8 Ottobre 2024
Cultura

Il ponte – Lorenzo Merlo

Parole al vento di cui soltanto alcuni, agli sgoccioli della generazione, avranno modo di cogliere il senso. Per tutti gli altri, i giovani e quelli che verranno, saranno pensieri di un mondo di cui non avranno consapevolezza, rappresentato dai sussidiari di regime come l’era buia dalla quale ci si è finalmente liberati.

Ci stanno spingendo. Con cani da guardia intelligenti, a cui non serve più mostrare i canini, ci fanno avanzare verso l’imbocco del ponte. È una transumanza che lascia i pascoli analogici, a misura d’uomo, per portarci a quelli digitali, algoritmici e disumani. Come altrimenti nominare la cultura, la società, la politica, gli ideali, i valori, l’educazione fondata sul relativismo?

Tuttavia nel pensiero che considera il relativismo un traguardo raggiunto, da esibire e vantare, è nascosto, si muove il germe del nichilismo. Che non è una corrente filosofica, ma uno stato esiziale dello spirito umano. Una condizione in cui, inconsapevole del doloroso significato che implica, l’uomo celebra la separazione dalla propria trascendenza. Lo condanna ad un’esistenza che i cattolici chiamano Inferno, che i buddhisti e altri riempiono di sofferenza. Uno stato in cui il maligno ha campo libero, e la potenza e la creatività degli uomini sono limitate al loro proprio ego.

Il relativismo è considerato un bene conquistato dall’attuale società del pugno di mosche, in contrasto a quella fondata sui gerarchici, inequivoci, duraturi valori tradizionali. Come in questa sussistevano le solidità identitarie e sociali, all’opposto nell’attuale, transumanistica, dominano i pensieri e le idee propri di un ordoindividualismo a tutto esteso. L’aveva già detto Zygmunt Bauman nel 1999 (1).

La persona, entità base della comunità, che poteva analogicamente relazionarsi a tutto il mondo, è divenuta individuo, entità incapace di comunità se non digitali, virtuali, dall’identità effimera, in quanto aggregata al momento della bisogna, spesso del piacere o dell’interesse personale. Un essere che con due soldi è stato convertito in consumatore e, in quel solo modo, a sua insaputa soppesato. Poi, algoritmicamente anticipato, paurosamente reso prevedibile, digitalmente sempre più sorvegliato. La vita a punti, da guadagnare o perdere in funzione dell’ubbidienza o meno ai canoni che ci attendono al di là del ponte, ne rappresenta l’epilogo. Tutti schedati o, se reietti, progressivamente emarginati dai servizi sociali, fino alla loro resa, autodistruzione o eliminazione.

Il capitalismo della sorveglianza, diversamente da quanto qualcuno lo crede, limitato e alimentato soltanto dai social, dove tra gridolini e cianfrusaglie tutti mettono in pubblico diverse profondità di se stessi, si attua in assai più numerosi percorsi. Riconoscimento facciale e vocale, digitalizzazione pervasiva di tutti gli aspetti della vita, velocità di trasmissione dati, inoculazione informatica. Naturalmente, tutto presentato come progresso, tecnologia salvifica e servizio di miglioramento della vita. Uomini ridotti a dati, elaborati da algoritmi in costante raffinazione che, a boomerang, indurranno loro – quando e dove – a gridolinare, – come e perché – a cianfrusagliare.

La volontà di relativismo è dunque una corrente in cui i pesci convertiti all’individualismo trovano cibo in abbondanza. Una conversione spontanea, che non ha richiesto né spada né solennità d’investitura. L’adepto è infatti desideroso di entrare in scena, di far parte del futuro che verrà. Lo fa con senso di responsabilità, dedicandosi all’ambiente con l’auto elettrica, alla riduzione del riscaldamento globale con la rinuncia al porco e al manzo, all’abbraccio dei diritti individuali; aderendo al politicamente corretto, alla demolizione di ruoli, alla criminalizzazione del parere contrario al proprio. È un individuo che s’indigna se scrivi finocchio, ma che non fiata davanti al ripugnante comportamento dei media d’informazione. Che, sorridendo, riduce a slogan le menzogne di stato.

Lo fa in quanto del tutto ignaro che l’industria della paura non è argomento da complottista, ma una banale osservazione che, forse, per essere compiuta richiede di scendere dal divano. Un’industria che ha anche il monopolio della comunicazione, a sua volta solido sostegno del femminismo di superficie e della bandiera a otto colori. Quella così orgogliosamente e allegramente sventolata nelle piazze, nella cultura, nella politica, nelle istituzioni. Che insieme a quelle della biotecnologia e della bioingegneria, in una grande festa virtuale, conclamerà che la transumanza è stata compiuta. Ormai, da ogni dove si diffondono i suoni e i canti del melodioso concerto che sta accompagnando il gregge sereno e danzante al di là del ponte. Tutti intenti a cercare fuori da sé come affermarsi, inconsapevoli del potere che è nel proprio sé, che neppure sanno cosa sia. Ignari della bellezza come guida e del benessere come ordinarietà. Al loro posto, ora, inseguiamo i loro lontani surrogati, succedanei offerti dall’opulenza e dalla menzogna dei farmaci.

È un’industria estesa, capillare, in grado di inquinare spirito, pensieri e azioni. Che si sposa con la société sécuritaire. Colei che ci vende sicurezza un tanto al chilo, ma sotto clausola, che ci impone una connessione permanente. Che ci ha resi assuefatti e quindi dipendenti, tanto che quella connessione ora è pretesa. Fin dall’infanzia.

Osservazioni banali che, oltre che gravi, sono anche una premessa di atroce garanzia: le culture saranno cancellate, le parole significheranno altro o l’opposto, e le identità saranno a piacere, i bonus faranno sopravvivere gli inutili impegnati in guerre tra poveri, intelligentemente pasturate da chi sa come gira il fumo. La Neolingua di 1984 (2) ne è stata la consapevole anticipazione, ora pienamente in atto.

Perduti ed esauriti nel ciclo dei desideri, gli uomini, assuefatti e dipendenti, vorranno sempre nuovi giri di giostra. Finché esausti, alieni a se stessi, non saranno gettati fuori, lungo qualche tangente marchiata dall’arco nero della depressione, della psicopatologia, della disperazione, dell’ansia permanente, dell’angoscia mortificante.

È il frutto della pianta del nichilismo. Cibo potenzialmente destinato a tutti, e latentemente appeso su tutti come la Spada di Damocle della postmodernità. Alimento che, sebbene con difficoltà, potrà essere rifiutato soltanto da coloro che avranno distinto la natura apparente ed effimera dell’io da quella eterna e infinita del sé. Da quelli che si saranno emancipati dalla logica dell’egocentrismo e, dunque, da quella dell’antropocentrismo. Vera dottrina dell’attuale mattanza spirituale.

 

Note

  1. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Bari, Laterza, 2011.
  2. George Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2016.

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