontrare il piano orizzontale: facendo un’analogia, se il Nord è Sole, il Sud è Terra e la “Luce del Sud” e Luna. Ovviamente tutto questo piano di esistenza è “Terra” – noi compresi – ma il Sud la esprime in misura cosmologicamente massima e la differenza delle varie “riflessioni” così prodotte può forse trovare una sua interessante rappresentazione nella parallela varietà delle fasi lunari che Selene mostra a noi. Ecco, forse, una possibile strada per provare a riconciliare il “monogenismo” di una fonte primaria (da Nord: una forma sovrumana “sottile” come la Hamsa? E/o un “puro-Sapiens” primordiale?) ed il “poligenismo” delle Razze prodotte (per incontro/incrocio dei primi con varie “meridionalità”: cioè popolate da diversi substrati “pre-Sapiens” derivanti da Manvatara precedenti? Ovvero Denisova, Neanderthal, Erectus, Floresiensis, e chissà quanti altri?).
    E, in conclusione, non trascurerei nemmeno il fatto che l’attribuzione di una sovrastimata importanza alla “Luce del Sud” può forse trovare una sua ragione proprio nell’essenza stessa del nostro tempo: il Kali Yuga non spinge cioè per sovvertire ed addirittura “invertire” il senso delle regolari gerarchie cosmiche? E cosa vi è, in fondo, di antropologicamente più vicino al concetto di “Luce del Sud” se non la teoria di un’origine umana a meridione dell’equatore, come la ben nota “Out of Africa”?
    Mi fermo qui per non essere troppo prolisso e ti rinnovo i miei sinceri complimenti per questi tuoi eccellenti scritti.
    Un caro saluto.
    Michele

  • Rita Remagnino 12 Novembre 2023

    Caro Michele, le tue riflessioni sono preziose. Anch’io come te ho il “vizio” della Preistoria ma molte questioni non mi sono ancora del tutto chiare, com’è logico che sia trattandosi di avvenimenti vecchi di decine di migliaia di anni. Per questo motivo apprezzo sopra ogni cosa la discussione e il confronto.

    Personalmente stento a vedere la “Luce del Sud” come un riflesso della “Luce del Nord”, percependola piuttosto come qualcosa di diverso, sebbene non necessariamente contrapposto. Credo inoltre che anche noi come Evola siamo “figli del nostro tempo”, ovvero inclini alla visone unipolare e refrattari a quella multipolare, motivo per cui ci viene spontaneo attribuire una certa qual supremazia alla Borealità, ovvero al Sapiens dal quale discendiamo.

    Ciò nonostante è assai difficile dire oggi quale tipo di “equilibrio” esistesse prima che la catastrofe di Toba separasse i mondi, ovvero interrompesse le comunicazioni precedentemente favorite dal Pacifico, che era l’internet dei primordi. Convenzionalmente siamo propensi a vedere il Nord come la Luce e il Sud come il Buio; ma quanto questa categorizzazione dipende dalla struttura duale del nostro modo di ragionare? Io non lo so, ci sto lavorando.

    Dovessi seguire l’istinto mi sento “artica” fin nel midollo, ma cosa abbia determinato la costituzione genetica del mio (nostro) codice interno resta un mistero. Non ho nulla contro il Denisova, ci mancherebbe, ma siccome lo percepisco lontano, o differente, ad un certo punto di questo mio viaggio all’indietro lo abbandonerò per dedicarmi al Sapiens-Neanderthal-Cro/Magnon, che sono i miei Grandi Avi.

    Il Sapiens ha conquistato il mondo attraverso il suo modo assolutamente innovativo di fare e diffondere la cultura; noi, i suoi legittimi eredi, per cosa saremo ricordati? Non oso pensarlo.

    Un abbraccio.

  • Daniele Bettini 12 Novembre 2023

    Interessante,ma allora la domanda conseguente che mi pongo è,Kumari Kandam/Lemuria da chi era abitato originariamente?
    https://www.indiadivine.org/kumari-kandam-lost-continent/?utm_source=id1&utm_medium=all&utm_campaign=55kumari

  • Rita Remagnino 12 Novembre 2023

    Daniele Bettini, ottima domanda. Risposta: per certo non lo sappiamo, ma a rigor di logica il continente scomparso era più vicino al Sud che al Nord. Com’è noto la cultura Tamil indica come culla della propria civiltà proprio il mitico continente scomparso di Kumarikkandam, o Kumari Nadu, citato anche nel poema epico “Manimekalai” e sede di preistoriche scuole di saggezza. Improvvisamente questa terra situata a sud dell’attuale Capo Comorin sarebbe stata inghiottita dalle acque, quindi i profughi (proto-dravidici) si sarebbero diretti verso nord-est in cerca di nuove patrie, e lì avrebbero incontrato gli indo-ariani.

    C’era vita a Sud, come al Nord. L’intenzione però sarebbe quella di trattare separatamente del Pacifico e dell’Atlantico, cioè degli incontri/scontri etnici avvenuti nelle rispettive aree marine. Ci vorrà dunque ancora un po’ di tempo prima di arrivare a Lemuria … non vorrei precorrere i tempi. Sto procedendo a piedi, non ho un cavallo né una barca.

    Grazie, un caro saluto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *