di Mario M. Merlino
A Teheran si svolge un festival del cinema di fama internazionale, di prassi alla fine di giugno, quest’anno, non so il motivo, rinviato a settembre. Sono stato invitato ad essere partecipe, ma il visto tarda ad arrivare. Forse mi vedrò scudo umano a difesa delle centrali nucleari iraniane contro i missili con la stella di David. Uno dei tanti modi, certo il meno indegno, d’essere ridotto ad un frammento del nulla…Bah, da qualche parte dovevo cominciare, io che guardo assai raramente il telegiornale e da anni il quotidiano non disturba il comodino. I libri. Sotto una pila, i cui fogli hanno assunto quel colore avorio sporco e quell’odore di polvere che sa renderli tanto fascinosi, traggo in edizione antica, con copertina di pelle verde bottiglia e stampigliatura in oro, il Rubaiyat di Omar Khayyam. Una raccolta di poesie, il titolo equivale a ‘quartine’, di un poeta persiano vissuto nell’XI secolo (1048-1131), che fu anche matematico ed astronomo celebre. Primo di una robusta tradizione che produrrà, un secolo dopo, una delle figure più alte del misticismo sufi, Jalal al-Din Rumi, fondatore delle comunità di dervisci rotanti. Cantore di quell’’essere un morto che cammina’ dopo aver viaggiato dal sé all’interno di sé…
Khayyam ha esercitato una discreta influenza sulla poetica dell’Occidente, come lo sono stati i filosofi aristotelici Avicenna ed Averroè ad esempio, e qui basterà ricordare François Villon le Maudit e Giacomo Leopardi (si pensi all’Infinito) e Charles Baudelaire e di sicuro Giovanni Pascoli, che lo cita espressamente nel poemetto L’immortalità. I richiami e le concordanze sono talmente tanti che sterminato sarebbe farne un elenco compiuto e sterminato in quanto la poesia, capacità di imporre l’ascolto all’alterità quale domanda fondamentale, non conosce il confine del tempo né il limite della geografia. Essa è e, unica, non abbisogna che di se stessa. Dal nulla al nulla: o la disperata ricerca di un senso da dare al proprio quotidiano o la sua serena accettazione. Questa seconda la scelta del poeta persiano, un percorso la cui vacuità dell’esistere non cerca in grandi ideali o in filosofie onnicomprensive e totalizzanti il rifugio del proprio particolare nell’universale.
‘Errore e verità, dubbio e certezza:/ vane parole, iridescenti o fosche/ bolle di vento. Guardale: dilegua/ la favola così della tua vita’.
Nel gesto rinnovato giorno dopo giorno, circondato dalle piccole cose, l’imperativo ‘nasconditi e sorridi’ s’accompagna a sottile ironia e pungente sarcasmo. Non si tratta di promotore della poetica minimalista, di pennellate dal colore naif, di esaltare il ‘pessimo gusto’ perché la semplicità del verso e dell’immagine non si identificano alla semplicità di un animo incapace di scavare negli abissi profondi del proprio sé e nella vastità dell’universo. Ciò che è interiore emerge con il ritmo cadenzato di cui non fanno parte le cupe tinte del tragico né il grattare angoscia vera o presunta dell’ipotetico lettore. L’occhio che sa vedere e l’orecchio che sa intendere possono vanificare l’ebbrezza del volo su cime eteree ed innevate o inenarrabili distese di silenzi marini. Quelle cime e quelle distese si edificano attraverso la sensibilità raffinata e consapevole.
‘Ecco la sola verità: pedine/ di Dio noi siamo nella gran partita/ misteriosa che di scacchi Ei gioca./ Ei ci muove, ci arresta, e ad uno ad uno/ poi ci lancia nel baratro del Nulla’…
In altro luogo, a noi più prossimo e più antico, una coppa dal bordo sbreccato e rigato da rosso rappreso ci ricorda il vino che in Grecia fu dono del dio Dioniso e che s’accompagnò allo stupro e all’assassinio. Fu da questo dono, inebriante e folle, che nacque la danza del capro (secondo Aristotele) – dei capri (come noi riteniamo), svelamento e al contempo ottenebramento della condizione umana. Come la luce improvvisa che illumina e acceca… Attraverso la poesia di Omar Khayyam quel nulla, l’impensabile se non in contrapposizione all’essere, diviene di ogni essente fondamento oscuro e perverso. In Occidente Parmenide, ‘venerando e terribile’ come ebbe a definirlo Platone, impose quale il solo dicibile l’essere e il dominio della via del giorno. Le maschere, però, finiscono sempre per trovare chi, magari un giovane dal berretto rosso, chiede ragione delle orbite cave e del brulicare di vermi in esse.
‘Non temo il Nulla; oltre la morte io cerco/ la mia gioia suprema. Un Dio m’ha dato/ chiusa in carcere un’anima; sereno/ al richiamo di Lui la renderò’.
Un matematico, un astronomo. Eppure il suo linguaggio è esente da formule e cifre, combinazioni astrali e percorsi siderei. Il vero non sta nella scienza, che vive della provvisoria incertezza d’essere smascherata quale inganno e mai quale legge. Anche la pietra più dura si erode. Parole come pietre, anch’esse prigioniere dell’indicibile, ma nel dare il nome alle cose si fanno pari a quell’intelligenza
che sta nelle mani. E, dunque?
che sta nelle mani. E, dunque?
‘Lampade che si spengono, speranze/ che nel cuore s’accendono. Mattino./ Lampade che s’accendono, speranze/ che nel cuore si spengono. Tramonto’.
Ogni non-senso si risolve in senso quando vivere è il comunque dato, il nonostante tutto. E noi fieri illusi sognatori, spietati con noi stessi, testimoni del divenire conosciamo il tramonto che raccoglie sicuro l’alba a venire…