Nedo Nannicini era un ragazzo come tanti, uno studente che a diciassette anni sentì di dover correre in aiuto alla sua amata Patria, lasciò la famiglia e si arruolò volontario nell’esercito della RSI. Dopo l’addestramento entrò a far parte del Battaglione Bersaglieri “Mameli” che subì pesanti perdite, nell’Appennino Tosco-Emiliano, durante la strenua difesa contro l’avanzata degli anglo-americani. Il giovane Nedo morì insieme a tanti altri ragazzi come lui e la lettera che scrisse alla madre resta il suo testamento spirituale. “Vi prego di non piangere e pensate che quando alla Patria ho donato la vita, non ho dato niente…”
Il primo nucleo dei bersaglieri si era costituito a Verona, presso la caserma “San Zeno”, nella seconda metà del mese di settembre del 1943 per libera iniziativa del Tenente Colonnello Vittorio Facchini che aveva raccolto e inquadrato giovani volontari e reduci, da vari fronti, desiderosi di combattere ancora. In seguito con l’arrivo di altri uomini e dei giovani chiamati alle armi si formò il definitivo Reparto intestato a “Luciano Manara” composto da tre Battaglioni, il “Mussolini”, Il “Mameli” e il “Toti”.
Un alto esempio di sacrificio portato oltre ogni limite venne dal fronte orientale, dove proprio il Battaglione Bersaglieri Volontari “Mussolini” si trovò in estrema difficoltà di fronte a preponderanti forze di soldati e partigiani jugoslavi. I primi contingenti a essere impiegati furono inviati nel goriziano lungo il confine dove era necessario contrastare la pressione che gli slavi esercitavano per sfondare il fronte. I nostri soldati si attestarono lungo una linea di circa venti chilometri, con capisaldi, presidi e postazioni disposti a protezione della ferrovia e delle vie di accesso dalla Jugoslavia. Gli attacchi delle nostre squadre da combattimento erano molto efficaci per la grande mobilità dei gruppi, la loro capacità di manovra e l’addestramento avuto, tanto da infliggere costantemente forti perdite al nemico rappresentato dal IX Korpus sloveno. Poco meno di un migliaio di bersaglieri contro un’unità che schierava 7/8000 uomini.
Le Fiamme Cremisi del Mussolini nonostante le durissime condizioni, fecero fronte agli attacchi: scontri, agguati, imboscate quotidiane, che contrastarono con forza ed eroismo, non cedendo di un solo passo contro gli slavi e ne uscirono sempre vittoriosi difendendo con onore il nostro tricolore fino alla fine della guerra.
Quando il 30 aprile del 1945, dopo la morte del Duce e la definitiva sconfitta delle truppe repubblicane, anche essi si arresero, non avrebbero mai immaginato di dover pagare tanto caro il loro eroismo.
Le condizioni di resa firmate con la Jugoslavia prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e il fermo dei soli ufficiali onde accertare eventuali responsabilità, ma i titini non si attennero al rispetto degli accordi presi e invece di liberare i soldati li fecero prigionieri e li condussero nei pressi di Tolmino, lungo la valle del torrente Becia, dove subirono interrogatori e sevizie. In quel doloroso frangente in pochi riuscirono a mettersi in salvo dandosi alla fuga, mentre dal 1 al 21 maggio, a più riprese, circa novanta fra ufficiali e volontari furono condotti sul greto dell’Isonzo e fucilati. A un gruppo di questi toccò una fine anche peggiore: condotti dentro una caverna, situata in un monte chiamato “Pan di Zucchero” presso Tolmino, restarono sepolti vivi perchè fu fatto saltare l’ingresso.
I sopravvissuti a tale mattanza furono incolonnati e, dopo un’estenuante marcia senza cibo né acqua, giunsero al campo di prigionia di Borovnica. Coloro che non erano morti di stenti e fatica durante il trasferimento, morirono a causa dei trattamenti disumani, delle malattie e delle torture.
Il Battaglione Bersaglieri Volontari Mussolini, subì nell’arco del conflitto circa 400 perdite di cui per ben 220, oltre la metà quindi, si tratta di soldati che perirono dopo il 30 aprile del 1945, a guerra finita. Il 26 giugno del 1947 soltanto 150 bersaglieri dopo aver superato gli stenti di vari campi di prigionia, poterono fare ritorno in Italia.
Chiudo col ricordo di due fratelli ravennati Arrigo e Alberto Tieghi, Si erano innamorati del cappello da bersagliere del loro cugino Aldino vedendo le piume sventolare al suo passaggio e avevano aderito volontariamente al Battaglione dei bersaglieri. Si distinsero per coraggio, resistenza fisica e morale. Nell’agosto del 1944, nella zona di Tolmino i due fratelli insieme si trovavano a difesa di un posto avanzato, con grande determinazione riuscirono a tenere la posizione continuando a colpire con la mitragliatrice gli assalitori che sembravano moltiplicarsi mano a mano che cadevano davanti a loro. Quando finalmente arrivarono i rinforzi e i nemici si ritirarono, fu proprio il cugino a trovarli: Arrigo morto ma ancora abbracciato alla sua arma e Alberto gravemente ferito. Appena dimesso dall’ospedale quest’ultimo volle tornare a combattere, al momento della resa, fu fatto prigioniero dai titini e morì per i maltrattamenti e le sevizie nel campo di Borovnica.
“Signor Comandante, se dovrò soccombere, morire per la mia idea, per la mia fede – la Patria – le persone che mi amarono impareranno attraverso queste pagine a conoscere meglio il mio animo, il mio carattere, la mia persona, sempre tesi al raggiungimento di uno scopo: la grandezza dell’ Italia. Sarò fiero di aver fatto questo gesto: (…) bisogna gettare l’anima oltre ogni ostacolo. Chi non è pronto a morire per la fede, non è degno di professarla.” (Alberto Tieghi – dal suo diario).
Abbiamo parlato la settimana scorsa del comandante Borghese, ma come si evince da questi numerosi esempi, in quelle ore cruciali egli non fu il solo a dimostrare grande coraggio e coerenza.
A Bordeaux, in Francia, aveva sede la base italiana dei sommergibili atlantici, comandata dal capitano di vascello Enzo Grossi. Egli apprese dell’armistizio, mentre si trovava proprio alla base (Betasom), erano le ore 20 dell’8 settembre quando ricevette un telegramma firmato da Supermarina:
”Distruggete i sommergibili italiani, restituite i sommergibili tedeschi e domandate mezzi necessari per rimpatriare con materiale e personale dipendente”
Un ordine del tutto inconcepibile per la gravità della richiesta ed era vergognoso anche solo pensare di chiedere i mezzi di rientro ai tedeschi dopo averli traditi. Ciononostante la sorpresa venne proprio da loro, racconta Grossi nel suo libro “Dal Barbarigo a Dongo”, alle 21 della stessa sera ricevette la visita del Capo di Stato Maggiore tedesco che, dopo avergli confermato la sua stima, gli comunicava quanto il suo generale, Comandante Supremo in Francia, si rendesse conto della situazione in cui egli si veniva a trovare e gli offriva la possibilità di riparare in Spagna con la famiglia e con denaro sufficiente a far fronte alle prime necessità. In cambio chiedeva soltanto di non partecipare al conflitto con la parte avversa.
Il Comandante Grossi, non era mai stato iscritto al PNF, ma dolorosamente colpito dalla fuga di Pescara, e dal comportamento più che corretto dei suoi alleati di sempre, declinò la gentile offerta e decise di non obbedire agli ordini vergognosi ricevuti dall’Italia. Lasciando la capitale il sovrano aveva abbandonato la Patria e il comandante ritenne invece di dovervi restare fedele. “Secondo il giuramento prestato dagli ufficiali il sovrano avrebbe potuto chiedere loro la vita, ma mai l’onore.”
Immediatamente chiamò a rapporto i capiservizio della base ed espresse la sua determinazione a continuare la guerra a fianco dei Tedeschi, con cui collaborava oramai da due anni. Tutti gli ufficiali, tranne due che scelsero di arrendersi, rimasero ai suoi ordini, così pure l’80 per cento dei militari e il 100 per cento del personale civile di base. A quel punto, il giorno 12, si presentò a colloquio con l’ammiraglio tedesco Donitz e ottenne da questi tutte le garanzie di indipendenza che aveva chiesto.
In quel momento poteva disporre di tre sommergibili a Singapore pronti a ritornare alla base; di altri due mezzi il “Finzi” e il “Bagnolini” pronti per intraprendere il loro viaggio verso Singapore e di dieci piroscafi italiani ormeggiati lungo la Gironda. In ottobre racconta Grossi che riuscì a rimpatriare 4000 internati IMI dai campi tedeschi, ottenne i locali necessari per aprire tre caserme a Montpellier, Nizza e Mentone e altrettanti centri di raccolta per sbandati, tutti luoghi in cui sventolava ancora il tricolore italiano.
Betasom prese il nome di “Base atlantica dell’Italia repubblicana” e Grossi cominciò una vasta azione per far giungere a Bordeaux i marinai che si trovavano fuori dai confini. Grazie al suo coraggio e alla sua decisione di tenere fede all’impegno preso, furono proprio i marinai in Francia gli ultimi dei nostri soldati ad arrendersi e soltanto il 17 maggio 1945 a Saint- Nazaire.
Per la sua scelta, il comandante Grossi pagò pesanti conseguenze dopo il conflitto. Verso la fine della guerra, al precipitare degli eventi, si trovava in Italia e racconta: “Il giorno 11 maggio del ’45 venni tradotto al carcere di Como. Nella cella n.22 di San Donino conobbi il generale Emilio Castelli, vice Federale di Como, Saletta ed altri. In circa 20 metri quadrati eravamo in 22 detenuti; dovevamo dormire con le gambe piegate su pagliericci adagiati al suolo. Devo subito dire che fui oggetto di riguardo da parte dei partigiani, non così può dire Castelli ch’io ho visto, varie volte, rientrare grondante di sangue per le percosse avute durante i cosiddetti interrogatori. E poi venne la condanna a morte del povero Saletta. Prima che lo conducessero nella cella dei condannati a morte, col questore Pozzoli, Egli volle confidarsi con me; si doleva di lasciare la giovane sposa incinta. Gli feci intendere che purtroppo non c’era nulla da fare all’infuori di morire bene; (…..) Nel frattempo in casa mia erano stati i partigiani, capitanati da Giovanni Leone, che avevano fatto piazza pulita di tutto quanto era loro capitato sottomano. Mia moglie fu letteralmente cacciata di casa e trovò rifugio presso famiglia amica sopra il garage di una villa; doveva stare nascosta per non compromettere quelle generose persone che avevano avuto il coraggio d’ospitarla assieme ai due bambini: Adriana di dieci anni e Benito Carlo di 16 mesi.” (racconto autobiografico tratto dal libro “Dal Barbarigo a Dongo” di Enzo Grossi).
Per quasi un anno fu un peregrinare da un carcere all’altro d’Italia, interrogatori e vessazioni fino al 1946, quando cedendo alle preghiere della moglie e attenendosi ai consigli del suo avvocato, accettò di usufruire “dell’amnistia Togliatti”, promulgata a giugno.
Durante la sua carriera Grossi aveva compiuto imprese eroiche, meritato riconoscimenti e medaglie, ma una volta rilasciato si trovò povero, senza alcun sostentamento e senza più nessun bene di proprietà, così per sopravvivere e mantenere la famiglia fu costretto a fare il commesso viaggiatore. Nonostante Giovanni Leone in seguito, avesse firmato una dichiarazione in cui ammetteva che i suoi uomini si erano macchiati del delitto di furto ai danni di Grossi, egli non ebbe mai nessun risarcimento.
Nel febbraio del 1948, rendendosi conto che non riusciva a guadagnare quanto necessario per il mantenimento della sua famiglia, lasciò definitivamente l’Italia per trasferirsi in Argentina.
Non dovette così assistere allo scempio che di lui fece la commissione speciale d’inchiesta istituita nel 1949 dalla Marina Militare Italiana, al fine di far luce sulle sue imprese quando era al comando del sottomarino Barbarigo. La commissione composta da quattordici ammiragli, molti dei quali accusati di connivenza col nemico da Antonio Trizzino nel suo famoso libro “Navi e poltrone”, escluse categoricamente che il comandante Grossi avesse anche solo attaccato nel 1942 navi da guerra di qualsiasi tipo appartenenti alle marine statunitensi, inglese o di altre nazioni nemiche. Operazioni per cui era stato promosso e decorato al valore. Improvvisamente da eroe divenne così un millantatore, già radiato dai ranghi della marina per aver aderito alla RSI, venne anche privato delle medaglie ricevute per gli affondamenti delle corazzate.
Nell’autunno 1962, a vent’anni dai fatti, una seconda commissione compì un più attento e responsabile lavoro di indagine per stabilire la verità storica, giungendo a conclusioni ben diverse: riconobbe la buona fede di Grossi (anche se non venne mai reintegrato nei ruoli), accertò gli errori della precedente inchiesta e appurò che i due attacchi in questione erano stati condotti anche se, a loro dire, non vi era stato un affondamento.
Un po’ tardi per cercare in qualche modo di riabilitarlo e di ridare onore e dignità a un eroe che aveva sacrificato tutto per la sua Patria e che per sopravvivere era stato costretto a emigrare.
“Avvenivano fatti di tale nefandezza che le generazioni che verranno stenteranno a crederle” (“Navi e Poltrone” – Antonio Trizzino)
Nelle ultime parole del testamento politico del Duce si trova l’esortazione per gli Italiani “rimasti fedeli ai principi” ad essere “cittadini esemplari”.
“Essi dovranno rispettare le leggi che il popolo vorrà darsi e cooperare lealmente con le autorità legittimamente costituite per aiutarle a rimarginare, nel più breve tempo possibile, le ferite della Patria…”
Mussolini con l’enorme amore per l’Italia e gli Italiani che lo contraddistinse, non avrebbe mai potuto immaginare quanto le autorità succedutesi dal 1945 in poi sarebbero state di basso livello. Parliamo di uomini di Governo, di politici, di galoppini e portaborse mossi esclusivamente da interessi di partito o di loggia, che hanno operato per loro tornaconto in antitesi a principi di etica morale, onestà e integrità fino al completo annientamento della sovranità popolare e monetaria, consegnando il Paese a organismi internazionali estranei alla nostra cultura, con carattere burocratico, finanziario e bancario, sfruttando termini come “libertà” e “democrazia” così allettanti e al tempo stesso così generici da essere stati abusati proprio dai regimi più oppressivi.
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