“Una torcia finta e bagnata, scambiata per una stella, ha consegnato nuove orde di credenti al termitaio mondiale che tollera le differenze solo se risultano illusorie e prive di fuoco” (1).
Siamo abituati ad una standardizzazione della vita, dei costumi, ed anche il pensiero, la riflessione, purtroppo, soggiacciono alla logica imposta della consuetudine, della banalità, della logica ordinaria. Ciò vale anche nell’ambito della cultura, della letteratura, addirittura dell’esoterismo. Tutto deve sottostare ad un nesso di consequenzialità che ovviamente stride aspramente con il dominio dell’immaginazione, della fantasia, del racconto ispirato, quasi non si avesse paura di condurre l’uomo, l’ignaro lettore in domini che l’odierna società ha ormai abbandonato, quelli dell’ignoto, dell’invisibile, della sfera introspettiva. Un fulgido esempio controcorrente ci è stato offerta da una recente pubblicazione delle Edizioni baresi “L’Arco e la Corte”, nella collana Primordia, diretta dal noto giornalista Manlio Triggiani, firma storica della Gazzetta del Mezzogiorno e da tanti anni ormai animatore della longeva rivista Vie della Tradizione. Nello specifico, ci riferiamo al racconto immaginifico “Il Ritorno oltre il tramonto, redatto da un anonimo autore, che si sigla col solo pseudonimo de “Il Solitario”. Lo stesso titolo presente in nuce due apparenti ossimori con la logica ordinaria: il ritorno presuppone che il protagonista, che nella trama in verità è rappresentato dall’anima stessa dell’uomo, sia originario di un luogo di cui ha perso le tracce, una patria ideale o meno a cui vorrebbe omericamente far ritorno e ciò già si pone in netta antitesi con uno spirito di società, come quella contemporanea, che rifugge dalle radici, che nega ogni atavica appartenenza, che si svolge e si dinamizza in linea retta, verso una perenne proposizione in avanti, smarrendo ogni senso ciclico, tradizionale, spirituale dell’esistenza; il tramonto, inoltre, rappresenta, nella suddivisione della giornata, l’abdicare apparente della luce, il momento dell’oblio, quando, al contrario, secondo ogni intendimento sapienziale, proprio al declinare della luce naturale, si desta ed è possibile riconoscere la luminescenza spirituale. Vi presentiamo, pertanto, un itinerario labirintico, nelle contrade meno logiche o standardizzate che ci possano essere, quelle dell’interiorità umana:
“Il labirinto è il luogo dove oggi ci si perde soprattutto perche, al suo interno, intento e volontà degradano facendosi mero sguardo…Nel labirinto, infatti, c’è la dimora del Minotauro, l’essere ibrido, per metà ragione e per metà arcana forza di distruzione e di riproduzione” (2).
Siamo dinanzi alla trama centrale del racconto, siamo dinanzi alla destrutturazione profonda delle secolarizzazioni filosofiche, della morale, dell’ordinario raziocinante, macerati ove l’uomo stesso sacrifica se stesso e, come in tutte le sublimazioni alchimiche e misteriche, tale palingenesi non può che avvenire che nell’oscurità. La metanoia ovvero il rivolgimento d’orizzonte verso l’origine non può che compiersi in quell’atmosfera ove il Sole non sorge ad Oriente, ma illogicamente ad Occidente, ed ove risuona quella “Canzone del Nottambulo” di nietzschiana memoria, ove gli enti diversi che organicamente affollano la nostra coscienza, si ritrovano nella loro purità esistenziale:
“Ogni diletto vuole eternità di tutte le cose, vuol miele, vuol feccia, vuol ebbra mezzanotte, vuole tombe, e vuole conforto di cordoglio sulle tombe, vuole il fulvo oro del vespro” (3).
Il Fanciullo a cui è affidato l’inesorabile compito di dirimere la matassa intrigata del labirinto, è chiamato, senza esitazioni ad un duplice superamento, dello spazio e dello Spirito. Ove il tempo volge in senso antiorario, quindi ricapitolizza il senso perduto, la dualità spaziale si presenta come un non senso, perché il fondamento non si percepisce secondo una via, ma nella profondità della materia e nella totalità della natura. E quale elemento caratterizza inesorabilmente l’incedere della nostra avventura terrena? Ciò che ci terrorizza massimamente ed la cui apparizione ci rammenta fulmineamente il carattere essenziale di noi stessi, del mondo, della coesistenza pacifica o meno, dell’amore, come dell’odio:
“L’uomo è chiamato a realizzare il proprio cammino con la Morte al fianco” (4).
Il Solitario ricorre al più potente degli aceti filosofali, cioè la paura della dipartita, in cui ci pone dinanzi ad un bivio: la sublimazione o l’annientamento. Se la seconda opzione è dinanzi a noi tutti con la psicopatia imperante della pandemia tecno-liberista, la prima può condurre al senso ultimo della metafisica concreta ovvero l’esperienza, tramite cui lo spirito si fissa e si concilia, equilibrandosi, tramite la propria alterità:
“Non solo i dogmi dell’utilità e della pubblica opinione (ivi compresa quella più volantile ed “elementare” migrata in rete), persino le idee più nobili e la “religione, se non diventano esperienza e realizzazione, rimangono inerti e laiche, come un qualsiasi astratta elucubrazione” (5).
Tutto ciò conduce il Fanciullo protagonista al secondo superamento, quello inerente alla fede, quale supporto esterno, quale vincolo che necessariamente deve essere infranto. Nel racconto l’unica via del narratore si configura essere quella della drittura interiore, che trova, oltre il dogma, la propria sussistenza nella determinazione autocosciente dell’Io. Quanto è possibile ritrovare anche nell’insegnamento tradizionale
“In un’epoca di dissoluzione, questo è dunque il fondo essenziale di una visione della vita appropriata per l’uomo rimesso a se stess che deve dar prova della propria forza. Essere centrali o rendersi centrali a se stessi, constatare o scoprire la supreme identità a se stessi…” (6),
similmente nel labirinto animico è concesso di realizzare in termini di autarchia spirituale, in direzione unica, nella modernità, ove tutti i supporti esterni si presentano illusori:
“io sono, prima che tutto il resto sia” (7).
Infine, la narrazione ivi commentata si presenta come utile strumento di autodiscernimento per il lettore, che liberamente potrà infrangere, immedesimandosi, la logica standardizzata dell’evoluzione lineare del falso progresso. Insomma, il Solitaria potrà ritrovare una degna e qualificata compagnia…
Note:
1 – Il Solitario, Il Ritorno oltre il tramonto, Edizioni L’Arco e la Corte, Bari 2020, p.161;
2 – Ivi, p. 83;
3 – Friedrich Nietzsche, Queste le parole di Zarathustra, Edizioni di AR, Avellino 2011, p. 567;
4 – Il Solitario, op. cit., p. 172;
5 – Ivi, p. 173;
6 – Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, p. 60;
7 – – Il Solitario, op. cit., p. 217.
Luca Valentini