Ho incontrato il Quinto Stato. E’ accaduto stamattina, sul presto, nel mio quartiere. In meno di mezz’ora e nel raggio di poche decine di metri, ho verificato l’esistenza del Quinto Stato. E’ qui, l’ho incontrato e perfino toccato. Conosciamo l’antica divisione della società in tre ordini, risalente al Medioevo. Il primo ordine, o Stato, era costituito dal clero; il secondo dai nobili. Il terzo, teoricamente, da tutti gli altri. La sua rappresentanza, negli Stati Generali francesi, fu affidata ai membri della nascente borghesia, che fece la Rivoluzione e seppellì per sempre il passato. Il suo vate fu l’abate Sieyès, autore di un fortunatissimo libello che incendiò la Francia all’inizio del fatidico 1789. Con il lessico di Gyorgy Lukàcs, potremmo dire che fu l’ecclesiastico di Fréjus a dare al Terzo Stato una coscienza di classe, a partire dalla celeberrima frase “che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa desidera? Diventare qualcosa“. La borghesia tagliò la testa del Re e inaugurò la modernità.
Nel corso dell’Ottocento, la polemica socialista iniziò a parlare di Quarto Stato, ovvero del proletariato contadino e operaio le cui file si ingrossavano all’ombra della rivoluzione industriale, dell’urbanizzazione forzata, della nascita delle grandi fabbriche. La sua rappresentazione artistica è il grande dipinto del 1901 del piemontese Giuseppe Pellizza da Volpedo: una folla compatta e ordinata che incede verso il futuro, fiduciosa nella Storia, con alla testa una giovane madre con il figlioletto al collo e due uomini, i contadini più combattivi. Vi è in questo quadro di grandi dimensioni e gigantesche ambizioni, il senso di una composta dignità, una sobria eleganza pur nella semplicità popolana degli abiti e degli atteggiamenti, un avanzare irrevocabile, inevitabile di uomini e donne che si sentono comunità in marcia decisi a cambiare la loro condizione tutti insieme.
Travolto dalla postmodernità fattasi surmodernità, il Quarto Stato si è dissolto alla fine del secolo XX che aveva inaugurato e poi attraversato con tante speranze. Al suo posto avanza, o meglio retrocede in un nuovo feudalesimo la poltiglia umana che ci sentiamo di definire Quinto Stato. Surmodernità è la parola chiave per spiegare il Quinto Stato. L’espressione coniata da Marc Augé tratteggia gli eccessi sofferti da un’umanità immersa in una tripla accelerazione: eccesso di tempo, per la fatica di dare un senso alla realtà nella sovrabbondanza di eventi ed informazioni; eccesso di spazio per la velocità di spostamenti in un mondo sempre più piccolo. Infine, l’eccesso di ego, l’individuo che si considera un mondo a sé a discapito della dimensione comunitaria. Nel terra desolata, guasta della surmodernità ribolle un’umanità rizomatica, il Quinto Stato. L’ho incontrata a pochi passi da casa, una mattina qualunque, perché per una volta ci ho fatto caso. Accanto al supermercato in apertura staziona un giovane maschio africano, sbarcato da qualche barcone e portato qui dalla Marina Militare. Per nulla denutrito, meno male, sorridente, ospitato a spese nostre per non fare nulla, per non essere nulla, mi appare come un gadget vivente e inconsapevole della contemporaneità. Ha uno smartphone con le cuffie, la maglietta di un gruppo rock, il giubbetto con cappuccio e scarpe sportive d’imitazione delle grandi marche che producono in Asia. Vuole un suo piccolo posto nel grande circo del mercato globale, non cerca né si aspetta più un’esistenza “normale”.
Oltre l’elemosina, aiuta le signore con il carrello della spesa, ogni tanto dà una mano a pulire qualche giardino privato. Quando i commerci sono chiusi ciondola con altri come lui – sembrano fabbricati con lo stampino – e poi sale sul bus, dove ovviamente non fa il biglietto e non viene multato, tanto non potrebbe pagare. Stamane gli è passato accanto un ragazzo con tatuaggi tribali e un piercing nel naso, zainetto di marca sulle spalle, lo stesso smartphone, le medesime cuffie, abbigliamento e andatura fotocopia, la differenza è che le griffe di abiti e scarpe sono autentiche. Va a scuola “firmato”, è un po’ in ritardo ma non si affretta, i professori saranno abituati. Dalle movenze e dal suono attutito dalle cuffie, sta ascoltando un rap, probabilmente Young Signorino (Mhh, ma che buona/ questa dolce droga bu, bu / Mhh, ma che buonabu, bu) o Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, re del Trap, la cui popolarissima Tran Tran parla di uno cui non frega niente di nulla, mentre altrove celebra la sua ragazza interessata unicamente a soldi e droga. Giusto il tempo di riavermi, e il quinto Stato, se preferite la Moltitudine desiderante di Negri e Hardt, la vecchia plebe di Hegel, ricompare nelle sembianze di un giovane uomo trafelato, malvestito, forse italiano, forse sudamericano, che, sceso da un ciclomotore da rottamare con una gran borsa a tracolla, si informa su un indirizzo. Consegna posta: se la sua condizione è simile a quella del figlio ultratrentenne di conoscenti, ha la partita IVA (un imprenditore!), lavora almeno nove ore al giorno nel traffico- i rischi sono tutti suoi, è un autonomo, magari rientra nelle statistiche delle start-up- racimolando al massimo tra i 700 e gli 800 euro al mese. Mangia cibo di strada da un cartoccio sporco, porcheria consegnata da un povero cristo come lui, un altro del Quinto Stato.
La mia meta è il negozio di un grande gestore telefonico che ha appena “mangiato” qualche decina di euro per servizi e applicazioni che non ho chiesto, ma solo incautamente digitato credendo di rifiutarle (un giochetto molto comune, sembra) mi metto in fila, ma il Quinto Stato è in agguato. Ha la fisionomia di un corpulento giovanotto sulla trentina accompagnato dalla moglie – più probabilmente la compagna – con bimbo al collo. Indossa una camicia trasandata mai stirata, con pantaloni corti jeans a vita così bassa che mostrano ampie porzioni di un imbarazzante lato B, gambe e braccia rivelano tatuaggi multicolori. Ha un linguaggio pressoché incomprensibile, grugnisce pochi vocaboli anglo dialettali inframmezzati dall’immancabile “cazzo”, manifestamente capisce poco di quanto gli dice il commesso, e si rivolge per soccorso verso la ragazza che scuote la testa, mostrando con una certa fierezza due ciliegie tatuate dietro un orecchio. Il Calibano del Quinto Stato conosce perfettamente tutti i piani tariffari dei gestori telefonici e possiede l’abbonamento a Netflix.
Rassegnato al nuovo che avanza, esco dal tempio dei telefoni cellulari e delle tariffe “all inclusive” per imbattermi in un ulteriore, insidioso esponente del Quinto Stato. Ha le sembianze civilizzate di un compito giovin signore in giacchetta, cravattino e valigetta 24 ore. Figlio di famiglia, spiega di essere socio di un’agenzia immobiliare, cerca appartamenti vuoti da vendere o affittare, dà del tu a tutti e fa capire che pagherà qualcosa per ogni segnalazione positiva ricevuta; nel frattempo cerca di vendere contratti per grossisti di energia elettrica. Un imbroglioncello laccato già pronto ad assumere il ruolo di impiegato d’ordine della globalizzazione. In mezz’ora ho visto e toccato con mano un universo che vent’anni fa era inimmaginabile. Avanza al passo del gambero una nuova imponente classe sociale del tutto ignara di esserlo. Non possiede alcuna coscienza collettiva, né sembra interessata all’impegno: politico, sociale, civile, etico. Vive e tanto basta. E’, in mille forme diverse, il Precario Globale Desiderante. La nuova classe dei perdenti dominati ignari: il Quinto Stato.
Dei cinque personaggi osservati nel mattino di primavera, il meno negativo è l’africano. Scelto dalla famiglia per andare in cerca di fortuna probabilmente perché più forte e robusto dei fratelli, è lo strumento inconsapevole del mondialismo rampante. Simbolo, suo malgrado, delle meraviglie della società multietnica che ignora e di cui nulla gli importa, assolve ad una serie di compiti assegnati dal Potere. Innanzitutto, abbassa le tutele sociali e i salari altrui. Qualunque lavoro o lavoretto gli venga proposto, la retribuzione è inferiore a quella di chiunque altro. Egli non ha altro interesse che fare come può ciò che gli viene chiesto e incassare i pochi soldi pattuiti. Indifferente a tutto ciò che è diverso dal suo orizzonte di sradicato, è il precario per eccellenza della società, stigmatizzato da un lato, simbolo positivo inconsapevole per altri. Non ha, né può avere, interesse alcuno per lotte collettive, per capire e integrarsi nel mondo sconosciuto in cui lo hanno scaraventato. Quando fa qualcosa, è meno di un numero, un lavoratore intermittente come il semaforo di notte. Abbassa i salari, brucia le garanzie sociali esattamente come degrada senza saperlo il tessuto civile e il panorama estetico circostante. Non ha colpe specifiche. Si deve lottare contro l’immigrazione di massa voluta e alimentata, odiare gli sfruttatori in giacca, cravatta e automobile di servizio, la loro globalizzazione assetata di schiavi, il loro tronfio liberalismo, la loro falsa, falsissima società aperta, il soggettivismo e il gretto egoismo di cui sono banditori, non si può prendersela con il Quinto Stato immigrato, ultimo anello di una catena criminale.
Difficile avercela anche con lo studente firmato, perennemente connesso, magari un po’ bullo. Non è responsabile se questo è il mondo, lui guarda, imita e, come gli altri, vuole la sua parte. Il Primo Maggio avrà visto il concerto organizzato dai sindacati. Lì, tra stanche parole d’ordine di cui non sa nulla, per lui solo fastidiose interruzioni della musica, i capi di antiquate organizzazioni chiamate CGIL, CISL, UIL cercano ogni anno di salvarsi l’anima, o certificare la propria esistenza in vita, pagando veri e presunti artisti che fingono di contestare a cachet la società dello spettacolo e del mercato. L’autogol di quest’anno è clamoroso. Hanno invitato il citato Sfera Ebbasta, che si è presentato sul palco con due Rolex, simboli del più rivoltante consumismo “di classe” (sociale) e ha urlato che non gli frega di niente, naturalmente dopo aver incassato l’assegno firmato Camusso. Sincero, l’astuto Sfera, in linea con i dettami del mercato, simbolo del disimpegno, della regressione individuale, oltreché responsabile pro quota del degrado dei gusti non solo musicali di milioni di nerd del Quinto Stato.
E’ il cantore della generazione Uber. Meglio viaggiare a pochi soldi, chi se ne frega se il poveraccio che ci trasporta è un immigrato irregolare che magari dorme sull’automobile o un padre di famiglia reduce dal licenziamento per delocalizzazione. Ciò che conta è che tutto sembri costare poco, come le stanze affittate attraverso Airbnb, i viaggi lowcost.il cibo di strada, la musica scaricata su Spotify.La giornata di costoro è scandita dai continui post su Facebook, le foto su Instagram in attesa del giudizio altrui sotto forma di “mi piace” o soffrendo per gli insulti e le derisioni dei compagni di tastiera. Ansia da prestazione e da giudizio collettivo, come gli aspiranti cantanti e cuochi televisivi: per me è no, scandisce il Giudice, sostituto surmoderno della plebe degli anfiteatri romani con potere di vita e di morte, pollice alzato o abbassato. Oggi il pollice è diventato uno dei più utilizzati emoji, i pittogrammi che sostituiscono le parole nella messaggistica afasica di massa. Whatsapp non per caso è proprietà di Mark Zuckerberg. Estraneo a qualunque approfondimento, gran utente dei Bignami sotto forma di app e Wikipedia che tolgono lo sforzo di imparare e ricordare, il Quinto Stato è convinto che la felicità sia viaggiare continuamente- in genere senza capire nulla dei luoghi dove si trova e delle persone che incontra – se è molto giovane liberarsi della tutela dei genitori, tranne la funzione di ufficiali pagatori che volentieri continua ad accettare, vivere qualunque esperienza, comprare o almeno consumare nuove merci e nuovi servizi. Un Quinto Stato liquido, cui basta alzare lievemente la temperatura perché diventi gassoso e precipiti verso il basso anziché salire in alto come in natura.
Fattosi adulto, è pronto a divenire il Cretino Globale, deciso a dire la sua su tutto via etere, insultando, offendendo, entusiasmandosi o odiando a comando eterodiretto. Più grande sarà la sua ignoranza, maggiore la sua pretesa di esprimere, con poche frasi e tanti strafalcioni, un’opinione definitiva che nessuno potrà scalfire. Non lo sa, ma è un prodotto di scala, uno tra i tanti. A suo modo, è riuscito perfettamente. Lo hanno voluto così: consumatore compulsivo, mobile, infedele a tutto, privo di principi radicati, “muta d’accento e di pensier” ogni giorno. Sogna New York City, vive in una bolla di cosmopolitismo da centro commerciale senza elevarsi dalla suburra locale. Ha in tasca un diploma, non di rado una laurea, ma sa pochissimo di tutto. Fuori dalla specializzazione strumentale in cui è stato istruito, è una tabula rasa riempita solo dai messaggi commerciali e dalla musica imposta dal sistema di intrattenimento. Non sospetta neppure di essere una pedina di un gioco molto grande e comunque non ne è turbato, purché possa consumare, dare sfogo agli istinti.
Il Terzo Stato ha assorbito i primi due, si è fatto nuovo Principe e ha organizzato un perfetto sistema per continuare a dominare, sfruttare, guadagnare. Ha colonizzato l’immaginario, comprendendo che le prime idee da cancellare erano la dignità, la consapevolezza, l’etica. Tutti principi senza valore perché non calcolabili in denaro. Ha distrutto la cultura popolare e quella borghese, screditato ogni concetto “alto”, deriso qualunque concezione spirituale, verticale, aristocratica della vita, sino a costruire la sua creatura prediletta, la Moltitudine plebea prigioniera del Desiderio. Diego Fusaro, giovane filosofo torinese, ha dedicato l’ultimo suo libro alla figura del Precario, convinto di individuarne il potenziale rivoluzionario. Non ne siamo persuasi. L’autore di Minima Mercatalia ha certamente le migliori intenzioni, la sua voce resta una delle più importanti nell’asfittico panorama “contro”, ma pensiamo che l’errore neomarxista consista nell’immaginare un’umanità che si rivolta contro i suoi padroni unicamente in nome della ragione economica. Non va fino in fondo nel denunciare il male.
Eppure, una sua immagine ci ha colpito. E’ quella del quadro di Pellizza da Volpedo messa a confronto con una realizzazione di Massimo Bartolini, dal titolo My fourthhomage, visibile nello stesso museo milanese che ospita Il Quarto Stato, di cui intende essere omaggio e controcanto post moderno. La fotografia di Bartolini presenta i perdenti di oggi colti fermi, con i piedi affondati nella terra, privi di movimento, senza un ordine, ciascuno vestito e atteggiato in modo differente, con gli sguardi vuoti e privi di direzione. Cento anni dopo, a vittoria acquisita del liberalcapitalismo sulle altre grandi narrazioni ideologiche del secolo Ventesimo, tale è la condizione di massa. Nessuna speranza, nessun avvenire verso cui tendere, nessun cammino comune. E’ un’immagine potente quanto straniante, la prova di una sconfitta epocale. Ma resta la rotta di un materialismo nei confronti di un altro, più abile, scaltro, corrivo, capace di narcotizzare proprio perché non è in grado di suscitare consenso. La sua forza diventa il non dissenso, la rassegnazione, il sonno, il riflesso animale, pavloviano, di chi desidera e si avvolge nelle spire di bisogni e desideri sempre nuovi.
Due pensatori radicali americani, Nick Srnicek e Alex Williams hanno scritto di recente una sorta di manifesto per il Quinto Stato: Pretendi la piena automazione; pretendi il reddito universale; pretendi il futuro. Un testo che riteniamo assai gradito all’iperclasse dei potenti padroni di tutto. Viene teorizzata la morale dello schiavo che si accontenta di consumare con denaro altrui, svalutando il lavoro e l’impegno personale, spostando ogni lotta dal terreno della dignità a quello della richiesta di consumo. Verrà accolta, non temano. Se questi sono gli oppositori, il sistema può dormire tranquillo, il Quinto Stato non darà preoccupazioni. La difficoltà, anzi la tragedia che viviamo è quella di generazioni tanto intensivamente diseducate da volere, desiderare, pretendere esattamente ciò che conviene al potere. Manca un ceto intellettuale di riferimento che indichi una via. E’ scomparsa, per dirla con le parole di Hegelaccolte da Marx, la “coscienza infelice” di chi si rende conto del male in atto e batte strade alternative. Ciò che sfugge ai nemici del liberalcapitalismo di ascendenza marxista è la stretta parentela tra il loro universo ideale e quello nemico.
Hanno lottato con tutte le forza per distruggere la cultura popolare e quella dei ceti superiori. Destrutturare, decostruire, demitizzare. Ci sono riusciti perfettamente, realizzando inconsapevolmente il lavoro dei liberali, il cui orizzonte è oltrepassare ogni limite. Screditata la morale naturale, irrisa la famiglia, ucciso il padre, gettata nell’inconsistenza ogni forma di spiritualità, bombardate le casematte delle religioni e della morale, vince il più forte che, inevitabilmente, è chi sa mentire meglio ai popoli. La menzogna comunista si è rivelata meno duratura di quella liberalcapitalista. Non resta che tessere una tela diversa, nella quale l’uomo torni a recuperare tutte le sue dimensioni. Esiste la festa dionisiaca e l’ordine apollineo, la materia ma anche lo spirito, lo sguardo rivolto in alto, i diritti come i doveri, il consumo insieme con la gioia della frugalità e della vita comunitaria.
Hanno costruito un’umanità di terz’ordine, scomposta, priva di centro, dedita all’istinto, regressiva. Hanno eliminato diritti naturali e sociali, facendo credere che il desiderio, il capriccio, l’istinto elevato a norma siano sacri diritti individuali. Hanno creato un Quinto Stato disumanizzato, deplorevole, privo di argini, miliardi di atomi gettati a caso in un mondo a cui hanno sottratto ogni domanda di senso. Se mai avverrà, ee ne uscirà soltanto attraverso forme di restaurazione della coscienza. Qualcuno sa immaginare il significato di onore, dignità, decoro, spirito, morale, famiglia, identità, lotta, sforzo collettivo, per la post umanità del Quinto Stato?
Il Terzo Stato del 1789 ha vinto trasformandosi come uno Zelig, nazionalista nel secolo XIX, antiborghese permissivodopo il 1968, neo-feudale-mondialista a seguito della caduta del comunismo novecentesco. La moltitudine, con buona pace di Toni Negri e Michael Hardt, ha perso perché ha fatto suoi i disvalori dell’Altro. Servi senza coscienza e senza livrea, alla fine reclamano solo una fetta della torta. Il Quarto Stato, almeno, cosciente di sé, voleva cambiare e menù, non conquistare un posto alla tavola del Signore.
ROBERTO PECCHIOLI
8 Comments