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30 Marzo 2025
Storia delle Religioni

Il sacrificio di sé – Marco Calzoli

 Il testo giapponese più antico di narrativa è il Kojiki. Questa raccolta parastoriografica fu messa per iscritto quando venne fondata la città di Nara. Prima di Heijōkyō (l’attuale Nara) il Giappone non aveva una capitale: quando un sovrano moriva il suo palazzo veniva raso al suolo in quanto segnato dalla impurità della morte e il sovrano successivo si sceglieva un altro luogo. Invece con Nara il paese trovava definitivamente il suo centro: la città comunicava il messaggio di un nuovo grande inizio. Però Nara fu capitale del Giappone solo dal 710 al 794. Nondimeno il disegno di una capitale stabile si era definitivamente concretizzato e fu ripreso quando venne costruita Heiankyō (l’attuale Kyōto), destinata ad essere la capitale per undici secoli, fino al 1868, quando subentrò Tōkyō, segno di un’altra svolta epocale, l’apertura del Giappone all’Occidente. Ma la costruzione di Nara e la concomitante messa per iscritto delle cronache del Giappone fu un qualcosa che noi occidentali del XXI secolo non possiamo del tutto capire. Come la nuova capitale voleva riorganizzare lo spazio, così la narrativa voleva riorganizzare il tempo. Controllare la forza della parola scritta (narrazione storica con qualche poesia) contro la tradizione orale significava avere il potere sulla storia. Raveri: “Scrivere permetteva di rielaborare selettivamente il passato, di fissare la memoria di certi eventi e renderli paradigmatici – come anche di negarli e sancirne l’oblio – per costruire il senso di una identità nuova per il futuro”.

 Il Kojiki è l’opera giapponese più antica che esista. Nella prima parte troviamo molte informazioni sulla mitologia. Diventa il testo fondamentale dello shintoismo. Poiché tutto nasce dal bisogno di legittimare il potere di Yamato si finisce per dire che in realtà l’imperatore aveva discendenza diretta dalla dea del Sole Amaterasu. Fino al 1946 i giapponesi hanno voluto credere, che effettivamente l’imperatore fosse una persona sacra perché discendeva da Amaterasu. Nel 710 i giapponesi parlavano ma non scrivevano, non sentivano l’esigenza di scrivere la propria lingua, perché tutti gli atti che erano redatti (per esigenza) erano politici e venivano scritti in cinese. Quando si è sentita l’esigenza di scrivere un testo che legittimasse un potere prettamente giapponese il cinese non viene reputata più una lingua adatta a questo scopo, sarebbe stato un controsenso perché si stava formando un nuovo stato ed esprimerlo in una lingua non propria sarebbe stato un segno di debolezza. Il compilatore Ō no Yasumaru scrive l’introduzione dell’opera in cinese, dando anche l’informazione su come si è regolato nell’uso delle lingue. Egli adatta la lingua giapponese alla scrittura cinese. Gli ideogrammi cinesi venivano usati soltanto per il valore semantico, ma alcuni invece vengono usati solo in senso fonetico, per cercare di avvicinarsi il più possibile a parole “giapponesi”. Gli ideogrammi cinesi venivano usati solo per il loro valore fonetico nelle 112 poesie giapponesi contenute nel Kojiki. Motoori Norinaga (1730 – 1801), in 35 anni di lavoro completerà il Kojikiden, un lavoro decodificatore del Kojiki per far capire il contenuto e quello che c’è scritto nel Kojiki (sosteneva che tutto quello che c’era scritto nel Kojiki era una verità scritta).

 Le prime divinità che compaiono nel Kojiki sono dette “uniche”, in giapponese hitori. Si tratta probabilmente del retaggio della credenza in un solo dio. Lo shintoismo è una religione politeista, i suoi dei sono detti kami, ma all’inizio probabilmente credeva in una unica divinità.

 Oggi le religioni monoteistiche sono quelle abramitiche: ebraismo, cristianesimo e Islam. Di queste tre sono il cristianesimo prevede i sacerdoti, cioè coloro che praticano il sacrificio. Il sacerdozio ebraico finisce con la distruzione del Tempio, mentre Maometto ha fondato l’Islam senza prevedere i sacerdoti.

 Nel cattolicesimo il sacerdote dice la Messa: nello spezzare il pane e nel versare il vino, egli offre in sacrificio il corpo e il sangue di Cristo. La Eucaristia è la fonte e il culmine della vita cristiana, da dove derivano tutte le grazie. Padre Pio diceva che Dio non distrugge il mondo, nonostante gli innumerevoli peccati degli uomini, per via del sacrificio della Messa.

 Anche nel mondo vedico il sacrificio presiede all’ordine dell’universo. Nel Vāstusūtra Upaniṣad è scritto: “In questo mondo mortale l’Essere esiste nell’atto più importante del sacrificio” (I, 6).

 Lo yūpa è il palo sacrificale del sacrificio vedico, al quale la vittima è legata. L’estremità di questo palo è sferica dal momento che l’intero universo sta sulla sua sommità. L’artista che sa fare lo yūpa conosce il segreto dell’arte, in quanto egli è in grado di eseguire sia le superfici tonde sia quelle oblunghe, cioè curva e linea, i due elementi essenziali dell’arte della scultura, padroneggiando i due strumenti principali, l’asta di misurazione usata per la linea e il compasso per il cerchio.

 Le religioni affermano l’esistenza delle divinità o del Dio unico. Queste entità desiderano farsi conoscere e ottenere la salvezza ad ogni uomo. Le religioni sono comunità entro le quali le divinità guidano gli adepti lungo la via della salvezza.

 Riguardo la chiesa cattolica, Guardini aveva delle parole estasiate. Cosa è la Chiesa? La Chiesa è per Guardini la Vita Nuova nell’umanità. “Una Vita Nuova, che si desta nella rinascita della Grazia: ecco la quintessenza del Cristianesimo”. La grazia permette l’unione dell’uomo con Dio, cioè la sua rinascita a nuova creatura, vivendo della Grazia.

 Guardini osservava che “l’essere umano è creato simultaneamente come persona e come comunità. Le due cose poi non stanno separate l’una accanto all’altra, ma la comunità è già vitalmente e costitutivamente nella personalità, come questa è necessariamente implicita nella comunità”. È ciò che la filosofia medioevale chiamava “esse in” e “esse ad”: l’uomo ha una dimensione individuale e una aperta agli altri.

 In questo senso “la comunità della Chiesa è essenzialmente relazionata alla personalità; e la personalità cristiana è essenzialmente orientata alla comunità. Insieme esse costituiscono la Vita Nuova”. Ancora: “La personalità cristiana è profondamente interessata alla situazione della Chiesa, e questa dipende enormemente dalla situazione della personalità cristiana”. “Io sono una personalità cristiana nella misura in cui sono membro della Chiesa, nella misura in cui essa vive in me”.

 È Dio he chiama le persone a far parte della chiesa, mediante il dono gratuito del battesimo. Quando Dio chiama, Egli chiede tutto. Ma alcune persone vengono invitate a stare ancora nel mondo, altre divengono possesso esclusivo di Dio. Queste ultime sono le vocazioni a una speciale consacrazione, come nel sacerdozio o nella vita religiosa.

 La mentalità mondana rimane sempre stupita riguardo la scelta radicale di lasciare tutto per seguire Cristo in castità, povertà e obbedienza. Rutilio Namaziano, ricco possidente della Gallia e uomo politico, racconta nel poemetto in latino De Reditu un viaggio alla volta della patria, svoltosi nel 415 d.C., a partire da Roma. Questo poeta pagano nel corso della traversata vede in alcune isole toscane dei monaci cristiani, che hanno lasciato tutto per Dio e vivono in povertà. Egli, da pagano, non li comprendeva, quindi scriveva:

“Avanzando nel mare già si vede innalzarsi la Capraia,

isola in squallore per la piena di uomini che fuggono la luce.

Da sé con un nome greco si definiscono ‘monaci’,

per voler vivere soli, senza testimoni.

Della fortuna, se temono i colpi, paventano i doni.

Si fa da sé qualcuno infelice per non esserlo?

Che pazza furia di un cervello sconvolto è mai questa:

temendo i mali, non sopportare i beni?” (I, 439-446).

 Quando Dio chiama, Egli pretende un possesso esclusivo della creatura. Ed è in questo amore esclusivo di Dio, che avviene la salvezza della creatura. Solo Dio basta ed è fonte esclusiva di felicità e gioia senza fine alla Sua presenza.

 Sono molte le difficoltà della vita, ma in tutte il credente trova in aiuto da parte di Dio. in chi crede in Dio onnipotente, la disperazione non può mai avere l’ultima parola.

 Un famoso testo della letteratura egiziana è il Dialogo del disperato con la sua anima. Esso ci è giunto in un solo papiro (n. 3024 del Museo di Berlino) e data al Medio Regno. Ha forma di dialogo tra un uomo ormai stanco di vivere che si abbandona alla disperazione per via di una tragedia individuale, e la sua anima, il Ba. L’uomo vuole morire ma il suo Ba, conoscendo il dolore e l’amarezza dell’aldilà, si rifiuta di seguirlo e lo esorta all’oblio che sana gli affanni. Alle perorazioni del Ba, l’uomo fa un inno alla morte, unica consolatrice, unica sosta all’intollerabile sofferenza della vita presente.

 Ebbene questo stupendo testo lirico proveniente dalle sabbie dell’antico Egitto, verso la fine, serba queste parole egiziane:

m(w)t m ḥr=j (m) mjn mj 3bb s m33 pr=sn jr.n=f rnp.wt ‘s3.wt jt(w) m nḏr.t = La morte (mwt) è ai miei occhi, oggi, come quando un uomo (s) desidera rivedere (3bb m33) la terra natia, dopo che egli ha trascorso molti anni arrestato (jtw) in reclusione (m nḏr.t).

 Ma in ogni situazione penosa, Dio si fa presente mediante la sua chiesa. I monaci testimoniano ancora oggi che è possibile una vita felice anche senza i beni materiali. Dio è l’unica cosa necessaria. Nelle povertà interiori e nella disperazione dei nostri tempi il cristianesimo offre un’ancora di salvezza: non è la morte la soluzione bensì Gesù Cristo, il Figlio di Dio.

 Salmo 117:

“5Nell’angoscia ho gridato al Signore,

mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo.

6Il Signore è con me, non ho timore;

che cosa può farmi l’uomo?

7Il Signore è con me, è mio aiuto,

sfiderò i miei nemici.

8E’ meglio rifugiarsi nel Signore

che confidare nell’uomo.

9E’ meglio rifugiarsi nel Signore

che confidare nei potenti.

10Tutti i popoli mi hanno circondato,
ma nel nome del Signore li ho sconfitti

11Mi hanno circondato, mi hanno accerchiato,

ma nel nome del Signore li ho sconfitti.

12Mi hanno circondato come api,

come fuoco che divampa tra le spine,

ma nel nome del Signore li ho sconfitti.

13Mi avevano spinto con forza per farmi cadere,

ma il Signore è stato mio aiuto.

14Mia forza e mio canto è il Signore,

egli è stato la mia salvezza”.

 Anzi i santi testimoniano che è proprio nel dolore che si manifesta Dio. Infatti è dalle sue piaghe che siamo stati guariti. La chiesa viene fondata da Cristo quando dalla croce affida l’apostolo Giovanni a Maria, la Madre Verginale. Maria è la Mediatrice di tutte le grazie che ci provengono dall’Onnipotente.

 Fulberto di Chartres (960-1028), vescovo e filosofo franco, così pregava Maria:

“Santa Madre, soccorri i miseri,

aiuta gli sfiduciati,

rincuora i deboli.

Prega per il tuo popolo,

intervieni per il clero,

intercedi per le donne consacrate.

Quanti celebrano il tuo ricordo,

sperimentino, tutti, il tuo aiuto generoso.

Attenta alla voce di chi ti prega,

soddisfa il desiderio di ognuno”.

 Nel Ṛg-Veda (VI, 47, 18) è scritto che “ogni forma (pratirūpa) è una raffigurazione (della forma originale)”. Ogni creazione del mondo è una raffigurazione di un modello divino. La Genesi (1, 27) rivela che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Pertanto solo Dio è il senso dell’uomo, quindi questi trova la sua vera gioia sono il Lui.

 In ebraico ṣelem, “immagine”, è la copia concreta, la riproduzione, il ritratto, invece demut è un sostantivo verbale e denota perlopiù qualcosa di astratto, cioè la “somiglianza”, l’”apparenza”. In Egitto il faraone era “la copia viva di Dio sulla terra”.

 Lo scopo della nostra vita presente è adorare Dio, affinché in quella futura potremo andare in paradiso. Le chiese cristiane hanno l’abside orientato verso Oriente in quanto era quella la collocazione dell’Eden (Genesi 2, 2-8), il giardino paradisiaco che stava all’inizio e con il quale si concluderà la storia dell’umanità per un tempo che non avrà mai fine.

 Giovanni 17, 24:

“Padre, io voglio (thelō) che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia Gloria (doxa) che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo”.

 Gesù prima di morire in croce fa un solenne discorso di addio ai suoi discepoli e rivela le sue intenzioni più profonde. La pericope evangelica inizia con il verbo greco thelō, che indica sia un desiderio sia una volontà. Quando in Giovanni è Gesù a pronunciare questo verbo greco, esso ha sempre un senso maiestatico. Secondo gli esegeti si tratta di una espressione di volontà in forma di preghiera rivolta al Padre. Egli sa che la sua volontà è anche la volontà del Padre, conformemente a Giovanni 5, 21: “Infatti, come il Padre risuscita i morti e li vivifica, così anche il Figlio vivifica chi vuole”.

 Si parla della Gloria, un termine tecnico del Vangelo di Giovanni. Nel suo vangelo Giovanni parla di una Gloria già realizzata ma adesso sta parlando anche di una Gloria futura, che si dovrà compiere in pienezza. Qui abbiamo anche il tema gnostico della “ascesa delle anime”, che altro non è che un tema sempre presente nelle religioni, o presso a poco: quello della salvezza finale, o in altri modi che dir si voglia.

 Quando nella Bibbia si presenta un avvenimento agli inizi e lo stesso avvenimento alla fine dei tempi si sta adoperando un linguaggio semitico che esalta la potenza di Dio, signore della storia, del passato e del presente. Nella Genesi il paradiso stava agli inizi con l’Eden, adesso il paradiso sta alla fine quando la Gloria di Cristo si manifesterà completamente. Giovanni quindi sta proclamando che Dio è il signore del paradiso, perché lo concede agli uomini.

 Anche il Corano vede nell’Eden lo sbocco glorioso della storia umana, la ricompensa prestabilita da Dio dall’eternità per i suoi seguaci.

 La parola Eden deriva dal sumerico edin attraverso l’assiro edinu. I commentatori arabi danno alla radice ‘dn il significato di “essere solidamente stabilito”, “durare per lungo tempo”.

 Leggiamo nel Corano (18, 31):

“Ecco coloro che avranno i Giardini dell’Eden, jannātu ‘adnin, dove scorrono i ruscelli. Saranno ornati di bracciali d’oro e vestiranno verdi abiti di seta finissima e di broccato e staranno appoggiati su alti divani. Che eccellente ricompensa, che splendida dimora!, ni’ma l-thawābu waḥasunat mur’tafaqan”.

 Perché esiste il paradiso? Secondo le riflessioni induiste, la realtà materiale è semplicemente una illusione (māyā), esiste solamente il Brahman, cioè Dio, come vuole anche lo Zohar, il testo cabalistico più importante. Per l’induismo, il Brahman è pura gioia (ānanda) e lo sono anche tutti gli esseri, solo che l’ignoranza (avidyā) impedisce loro di capirlo e di gustarlo fino in fondo. A questo punto, facendo un salto tra filosofie tra di loro diverse, come faceva anche il poeta e filosofo bengalese Tagore, il paradiso sarebbe la condizione originaria dell’uomo, dalla quale questi si è allontanato per ignoranza: lo scopo della vita sarebbe quello di risvegliare questo ānanda originario attraverso le esperienze della vita. L’esperienza fondamentale è l’amore verso Dio, che in sanscrito è detto bhakti, il quale ha una forza straordinaria per far risvegliare il desiderio di Lui, che altro non sarebbe che il desiderio della nostra natura originaria.

 Nel Nāradabhaktisūtra (6) è scritto:

yaj jñātvā matto bhavati stabdho bhavaty ātmārāmo bhavati = Colui che ottiene la bhakti diventa ebbro di estasi, ed in modo inalterabile gioisce del Sé interiore.

 L’anima è una parte di Dio, quindi la sua condizione originaria è beatitudine (ātmārāma), ma se lo è scordata illudendosi delle cose del mondo.

 L’autentica Realtà è gioia allo stato puro, in sanscrito ānanda, formato da “nanda” (gioia) + il prefisso “ā” che è intensivo, cioè “gioia assoluta, allo stato puro”. Questa beatitudine non deriva dal fare né dalle cose del mondo bensì dal proprio essere interiore. Ānanda è un “attributo” del Brahman.

 “E chi mai potrebbe vivere, chi respirare, se nello spazio non esistesse la beatitudine (ananda)?” (Taittirīya Upaniṣad II, 7).

 Secondo queste chiavi, si comprende il noto motto vedico:

svargakāmo yajet = Chi è desideroso (kāma) di paradiso (svarga) deve sacrificare (yajet).

 Il verbo sanscrito yajet ha la radice indoeuropea in comune con il greco aghios, “sacro” e costituisce un ottativo (yaj-e-t), per cui si confronta con il congiuntivo latino arcaico si-e-t.

 Questa breve frase mostra una delle caratteristiche più salienti del sanscrito: le forme nominali, cioè i composti, molto più del tedesco. Altra peculiarità è la forte polisemia. Poi l’abbondanza di sinonimi. Nella prosa l’ordine delle parole in genere è Soggetto-Oggetto-Verbo, ma nella poesia esso è totalmente subordinato alla schema metrico. Abbiamo anche il fenomeno del sandhi o combinazione: quando due parole si incontrano danno luogo a suoni differenti, è insomma la elisione, che in sanscrito va ad esprimersi anche nella scrittura, quindi il sanscritista, quando legge un testo, per prima cosa deve sciogliere la scrittura.

 Chi si avvicina allo spazio del divino, si avvicina al proprio Sé più autentico. L’amore verso Dio (bhakti) è amore verso di Sé. Ciò conferisce ānanda, cioè il paradiso. Ogni amore umano, terreno e anche verso Dio in realtà non è altro che attrazione verso la propria anima (ātman), la quale coincide con il Brahman. Nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (II, 4.5) è scritto che “non per desiderio della moglie è cara la moglie ma per desiderio del Sé”.

 Il “sacrificio” (yajña) è la base di tutti i Veda. In termini prettamente linguistici il tema yajña è un nome di azione costruito sulla radice verbale yaj-, pertanto, se dovessimo tradurre letteralmente questo termine, diremmo che yajña è “l’atto di rendere onore”. Nell’uso riscontrato nelle opere sanscrite yajña indica infatti la pratica per rendere onore agli dei, per accoglierli e nutrirli.

 Benveniste collega la radice sanscrita yaj- con il greco aghios, “sacro”. Vicino al sanscrito yaj- abbiamo l’avestico yaz-, che non significa solo “sacrificare” ma anche “riverire gli dei”. D’altronde l’antico persiano yad- si applica al culto in generale, e non solo al sacrificio. Un uso analogo è testimoniato anche in greco (aghios, azō, aghiazō). Iliade I 20-21: “Lasciate libera mia figlia e accettate il riscatto, ‘testimoniando così la vostra riverenza’ a Apollo”, che in greco suona azomenoi … Apollona.

 Dalla medesima radice sanscrita deriva un notevole numero di temi che sono impiegati in modo specifico per indicare i protagonisti di ogni rito finalizzato ad accogliere e deliziare gli dei nello spazio rituale:

  • la forma attiva della radice verbale yaj- indica l’attività rituale degli officianti, pertanto, se c’è qualcuno che è detto “onorare” in forma attiva, costui è certamente il brahmaṇa, cioè lo specialista rituale che agisce per conto di qualcun altro, oppure è una figura divina che incarna l’istituto brahmanico;
  • la forma media della radice verbale yaj- indica l’attività del patrocinatore del rituale, in genere il capofamiglia laico, il guerriero o il sovrano, la cui denominazione in termini rituali deriva dal suo essere “onorante per sé” (appunto, yajamāna), con una sfumatura semantica che è resa dalla forma media del verbo;
  • yajatā è denominata ogni entità extra-umana cui è diretto l’invito, l’adorazione;
  • yajus è la formula alla divinità a cui si offre e con cui si invita l’entità a prendere parte al rito, beneficiando i partecipanti della sua benevolenza; ne abbiamo molte, da quelle più semplici (idam Agnaye, “questo per Agni”) alle più complesse;
  • ṛtvij è l’officiante che “offre al momento giusto”, in particolare è così denominato il poeta-officiante nel Ṛg-Veda, la raccolta di strofe più antica del canone vedico.

 Il Śatapatha Brāhmaṇa (3.9.4.23) dà una etimologia popolare al termine sanscrito “sacrificio”:

“E ora [esporrò] il perché del nome yajña. Quando essi spremono [= la pianta del Soma per produrre la bevanda rituale], invero, lo uccidono (ghnanti), quando [fanno] questo, lo generano (janayanti). Esso [lo yajna] nasce estendendosi (sa tāyamāno jāyate), nasce avanzando (sa yan jāyate). Per questo [il nome] yañja [lett. “avanzando nasce”]: invero, yajña è il nome di ciò che nasce avanzando (yañ jaḥ)”.

 In India il sacrificio inizia nel mondo vedico (la civiltà vedica è testimoniata con certezza dal XVI a. C. secolo in avanti). I sacrifici domestici sono i più semplici, possono essere officiati anche semplicemente dal capofamiglia senza l’intervento del sacerdote. Le vittime di animali ricorrono sono nei sacrifici solenni, anche per via del costo. Il sacrificio più costoso è quello del cavallo, che dura un anno solare e prevede una ecatombe (una mattanza di un centinaio di esemplari) e viene compiuto da un re: il monarca che compie il sacrificio e lo porta a termine si guadagna l’appellativo di Chakravartin, colui che fa girare la ruota del mondo, cioè Monarca Supremo.

 La cosa straordinaria della civiltà indiana è che gli strati precedenti della religione non vengono eliminati con l’andare del tempo, ma ad essi sono sovrapposti quelli più recenti. Quindi in India c’è ancora chi pratica il sacrificio vedico. Ma oramai non si fanno più sacrifici veri di animali: è stato sostituito l’uso di fantocci (anziché uccidere un capro si sacrifica un simulacro fatto con steli di erba kusha).

 In ciò ha influito il buddhismo (VI a.C.), che ha sottolineato come per ottenere un vantaggio non bisogna sopprimere una vita, anche se di una bestia. Gli ambienti sacerdotali dell’induismo hanno certamente recepito questo insegnamento e hanno mitigato di conseguenza il sacrificio.

 Il sacrificio vedico non ha strutture stabili: vengono distrutte alla fine dello stesso per riequilibrare l’area che era sacra con il mondo naturale.

 Nel sacrificio vedico l’elemento fondamentale è il fuoco, dove la vittima o il fantoccio o il liquido Soma sono bruciati o versati. Questo perché il sacrificio ha la funzione di “cuocere il mondo”, rende il mondo (in sé “crudo”, ostile all’uomo) “cotto”, padroneggiabile. Le categorie di crudo e cotto, delizia degli storici della religione e degli antropologi da Levy-Strauss in avanti, sono intese in India non solo in maniera letterale ma anche simbolica. In hindi una strada “cruda” è quella non praticabile, mentre una strada “cotta” può essere percorsa senza difficoltà, è asfaltata. Una casa “cruda” è una capanna, se è “cotta” è in muratura.

 Un capofamiglia compie un rito sacrificale o un committente chiama un sacerdote per eseguirlo, per due ragioni principali: guadagnare un soggiorno temporaneo nel mondo degli dei (svarga, paradiso) oppure avere un figlio maschio. Quest’ultimo è importante perché nel contesto patriarcale e patrilineare vedico solo se un uomo genera un figlio maschio, il nascituro primogenito è qualificato a svolgere i riti funebri per il padre quando morirà. Nella concezione indiana, se nessuno compie i riti funebri, il defunto diventa uno spettro o larva, invece con i riti diventa un Antenato, cioè viene inserito in una costellazione di entità che vigilano sui vivi, acquisendo qualità positive che lo rendono beato.

 Ma ciò di cui parlano tutti i Veda non è un atto esterno, come può essere la spremitura della bevanda sacrificale Soma o l’uccisione di un cavallo legato al palo sacrificale. Secondo molti storici delle religioni, il senso più recondito del sacrificio vedico, così come di quello di tutte le religioni, sarebbe la morte di sé quale unione con il Brahman.

 A pratiche sostitutive dell’uccisione di animali, subentra poi una concezione meno meccanica del sacrificio, per la quale esso diviene un sacrificio di sé. Vale a dire ciò che era all’inizio, quando l’Uomo primordiale si smembra per dare origine alla molteplicità (Prajapati: l’Uno che diventa i molti). Questo sacrificio di sé diviene una sorta di rinuncia ai frutti negativi dell’azione: il sacrificante si impegna a bruciare nel proprio fuoco interiore “i semi dell’ignoranza”. L’ignoranza è costituita da dei semi, che sono vitali poiché genereranno ulteriore ignoranza. Essa viene annichilita bruciandola dentro il fuoco della conoscenza. Luce è il sapere e la tenebra è la ignoranza. Infatti nel mondo indiano tutte le volte che si apprende una nozione nuova si uccide una ignoranza che era senza principio.

 Il principio dell’auto-sacrificio viene incarnato dal Vedanta, la parte alla “fine” (anta, cfr. inglese end) dei Veda, cioè le Upaniṣad. Dal Vedanta cambia la concezione della morte entro l’induismo, venendo introdotta la reincarnazione.

 L’uomo carnale deve morire e ritornare a Dio. Per l’induismo tutto è “illusione”, quindi la liberazione (mokṣa) è una liberazione dall’illusione. Il candidato alla liberazione è colui che è già liberato ma non lo sa. Ecco le parole assai significative del Brahmasūtra (I. 7):

tanniṣṭhasya mokṣopadeśāt = L’insegnamento per la liberazione (è per colui che) riposa in Quello.

 Ma per identificarsi con il Brahman bisogna essere maturi, non basta semplicemente appartenere a una casta o scrivere dei libri riconosciuti dalla cerchia dei sapienti. Śaṃkara è lapidario in proposito (Aparokṣānubhūti 132):

yeṣāṃ vṛttiḥ samā vṛddhā paripakvā ca sā punaḥ – te vai sadbrahmatāṃ prāptā netare śabdavādināḥ = Solo coloro la cui Coscienza brahmanica è matura e presente sono nello stato di Identità col sempre esistente Brahman, e non quelli che semplicemente ne parlano.

 Tutto il creato procede dalla Parola (Vāc), la quale anche è il Brahman, l’Assoluto, Dio. In buona sostanza, Dio è una vibrazione sonora, Suono Assoluto, śabdabrahmana. Dato che tutto è Brahman, allora ogni cosa è Parola. I Veda, che sono i testi sacri dell’induismo, sono scritti in metrica, cioè in piedi, ed anche loro sono il Brahman. Per questo il Brahmasūtra (I. 26) sentenzia:

bhūtādi-pāda vyapadeśopapatteś caivam = E anche ragionevole la segnalazione che gli esseri sono il piede.

 Qua il sanscrito pāda, “piede”, è per il metro per eccellenza, il più importante dei Veda, detto Gāyatrī.

 Vasugupta nel Śivasūtravimarśinī inizia con queste parole:

caitanyam ātmā = Il Sé è Coscienza.

 Il Sé (ātman), che coincide con Dio, è Coscienza, cioè l’attività di esserci. Śaṃkara scriveva che possiamo renderci conto del mistero del nostro Sé quando facciamo le cose o anche stiamo da soli: in quei frangenti, se ci facciamo caso, ci sentiamo osservati da qualcuno, anche nella completa solitudine, anche tra mille attività frenetiche. Quell’Osservatore misterioso è il nostro Sé, una Coscienza che tutto vede e tutto pervade.

 Continua Vasugupta (III. 1):

ātmā cittam = Il Sé è la mente.

 Questo breve aforisma vuole dire che la mente (citta), costituita dall’intelletto (buddhi), dal senso dell’io (ahaṃkāra), dal senso interno (manas), con tutte le loro attività suscitate dagli oggetti esterni e dalla fantasia, è quella entità illusoria con la quale è identificata l’anima limitata, il sé (ātman), che così si chiama perché “va errando” (atati) nelle illusioni, in quanto è ignaro della propria vera natura che è Coscienza (cit). Soltanto quest’ultima si identifica con il Brahman.

 La scuola filosofica indiana detta Sāṃkhya riconosce due principi nel mondo: la Natura (Prakṛti) e lo Spirito (Puruṣa). Quindi esiste una mente naturale, illusoria (diremmo noi un ātman che va errando), generata dalla Natura, e un ātman divino, la pura Coscienza, che si identifica con il Puruṣa.

 Quindi Īśvarakṛṣṇa (Sāṃkhyakārikā 22) sostiene che:

praḳrter mahāms = Dalla Natura discende il mahat.

 Il termine mahat, sinonimo di buddhi, è una sorta di “grande” mente, il principio primo della mente illusoria, dalla quale discendono le altre parti illusorie della psiche. Si tratta di una capacità mentale discriminante, molto evoluta, ma sempre fallibile. È talmente evoluta che questa scuola filosofica la considera “separata”, di rango superiore rispetto al resto della mente.

 Invece per la scuola filosofica indiana detta Nyāya, la buddhi e il resto della mente illusoria sono la stessa cosa. Ecco le parole del fondatore, Gautama, nel Nyāya Sūtra (I.1.15):

buddhiḥ upalabdhirjñānanityanarthāntaram = La capacità intellettuale discriminante (buddhi), la capacità d’afferrare percettivamente, la conoscenza – esse non sono una cosa differente.

 Per l’induismo l’uomo continua a reincarnarsi in vite successive fino a quando non si identificherà con il Brahman. Questo ciclo è detto saṃsāra, cioè “passaggio, movimento”, da saṃ-, “con, insieme”, e sṛ-, “scorrere”. Il ciclo deve avere giocoforza una fine, se ha un principio, sebbene solo nel livello dell’illusione, la quale pertanto è “reale”, cioè è gravida di conseguenze. Se ha un principio, giocoforza deve avere anche una fine. Questa è la riflessione di Gauḍapāda. Ecco le sue parole (Āgamaśāstra IV. 30):

anāder antavattvaṃ ca saṃsārasya na setsyati – anantatā cādimato mokṣasya na bhaviṣyati = Non si potrà dimostrare l’essere intrinseco di un saṃsāra- senza principio ma che abbia una fine; né sarà possibile l’essere senza fine della liberazione che (pur) abbia un principio.

 Invece in termini ebraici, cristiani e islamici la storia esiste realmente e in questa storia Dio si è fatto presente all’umanità: quindi la morte esiste per davvero e dopo di essa saremo introdotti al cospetto di Dio, se avremo operato nella vita terrena conformemente alla Sua volontà.

 Per il cristianesimo questo paradiso altro non è che la nostra divinizzazione. In 1Giovanni 3 è scritto:

“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

 Per l’induismo ciò che ci fa reincarnare è il desiderio, quindi la liberazione consiste in un progressivo spegnimento del desiderio, ciò che in sanscrito viene detto nirvāṇa. Il verbo nir-vā è il soffiare del vento, né positivo né negativo. Quindi il nir-vā-ṇa è la lampada che si è spenta, il braciere freddo, la fiamma estinta, l’individuo che ha cancellato ogni desiderio e ogni attaccamento al mondo.

 Il cristianesimo è amore per gli altri e per Dio. Ma il fine ultimo della religione è diventare “indifferenti verso tutte le cose create”, come scriveva Ignazio di Loyola, cioè in pratica estinguere ogni attaccamento alle creature fino alla unione totale con Dio.

 Per l’induismo mokṣa, “liberazione”, dalla coniugazione desiderativa di muc-, “liberare”, non è analoga alla “salvezza” delle religioni abramitiche. Per queste ultime si tratta di una “vita eterna” in Dio, nel paradiso (o all’inferno con satana). Invece per la maggior parte delle religioni indiane si tratta di una “morte eterna”, quale liberazione definitiva da tutto ciò che si può associare alla vita terrena.

 Per la scuola induista detta Pāsūpata, fondata da Lakulīśa agli inizi dell’era volgare, la caratteristica individuante del pāsu, cioè i principi della mente illusoria, termine sanscrito che vuol dire “bestiame”, cioè l’animale legato al palo in vista del sacrificio (pāśa è il “laccio”), è quella di identificarsi con l’oggetto della percezione (taddharmadharmin). Quando la mente illusoria si scioglie dal “laccio, legame” con l’oggetto, perde la condizione di animale legato (pāsu), che è solo accessoria (taṭastha), cioè ottiene la identificazione con il Brahman, in questo modo avviene la liberazione.

 Per il cristianesimo la salvezza offerta da Dio è un atto di amore. In Osea 11 Dio dichiara i propri sentimenti nei confronti del popolo di Israele, con il quale Egli fa la Antica Alleanza, mentre con i cristiani farà la Nuova Alleanza, kainē diathēkē, ove l’aggettivo greco kainos, “nuovo”, probabilmente ricalca quello ebraico corrispondente, che significa “definitivo”.

 Osea dice che Dio ha amato Israele e quindi lo ha chiamato dall’Egitto, liberandolo dalla schiavitù e donandogli la grazia di servire Lui medesimo. Ma il popolo di Israele si dimostrò infedele alla Antica Alleanza, però Dio lo ama a tal punto da non meditare la distruzione definitiva, quindi stipulerà con Israele e con tutto il mondo la Alleanza definitiva, con la quale Dio concede addirittura la vita eterna beata a chi lo segue. Ecco Osea 11, 8:

“Come potrei abbandonarti, Efraim,

come consegnarti ad altri, Israele?

Il mio cuore si commuove dentro di me,

il mio intimo freme di compassione”.

 La traduzione “il mio cuore si commuove dentro di me” è nell’originale ebraico ne-hpak ‘ālay libbi. Ora il verbo adoperato, nehpak, forma nifal, III persona singolare maschile del perfetto, è molto più forte che “si commuove”. Andrebbe tradotto “è sconvolto”, “è devastato”. Perché? In Genesi 19, 25 si usa per la distruzione delle città colpevoli: “Distrusse (way-ya-hapok) queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo”. Allora gli esegeti interpretano che il castigo previsto è vissuto nel cuore di Dio: Egli lo vive, addolorandosi della infedeltà, ma darà al mondo intero tutto il suo amore concedendo il paradiso.

 Anche le altre divinità amano gli esseri umani, in genere, e hanno desiderio di rivelarsi, come gli dei greci. Il faraone aveva un titolo: Meryamon, “Amato dal dio Amon”. Il nome originario delle piramidi, nelle quali il faraone risorge al mondo divino, è mer, “amore”. Nel Corano ricorre 600 volte la radice araba di “misericordia”.

 Nell’induismo abbiamo questa idea. Il dio Kṛṣṇa dice nella Bhagavad-Gita (15.15):

  • sarvasya ca ahaṃ hṛdi sanniviṣṭaḥ = “Io (ahaṃ) (sono) completamente compenetrato nel cuore (hṛdi) di ciascuno (sarvasya)”. Sanniviṣṭaḥ: questa parola è composta da “san” (insieme, completamente), “ni” (in basso, dentro), “-ta” (marca del participio passato), “vis” è la radice e significa “pervadere”, è presente anche nel nome del dio Viṣṇu, Onnipervadente. Quindi questo participio vuol dire: “completamente compenetrato dentro”.
  • mattaḥ smṛtiḥ jñānam apohanaṃ ca = “da me (mattaḥ) (provengono) la memoria, la conoscenza, l’ignoranza”. Apohanaṃ: è composto da “apa” (lontano da), “ūh” è la radice e significa “porre attenzione”, il resto della parola costituisce il nome. Quindi è un porre attenzione lontano, allora significa “rimozione, dimenticanza, oblio, ignoranza”. La conoscenza (jñānam) ha in sanscrito la radice in comune con il greco gnosis e anche con il nostro conoscere, co-noscere, formato da “cum” + la radice della conoscenza, quindi significa “conoscenza totale” (ma il cum latino può anche avere valore intensivo, quindi altresì “conoscenza assoluta”).
  • vedaiḥ ca sarvaiḥ aham eva vedyaḥ = “Io (aham) (sono) il conoscibile (vedyaḥ) attraverso tutti (sarvaiḥ) i Veda”. La radice “vid” significa in sanscrito “conoscere”, ha dato il nostro “vedere”, in quanto nel mondo indiano la conoscenza è una rivelazione divina, quindi ha a che fare con una esperienza sensoriale mediante la quale gli dei comunicano la verità. I Veda significano “conoscenza” con una sfumatura di intuizione-visione.
  • vedānta-kṛd veda-vid eva ca aham = “Io (aham) (sono) colui che ha emanato il punto più alto (anta) dei Veda, (Io sono) colui che conosce i Veda (veda-vid), solo (eva) io (sono questo)”. La radice “kṛd” si ritrova nel verbo latino creo, “faccio”: indica colui che fa, da cui emana qualcosa.

 Leggendo questo śloka (strofa), scritto in metro upajati, viene in mente che per gli induisti il sanscrito (lingua con la quale è composto) è un dono eminentissimo della Divinità per far ottenere la liberazione. Si dice che leggere un solo verso di questo libro può portare alla liberazione. La lingua sanscrita infatti viene definita: apauruṣeya, “non umana”.

 Ma la salvezza deve essere cercata. L’uomo deve rendersi conto di stare nella miseria e deve chiedere la redenzione oppure l’acquisizione della verità da un maestro di spirito.

 Leggiamo un altro brano dalla Bhagavad-Gita (2.7):

kārpaṇya-doṣopahata-svabhāvaḥ

pṛcchāmi tvāṃ dharma-sammūḍha-cetāḥ

yac chreyaḥ syān niścitaṃ brūhi tan me

śiṣyas te ‘haṃ śādhi māṃ tvām prapannam.

 Parla Arjuna e dice: “Io interrogo (pṛcchāmi) te (tvāṃ)”. Poi Arjuna si definisce mediante due samāsa, termine che deriva da “sama” (insieme) e “ās” (stare), donde asana, le “posizioni” dello yoga. I samāsa sono parole che stanno insieme, si tratta dei composti, cioè le formazioni nominali.

 Il primo composto è: kārpaṇya-doṣopahata-svabhāvaḥ. “Sva” è “sua”, “bhavah” è il verbo essere: quindi svabhāvaḥ significa “modo di essere”, allora “carattere”. Quale è il carattere di Arjuna? È doṣopahata, che è formato da dosa + upahata (le due parole unite sono in sandhi). Upahata è costituito da “upa” (vicino) e “hata”: quest’ultima parola ha al stessa radice di ahimsa, “non” (a) + “violenza” (himsa), quindi upahata significa “colpita, danneggiata”. Da cosa? Doṣa significa “impurità, difetto, debolezza”. Nella medicina indiana i tre doṣa (vata, pitta, kapha) sono i costituenti del nostro organismo e, affinché noi abbiamo la salute, devono essere in equilibrio. Un loro eccesso causa la malattia. Per questo traggono il nome dalla radice “impurità, difetto”. Un testo classico dell’Ayurveda, il Charaka Saṃhitā, utilizza la parola doṣa principalmente per indicare l’eccesso capace di causare malattie. Kārpaṇya è “debolezza”, deriva da kṛpā, “compassione”, ma la radice kṛp- significa anche “debolezza”. Pertanto Arjuna si definisce “colui il cui carattere è ferito/deturpato dalla debolezza dovuta al sentimentalismo”. Infatti all’inizio del libro Arjuna esita a lanciare il segnale di inizio battaglia tra i Pandava e i Kurava: egli ha paura di tutto ciò che lo spargimento di sangue procurerà e quindi è attaccato dal sentimento tanto da considerarsi debole.

 Il secondo composto è: dharma-sammūḍha-cetāḥ. Questi tre termini sono assai importanti. Dharma significa “ordine cosmico”, la sua radice è dhṛ-, “sostenere, supportare”, quindi il dharma è ciò che sostiene l’universo intero, è una intelaiatura sottile costituita di leggi morali e valoriali che aiutano le creature a compiere il loro percorso evolutivo. Sammūḍha da “sam” (insieme) e la radice muh-, da cui deriva il termine moha, “confusione mentale”, quindi mūḍha è il participio, pertanto sam + mūḍha significa “completamente confuso/perduto”. Cetāḥ deriva dal termine cit, “coscienza”. Nella filosofia indiana le tre caratteristiche dell’anima sono: Sat (eternità), Ānanda (beatitudine), Cit (coscienza). Quindi Arjuna si definisce come “colui la cui consapevolezza è completamente annebbiata riguardo al dharma”.

 Arjuna si comporta come il perfetto discepolo in quanto dice “interrogo te” poiché ho l’animo deturpato dalle emozioni e sono confuso razionalmente riguardo al da farsi. Comprende che l’attitudine che sta vivendo è indegna e quindi chiede aiuto.

 In yac chreyaḥ abbiamo un altro sandhi: la forma originaria è yat śreyaḥ, dove il secondo termine significa “meglio”, spesso in sanscrito incontriamo che un personaggio è definito śri, “glorioso”. Syān è il verbo essere. Brūhi significa “di’”. Aryuna sentenzia: io interrogo te e “tu di’ ciò che è meglio per me (tan me) senza peli sulla lingua (niścitaṃ, senza dubbio, francamente)”.

 Śiṣyas è “discepolo”. Aham significa “io”, la stessa radice ha il pronome greco corrispondente egō, nel quale la gutturale /h/ di aham diventa /g/, la vocale /a/ diventa /e/ (in sanscrito spesso la /a/ sta al posto della /e/ delle altre lingue indoeuropee). Quindi Arjuna dice: io ti interrogo perché sono emotivamente smarrito e razionalmente confuso allora “io (sono) tuo (te) discepolo”. Śādhi ha la stessa radice di śiṣyas, che è “insegnare”: quindi śādhi māṃ significa “insegnami”. Prapannam è formato da pra + pannam: pannam deriva da pat, “cadere” (radice onomatopeica), quindi l’espressione prapannam significa “sono prostrato davanti a te”.

 Arjuna dimostra di avere l’atteggiamento del giusto discepolo: si scopre confuso e si prostra umilmente per accogliere l’insegnamento del maestro. L’umiltà è la madre di tutte le virtù, insegnano i Padri della Chiesa. E il primo peccato fu di superbia nell’Eden da parte dei progenitori, che vollero farsi come Dio.

 Vediamo adesso un altro śloka della Bhagavat-Gita, assai famoso, il 4.34, che in sanscrito suona:

tad viddhi praṇipātena

paripraśnena sevayā

upadekṣyanti te jñānaṃ

jñāninas tattva-darśinaḥ

 Adesso non è più Arjuna che parla, ma il dio Kṛṣṇa, che risponde al desiderio di Arjuna di conoscere. Quindi il dio gli dice: “Conosci (viddhi, dalla stessa radice di Veda) questo”, tad. Il pronome sanscrito tad è come l’inglese that.

 Praṇipātena è formato dalla radice “pat” (cadere) + il suffisso rafforzativo pra + ni (in basso) quindi è un incoraggiamento a disporsi in uno stato di essere caduto in basso, è insomma un invito alla umiltà. È significativo che la parola latina humiltas, “umiltà”, deriva da humus, “terra”. Impara questo: poniti in basso.

 Paripraśnena, dove praśna è una derivazione del verbo “chiedere”, quindi se pṛcchāmi significa “chiedo, interrogo”, praśna indica la “domanda”. Pari è come il greco perì, “intorno” (peri-metro). Pertanto paripraśnena veicola l’idea di un interrogare a tutto tondo. “Impara questo ponendoti in basso (praṇipātena) con spirito inquisitivo (paripraśnena) e di servizio col cuore (sevayā)”.

 Sevaya è un femminile, deriva da seva, un altro termine assai importante perché la radice sev significa “essere vicino”, con una sfumatura di servizio e attività contemplativa. Il servizio non è qualcosa di freddo e distante, ma il servire una persona è “essere nei pressi”, sia spazialmente sia col cuore.

 Upadekṣyanti è un futuro (marca –sya-), III persona plurale. “Upa” significa “vicino” + la radice “diś”, che veicola l’idea dell’indicare e della direzione: quindi la forma verbale sanscrita significa dare la giusta direzione, come l’italiano “insegnare”, cioè fare segni verso qualcosa, il vero, il reale. Come fa Virgilio nella Divina Commedia, il guru non può forzare il discepolo a conoscere, infondendogli il sapere, ma può solo indicare e mostrare (anche con l’esempio), spetta al discepolo fare il lavoro più importante.

 Allora: “Indicheranno a te (te) la conoscenza (jñānaṃ)” i guru, i quali sono “coloro che possiedono la conoscenza” (jñāninas). Tattva è la verità allo stadio più alto e più puro, la quintessenza della realtà, la parola viene da tat, “questo”, è la quiddità, ciò che è vero e reale per definizione. Darśin sono coloro che vedono (dalla radice dṛṣ), cioè hanno una esperienza diretta della verità a livello più alto (tattva). Sono queste due categorie di saggi che rappresentano un archetipo di guru.

 A chi vuole imparare il dio Kṛṣṇa dice: “Conosci la verità (tat) con umiltà, con spirito inquisitivo e col servizio di cuore. (Solo se avrai questi atteggiamenti preliminari) i saggi (i conoscitori) e i veggenti (coloro che hanno esperienza diretta della verità) ti insegneranno”.

 Bisogna far morire, sacrificare, il proprio ego per ottenere la Conoscenza.

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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 54 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

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