La notizia è grossa, ma dubitiamo che interessi le masse distratte o i pensosi opinionisti in rianimazione post elettorale. Netflix, la grande casa di produzione televisiva e cinematografica, sollecitata da un’associazione di attori, ha minacciato la Georgia di ritirare i suoi investimenti dallo Stato delle noccioline, bastione del vecchio Dixieland, se non verrà ritirata la nuova legge sull’aborto, più restrittiva rispetto a quella vigente. Il principio mercantile delle sanzioni economiche come arma di guerra, tanto utilizzato dagli Stati Uniti, si estende alla legislazione interna, per iniziativa di un’impresa del rutilante mondo dello spettacolo. Il decreto che indigna produttori e attori si chiama Heartbeat Bill (legge del cuore che batte) e nega la possibilità di abortire, anzi, nella lingua di legno politicamente corretta, di interrompere volontariamente la gravidanza, se il cuoricino del feto, futuro indesiderato membro della specie umana, batte regolarmente.
La Georgia è diventata, dopo la California, il secondo set cinematografico d’America, l’economia legata alla produzione di spettacolo è importante ad Atlanta e dintorni. Netflix ricatta e dichiara di agire a difesa delle donne che lavorano per le sue produzioni, “i cui diritti, insieme a milioni di altri, saranno severamente limitati da questa legge”, preannunciando altresì una battaglia legale contro il provvedimento. Non intendiamo addentrarci nel dibattito culturale sul tema cruciale dei diritti, invocato da un’impresa di comunicazione su un tema che non riguarda la sua attività. Ci limitiamo a una considerazione: riteniamo una forzatura trattare l’aborto come diritto. Non abbiamo il paraocchi, riconosciamo che in talune circostanze il ricorso all’aborto possa essere necessario. Ma neghiamo recisamente che il tema della vita, della sua accoglienza e della sua soppressione volontaria possa essere liquidato nei termini di un diritto soggettivo indiscutibile ad abortire, dal quale è esclusa la società nel suo complesso (il nascituro è un futuro membro della comunità) e il padre della vita in formazione, cui appartiene il 50 per cento del patrimonio genetico della creatura, o, per utilizzare il linguaggio materialista, del grumo di cellule destinato a divenire essere umano.
Torniamo alla notizia. La prima reazione è l’indignazione: chi è Netflix per ergersi a giudice delle decisioni sovrane delle istituzioni politiche georgiane? Quale senso comune anima il nostro tempo per far accettare – al di là del tema in questione – un’ingerenza così grave e, in generale, impedire una rivolta morale contro l’utilizzo sempre più massiccio e spregiudicato del dominio economico privato per ricattare il potere pubblico? A coloro che attribuiscono ai mohicani “comunisti” o alla sinistra marxista le peggiori derive dell’epoca, facciamo rilevare che Netflix è una multinazionale dello spettacolo tesa al profitto, che opera in una società di mercato con volumi d’affari miliardari. Il nemico, piaccia o meno agli ultimi nostalgici degli schemi del passato, sta lì, nel cuore del liberismo economico fattosi universalità, ideologia obbligatoria, pervasiva e totalitaria. Il castigo, per chi non pensa come loro, è la rovina economica, la condanna alla povertà attraverso il ritiro degli investimenti. Letteralmente, tolgono il sangue dalle vene: il liberismo di Dracula.
Capì molto Karl Marx, considerando lo spettacolo, di cui Netflix è impresario, un’inversione della vita. “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un immensa accumulazione di spettacolo” è parte dell’incipit del Capitale. Oggi lo spettacolo è esso stesso mezzo di produzione, in termini di formazione del consenso. Vale oggi più degli anni in cui fu scritta la nota definizione di Guy Debord: lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini. L’industria che lo diffonde, posseduta e dominata dagli stessi che detengono il potere finanziario, tecnologico e informativo, spinge fortemente la società dei “diritti”, dei quali l’aborto è un simbolo. E’ parte integrante dell’oligarchia che si è attribuita il potere sulla vita e sulla morte. Dovremmo prendere atto una volta per tutte che la lotta finale è tra la civiltà della vita e la plumbea cultura della morte, travestita da libertà, diritti, progresso.
Abbiamo letto alcuni commenti all’iniziativa di Netflix apparsi sulle reti sociali. Uno applaudiva freneticamente i vertici del colosso mediatico in nome della libertà e delle donne. Non varrebbe la pena commentare l’inconsistenza culturale dei guerriglieri da tastiera se non fosse farina del sacco di una responsabile del centrodestra. Ovunque ti giri, in che mani siamo caduti. Il sistema dell’intrattenimento non è in mano ai bolscevichi. Se i vertici arrivano ad esporsi in prima persona, dopo aver consegnato l’intera filiera ideologica dello spettacolo al cosiddetto progressismo, è perché sanno che si è affievolita la consapevolezza politica del pubblico, sconfitta dall’accumulo di notizie, immagini, desideri indotti, tomba del pensiero critico. Il ricatto del potere è ormai talmente esteso da non essere quasi più percepito. L’unica distinzione è tra le opposte tifoserie di un’umanità puntinista impegnata nell’eterno presente.
Hanno vinto Edward Bernays, primo teorico della propaganda, Lippman e il marketing. Ha perduto la lezione di Vance Packard sui persuasori occulti, che non sono più tali. Rivelano senza problemi il loro volto, come l’amministratore di Netflix (il CEO, all’americana) alfiere dell’aborto libero diritto soggettivo e ricattatore dello Stato della Georgia. L’operazione è talmente evidente e bene orchestrata che alla campana di Netflix risponde il pesante rintocco proveniente dal mondo della moda. I due universi del superfluo, del sogno che discende sulle masse, camminano divisi per colpire uniti. Gucci, la maison del lusso ex fiorentina, oggi proprietà del colosso francese Kering, inaugura la stagione con sfilate orientate all’amore arcobaleno e presentazione di abiti in cui campeggiano slogan abortisti e vetero femministi come “ my body, my choice”, il corpo è mio e lo gestisco io e, in Italia, abiti con la scritta 22.05.1978, data dell’introduzione dell’aborto legale.
Scelte applaudite a scena aperta dalle riviste cult del progressismo effimero postborghese, Vanity Fair e Vogue, le cui testate in lingua inglese danno testimonianza di vacuo cosmopolitismo e assoluta lontananza dal popolo, cui vengono proposti, ovvero imposti, disvalori come la vanità e la moda, anticamere del desiderio di consumo. C’è probabilmente di più: il sistema ha capito di non riuscire a vincere del tutto la sua battaglia di indottrinamento e ricostruzione della personalità di massa attraverso il sistema culturale. Imposta perciò la nuova antropologia del costume con un’azione, per così dire, laterale, sul versante della moda e dei contenuti televisivi e cinematografici che controlla in regime di monopolio. Se non basta, la parola passa ai pezzi da novanta: azionisti di riferimento, grandi managers. La stampa e l’informazione televisiva sono saldamente in mano di quattro o cinque agenzie, i maggiori investitori pubblicitari sono alcune centinaia di multinazionali; la libertà finisce e la democrazia diventa un contenitore vuoto.
L’attacco alla rete, da cui vengono espunti contenuti, principi, parole e persino cognomi sgraditi al mainstream, è in corso con esiti catastrofici. Ma non proviene dal marxismo di ieri, bensì dalla “gente che piace”. Spaventa, come nel caso del dibattito, anzi del non dibattito, sull’aborto, l’assoluta proibizione di veicolare tesi non in linea con lorsignori e i cascami post-Sessantotto di servizio, nonché il divieto assoluto di mettere in discussione i “diritti”. Cosa fatta, capo ha, nessun ripensamento è ammesso nel paradiso del progresso.
Grande è la responsabilità di chi non ha compreso, combattuto e smascherato le lucide follie del linguaggio politicamente corretto. Traiamo dall’interessante saggio di Eugenio Capozzi la seguente riflessione sull’egemonia mediatica del P.C. “E’ necessario guardare alla sua radice economica. Il politicamente corretto esprime gli interessi di classe della borghesia della conoscenza, quella borghesia che si afferma con i baby-boomers. Non è più una borghesia legata all’industria fordista o alla proprietà fondiaria. Basti pensare all’industria hi-tech e a personaggi come Steve Jobs o Bill Gates e a Zuckerberg, che potrebbe essere considerato un nipote dei baby-boomers e della controcultura. Questa borghesia si inserisce nei ruoli dirigenti delle organizzazioni internazionali e nel sistema globalizzato dei media e dei social media. Da qui deriva il monopolio sul mondo della cultura, della comunicazione e sull’università. A tale borghesia, ovviamente, appartengono anche in massima parte le classi politiche occidentali, in particolare nell’ultimo trentennio.”
Smantellato senza complimenti lo Stato sociale, lasciate al loro destino le classi subalterne, in particolare operai, agricoltori, impiegati, piccoli commercianti ed artigiani, lavorano ad una cultura di morte che ha oltrepassato in raggelante cinismo, violenza morale e materialismo nichilista ogni civilizzazione del passato. Hanno cooptato senza difficoltà la parte preponderante dei marxisti di ieri, si veda l’elogio della moltitudine senza volto, desiderante e svincolata dal conflitto di classe di influenti pensatori come Negri e Hardt, l’arruolamento sfacciato di philosophes di lungo corso come Bernard Henri Lévy, l’obliterazione assoluta degli interessi della classe media proletarizzata. Ancora più facile è stato mantenere dalla loro parte i moderati di centro e di destra, conquistati dal consumismo e rassicurati dall’abbandono di toni, linguaggi e obiettivi della sinistra di ieri.
Il risultato è la vittoria con altri mezzi del materialismo più greve unito ad un nichilismo di massa che non esitiamo a chiamare cultura di morte. Non solo sul versante dell’aborto, banalizzato e equiparato all’asportazione di una cisti e nemmeno rispetto al trionfo di una sessualità confusa, compulsiva, tendente all’unisex, ma nella trasformazione antropologica dell’umanità occidentale. Pensiamo al senso della morte: da un lato, essa è rimossa come tabù massimo, dall’altro è presentata come l’unica soluzione ai mali della vita, vecchiaia, malattia, disagio sociale, lontananza dal ciclo produttivo. L’eutanasia è un’altra tappa raggiunta della società obitorio. Risolve in un solo colpo il problema soggettivo di alcuni sventurati, il fastidio di molte famiglie, pareggia i conti dello Stato sociale, della previdenza privata e delle assicurazioni, che infatti hanno largamente finanziato le campagne necessarie a orientare l’opinione pubblica. In alcuni paesi dell’Europa “avanzata”, i medici si trasformano in boia seriali nel crepuscolo della vita, esattamente come altri si vantano di aver praticato decine di migliaia di IVG (restano aborti, ma l’acronimo è più dolce, eufemistico e burocratico).
Gli Stati Uniti, patria di tutto l’armamentario liberale, libertario e liberista, democratico, politicamente corretto, mercantile e ipermaterialista della postmodernità trionfante, stanno frantumando un altro muro, quello del rispetto ancestrale per il corpo defunto. Sappiamo da tempo del riciclaggio (non conosciamo altro termine) di parti di feti abortiti per alcune lavorazioni industriali, conosciamo l’abitudine di annientare – igienicamente, ecologicamente– le spoglie mortali dell’Homo sapiens, non eravamo ancora giunti a legislazioni che autorizzano a usare i resti umani come fertilizzante, materiale da compostaggio, previa asportazione degli organi in buono stato. Come del maiale dei nonni, non si butta via niente del vecchio Adamo. La superba innovazione, frutto del progresso tecnologico e del regresso etico, arriva dallo Stato di Washington. Nessun dubbio che la moda – come sempre spacciata con i più alti contenuti della moralina alla Greta Thunberg – attraverserà presto l’oceano seducendo l’Europa, terra del tramonto. Già informano le statistiche che molti giovani rifiutano di mettere al mondo figli per non aumentare caos e inquinamento. I propagandisti sono all’opera ogni giorno, il sistema mediatico, le stelle di Hollywood, i loro datori di lavoro, Netflix in testa, con a rimorchio la parte più “colta, riflessiva e avanzata” del ceto politico.
Sconvolge il silenzio di quel che resta della cultura europea e delle istituzioni religiose. Ballavano sul Titanic, discutevano del sesso degli angeli a Bisanzio, gozzovigliavano a Roma. Nulla di nuovo sotto il sole, dal tempo dell’Ecclesiaste. Tra Sodoma e Gomorra, denaro superstar, aborto seriale, poliamore, sterilità programmata e dolce morte, la fine è a un passo. Dopo le dissolutezze di Eliogabalo, toccò a Romolo Augustolo, poco più che un bambino, chiudere ingloriosamente la storia di Roma. Non ci resterà che sperare nei barbari alle porte; noi ce ne andremo in silenzio, i vecchi polvere per fertilizzare i campi, i non nati componente di intrugli chimici di consumo. Tremila anni di civiltà rinchiusi in un cloud informatico, la nuvola dell’universo virtuale.
Roberto Pecchioli