A tavola con l’atanor di Carlo Pulsoni
Ci sono degli oggetti che pur facendo parte della vita quotidiana sono anche entrati nel nostro immaginario. Prendiamo ad esempio il tavolo / la tavola. A chi non viene in mente la tavola dell’Ultima Cena, magari sotto forma di rappresentazione iconografica ‒ una tra tutte il dipinto parietale di Leonardo da Vinci conservato a Milano nell’ex refettorio di Santa Maria delle Grazie ‒, o in alternativa la “Tavola rotonda” di Re Artù, ubicata nel castello di Camelot, la cui forma circolare rispondeva all’esigenza di considerare ogni cavaliere che ne faceva parte ‒ re compreso ‒ uguale a tutti gli altri. Venendo a tavoli più “reali” ve n’è uno, forse meno noto, che si lega a uno degli intellettuali più controversi del Novecento: Juli
us Evola (1898-1974). Abbiamo chiesto a Carlo Fabrizio Carli, critico d’arte attivo sia sul terreno della creatività contemporanea sia su quello dell’arte e dell’architettura italiane della prima metà del Novecento, di parlarci di questo tavolo, che lui stesso custodisce a nome della Fondazione Evola1. Può innanzitutto descriverci il tavolo? Il tavolo, in legno dipinto, misura all’incirca 80×80 centimetri ed è alto 50. Fu ideato e realizzato da Julius Evola nel quinquennio 1921 ‒ 1925, nel pieno della sua attività dadaista, poco prima della brusca interruzione del suo impegno di artista d’avanguardia, che egli aveva esplicato tanto in campo pittorico, che poetico e teorico. Un impegno di tutto riguardo, se si pensa che oggi, grazie anche ai fitti rapporti internazionali (il carteggio con Tristan Tzara occupa da solo un piccolo volume), Evola è considerato il maggior esponente del Dada italiano. Come si colloca questo tavolo nell’opera artistica di Evola? Il tavolo, pezzo unico nella produzione evoliana, si presenta con forma “a tamburo”, a pianta quadrangolare e a spigoli stondati. Rastremate rispetto a questi, quattro gambe a setti ricurvi completano l’elementare struttura dell’oggetto. Questo nacque per arredare il cabaret Le Grotte dell’Augusteo; ma Evola doveva tenervi particolarmente, perché non volle mai separarsene, finché visse. È interamente verniciato ad olio, e il piano costituisce una vera e propria composizione pittorica, dedicata al tema ‒ sempre molto caro all’artista, immerso in marcati interessi esoterici ‒, della trasformazione alchemica. Nella composizione si riconosce infatti l’atanor, ovvero il fornello alchemico, in cui l’oro nasce dal processo di cottura e di sublimazione della materia. La composizione (illustr. 2), dai colori vivacissimi, si struttura in forme geometriche elementari che attestano l’interesse di Evola per la ricerca dadaista di Hans Arp, risolta in un purismo geometrico. È altresì chiaro come il filosofo-artista non si preoccupi affatto della riproducibilità seriale, tipica del design novecentesco, ma intenda il tavolo come opera d’arte in sé conclusa. Cosa rappresenta questo tavolo nella produzione artistica di Evola e quali sono i suoi rapporti con gli interessi esoterici di Evola? L’interesse di Evola per l’arte decorativa comprende anche ‒ e qui si esaurisce ‒ in un piccolo vaso in terracotta smaltata, alto circa 20 centimetri, ancora affidato alla tematica della trasformazione alchemica e databile agli stessi anni del tavolo. Per quanto riguarda gli interessi esoterici di Julius Evola, occorre tener presente che in lui, a differenza di quanto accadeva abitualmente, essi non si esaurirono al livello delle mere, e in fondo superficiali curiosità intellettuali, ma furono vissuti con forte partecipazione esistenziale, quali vie di realizzazione spirituale. A tutto ciò sottendeva una singolare prospettiva speculativa, che consisteva nell’innesto dell’Idealismo classico nella Magia: appunto l’Idealismo Magico. […]2
L’Ultima Cena di Julius Evola
L’ing. Carlo Fabrizio Carli, nel descrivere il tavolo di Evola, ha detto fra l’altro che «fu ideato nel pieno della sua attività dadaista, poco prima della brusca interruzione del suo impegno di artista d’avanguardia, che egli aveva esplicato tanto in campo pittorico, che poetico e teorico». E allora, se fosse buona l’idea di Carlo Pulzoni nell’immaginare che questo tavolo costituisca una sorta di “Ultima Cena”, come quella di Gesù con i suoi apostoli? Cioè a lasciar capire che le immagini dadaiste fatte da lui, che caratterizzano il tavolo in studio, costituiscano un certo “tutto” di una “cena” imbandita. E così concepire l’analogo rituale di Gesù nell’esortare i suoi apostoli a mangiare il pane e il vino, il suo “corpo” e il suo “sangue”, in nome suo da perpetuare nel tempo? Seguendo il simbolo, se si capovolge il tavolo di Evola, non sembra un immaginario calice e, nel contempo, anche un piatto? Se così fosse, verrebbe da immaginare che, essendo il tavolo in questione di dimensioni ridotte in altezza (50 cm), i commensali non possono essere che dei fanciulli seduti su delle sedie adatte per loro: dunque una conseguente esortazione velata fatta dallo stesso Gesù, così espressa nel vangelo Matteo 18,1-5. In quell’ora i discepoli si accostarono a Gesù e gli chiesero: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». E Gesù, chiamato a sé un piccolo fanciullo, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non vi convertite e non diventate come piccoli fanciulli, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli. Chi dunque si umilierà come questo piccolo fanciullo, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chiunque riceve un piccolo fanciullo come questo in nome mio, riceve me. E allora, così stante le cose del lascito del tavolo a certi apostoli di Julius Evola, cosa si deve pensare di essi? Si deve credere che siano come “bambini”, e le complicanze filosofiche di tutti gli altri lasciti successivi di Evola, sono scritti che essi non comprendono, seppur legati ad una certa “Tradizione” da lui raccomandata, in seguito però (ma da “morto” all’alchimia e dadaismo)? D’altronde anche gli scribi e farisei del tempo di Gesù, seguendo appunto la Tradizione biblica, rinnegarono Gesù. E per quei “bambini” sono adatti, oltre al dipinto del tavolino, tutti gli altri dipinti dadaisti fatti dal maestro Evola nei suoi anni migliori e non le opere successive in cui il dadaismo non ebbe più presa in lui, come si sa. A questo punto chi potrà mai “scartocciare” lo scatolo in cui è racchiuso il tavolo che si vede nell’illustr. 1, se non loro, per goderne del contenuto e trarne giovamento? Ma gli attuali discepoli di Evola possono ritenersi come questi apostoli-bambini della semplicità cui è destinato il tavolo, una sorta di Graal? Intanto il magico tavolo racchiuso nello scatolo aspetta chi lo “scartocci”. E poi, ai bambini piace il disegno riportato su questa scatola, quasi magica per loro. In fondo solo “dada”, il nome dato al genere di arte cui si lega questo disegno, non è forse la prima parola che essi imparano a pronunciare la prima volta? “Dada”, nelle intenzioni degli esponenti dadaisti, non ha alcun significato. Tzara, l’artista che fondò il dadaismo, narra di aver trovato la parola a caso in un vocabolario francese. Volendolo tradurre letteralmente, in russo significa due volte sì; in tedesco due volte qui; in italiano e francese costituisce una delle prime parole che i bambini pronunciano, e con la quale essi indicano tutto: dal giocattolo alle persone.
Alchimia e Dadaismo binomio inscindibile nell’arte di Julius Evola
(Brani tratti dalla Tesi in Storia dell’arte contemporanea “JULIUS EVOLA E IL DADAISMO” di Claudia Tagliaferri. Università di Roma La Sapienza. 2010-2011).
[L’alchimia di Evola]
L’incontro con le discipline esoteriche, in particolare con l’alchimia, fu un approccio importante per concretizzare l’esigenza fondamentale di Evola di creare nell’individuo una nuova dimensione e una nuova profondità di vita. L’arte è sempre stata alchemica: un processo chimico (manipolazione dei colori), fisico (l’azione e il processo di dipingere), mentale e immaginativo in cui i simboli e i messaggi cifrati cercano di decodificare i paesaggi interiori dipinti. L’arte pura auspicata da Evola veniva considerata preludio alla magia, così come il processo alchemico esigeva un percorso di realizzazione spirituale: esso sottoponeva la materia alla trasformazione (obiettivo dell’alchimia era ricavare la pietra filosofale che consentiva la trasmutazione dei metalli in oro e la realizzazione di un cammino spirituale). L’alchimia aveva uno stretto legame con la dimensione estetica in modo tale che l’alchimista potesse divenire artista e viceversa. L’arte, spezzando la catena dello spazio e del tempo, mirava alla ricreazione della genesi e al ricongiungimento con il Principio primo. Essa era incentrata sulla “metafisica” cioè un ordine di conoscenze sovrasensibili le quali presupponevano la trasmutazione iniziatica della coscienza umana. L’oro alchemico rappresentava l’essere immortale e invulnerabile, ovvero il Dio che era dentro ognuno di noi,
che diventava conquista dell’essere. L’alchimia si proponeva appunto di risvegliare questo Dio dormiente in noi. Il fine dell’opera era la realizzazione dell’oro, ovvero un ricongiungimento con il principio assoluto ed Evola voleva vivere fino in fondo la realtà e l’interiorità usando la mente e lo spirito. Ne sono testimonianza i suoi scritti e i suoi quadri che includevano la presenza di un occhio invisibile. Questi spazi, popolati di visioni interiori e superiori, sono fissati con distacco anticipando il mondo lucido e disincantato con cui guarderà, con gli occhi della riflessione, la realtà del proprio tempo.
[Il Dadaismo di Evola]
Proprio nel Dadaismo Evola ha compreso la libertà mistica, la ricerca del nuovo. Arte, pensiero, morale, esperienza quotidiana, scienza ed altro si fondono in una lingua-alchimia che esprime le proprietà indeterminate dell’atto artistico. Nel Dadaismo l’arte può avere, per la prima volta nella sua storia, una risposta e concezione spirituale, un’esposizione di pensiero interiore attraverso ritmi illogici e arbitrari di linee, colori, suoni che diventano dunque segni della libertà interiore, segni della purezza artistica e segno di liberazione dell’Io dalle delimitazioni esistenziali e materiali. Tipico prodotto Dada è il ready-made , un prodotto ordinario tolto dall’oggetto originario e messo in mostra come opera d’arte 1 . In italiano significa approssimativamente “già fatti, già pronti” e diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali di arte. Quindi un’opera d’arte può essere qualsiasi cosa. L’opera dell’artista non consiste più nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» è solo nell’idea. Togliendo qualsiasi valore alla manualità dell’artista, questo, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose. I dadaisti seguivano l’ambizione di promuovere una rivoluzione culturale sotto il segno dell’anarchia e della poesia, allo scopo di abolire lo scarto tra arte e vita reale. Quando Tzara e Breton suggerivano le prime indicazioni per scrivere un poema Dada, non sapevano di parafrasare il consiglio di Lewis Carrol che aveva dato nel 1860: “Scrivete prima una frase, /tagliatela a pezzetti, /miscelateli e tirateli a sorte, /rigorosamente come viene viene : /non importa quale ordine: tanto non fa la differenza.” Gli strumenti privilegiati di questa nuova attività creatrice erano: il caso e l’improvvisazione. Il caso, inteso come gioco dialettico tra ordine e disordine, regolava ogni attività creatrice. Si pensi al collage di Arp che, insoddisfatto del suo disegno, lo strappò gettando via i brandelli di carta. Vedendoli sparsi sul pavimento, fu sorpreso e compiaciuto dell’insolita bellezza che la sua opera aveva acquistato; oppure al “Grande vetro” di Duchamp, opera nata in seguito alla rottura involontaria di un vetro durante un trasloco. Quello che prima non era riuscito loro nonostante gli sforzi, lo aveva operato il caso. Riguardo ad esso, nel movimento Dada, non dobbiamo attenderci delle definizioni concettuali, bensì delle concrete dimostrazioni, degli esercizi. Si assisteva, perciò, ad una visione estremamente positiva di esso, un’accettazione delle sue manifestazioni che venivano identificate come le manifestazioni vere della realtà e della vita. Oltre al caso, un’altra componente fondamentale era l’improvvisazione. Nelle serate dadaiste, infatti, ogni situazione era improvvisata con evidenti effetti esplosivi: lo stato d’animo dell’attore, con i suoi desideri e le sue pulsioni, dovevano determinare le sue azioni e quelle del gruppo. Molte volte questi spettacoli entravano in conflitto con le reazioni del pubblico creando scandalo che però era voluto: lo spettacolo doveva la sua efficacia all’interazione tra attori e pubblico. Stabilire un contatto con gli spettatori, provocare i loro interventi, era una necessità primaria nonostante questo contatto potesse risultare ostile. L’essenziale era assicurarsi la partecipazione attiva del pubblico.
In sintesi le caratteristiche principali del Dadaismo sono:
• la negazione dell’arte in quanto espressione dei valori e delle convenzioni borghesi, che frenano la libertà espressiva.
• l’atteggiamento irrazionale e dissacratorio, in quanto strumento adatto a perseguire il fine di distruggere l’arte.
• la poetica della casualità, il “caso” come migliore garanzia per produrre opere d’arte originali e vicine alla vita.
• la fusione tra le varie arti, con un riferimento particolare alla poesia, alla pittura e alla musica.
Il decostruzionismo derridiano nell’architettura
Che centra l’architettura con la scatola del tavolo di Evola, ora? Direi che non centra tanto, ma per certi versi è “dada” a indirizzarci da questa parte, dopo la “dissacrazione” dell’arte dadaista, appunto, operata da Evola nel concepire il dipinto del tavolino e tanti altri. Come a intendere che solo l’architetto subentra per una possibile ricostruzione e non il filosofo. Naturalmente, considerato che il decostruzionismo derridiano3 sembra legarsi al dadaismo, questo ci indirizza a certi architetti moderni simpatizzanti per questa filosofia, con i loro “frammenti” architettonici, con i quali essi ritengono di aver cercato di far “resuscitare” la forza ed il vigore che l’uomo d’oggi ha veramente bisogno per ribaltare vecchi e obsoleti concetti metafisici. Così è stato, secondo la critica, per il noto architetto romano Fuksas, autore di Nuvola del progetto “Nuovo Centro Congressi Eur”, non senza la suggestiva “astronave”. Frammenti sono un altro suo bel progetto in tema religioso, il cubo, la chiesa di S. Paolo a Foligno, un enorme monolite in cemento, costituito da due parallelepipedi inseriti uno nell’altro e collegati da elementi a forma di tronco di piramide. In relazione poi al Museo Tuscolano di Frascati, l’architetto Fuksas dice “Forse nel piccolo universo dell’architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l’evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi.” «La città sfugge a ogni regola (…). Ho rinunciato all’ordine ottocentesco, ho rinunciato alla storia (celebre invenzione illuminista), ma ho capito, attraverso il frammento, che tutto ciò che non può essere controllato ha una carica di energia che ci può anche rendere felici (…). »3.
In un intervento sui rapporti tra pensiero decostruzionista e progettazione, Fuksas così si eprime:” Non sono sicuro che Derrida abbia «armato» la mano degli architetti. Sicuramente non è il filosofo francese l’inventore della pessima espressione «archistar», che il titolo del pur felice articolo di Pierluigi Panza (Corriere della Sera del 15 novembre evoca)”. Il merito dell’articolo è quello di rimettere in discussione, in termini positivi, i rapporti fra filosofia e architettura. A parte la passione vibrante di Bernard Tschumi per Derrida sin dall’epoca del concorso per il Parc de la Villette da lui vinto, e di François Barré, sofisticato intellettuale allora presidente dell’Etablissement Public del Parc de la Villette, non ci sono molte spiegazioni al successo delle teorie di Jacques Derrida nel mondo dell’architettura. A questo proposito vorrei ricordare qui di seguito una mia breve nota apparsa su L’Espresso del 28 ottobre 2004. Alcuni anni fa, Derrida disse che non riusciva a comprendere perché fosse così amato e citato dagli architetti in tutto il mondo. Alla fine di una conferenza mi confidò che aveva più inviti da gruppi di architetti che da facoltà di filosofia. L’autore di Il sogno di Benjamin, Politica dell’amicizia, L’ospitalità, Quale domani, e studioso e critico di Heidegger, amico di Foucault, di Lacan e degli strutturalisti, scomparso nel 2004, ha avuto una fortuna incredibile per chi professa la fede nel costruire! La parola chiave decostruzionismo, utilizzata da Derrida come base per una riflessione critica su gran parte della filosofia, è stata per gli architetti una parola magica. Alcuni anni fa Philip Johnson organizzò a New York una mostra con questo titolo. Chiamò un gruppo di creatori differenti tra loro, ma resi simili e omogenei dal «cappello» con cui coprì Gehry, Coop Himmelblau, Zaha Hadid e altri: tentava di riprodurre l’effetto che aveva avuto decenni prima il libro International style, in cui aveva dato limiti e contenuti a una lunga serie disomogenea di autori. Non so bene in che modo un architetto possa aver trasferito le «aporie» di Derrida nel vile mestiere dell’acciaio, del vetro, del mattone o simili. In ogni caso la parola «decostruttivismo» ha generato un movimento che probabilmente per Derrida era quanto mai semplicistico. Forse le tracce della sua influenza nel piccolo universo dell’architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l’evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi. Come diceva: «La decostruzione passa per essere iperconcettuale e certamente lo è, dal momento che fa un grande consumo di concetti, concetti che genera almeno tanto quanto eredita. Essa tenta di pensare oltre i confini stessi del concetto»4. Un successivo passo avanti per la “decostruzione” del tavolo, il “frammento” di Evola: la ricerca della simmetria
Gli studi di Leonardo da Vinci sulla radice aortica
Il costante interesse di Leonardo per la valvola aortica (Illustr. 3) viene dimostrato dalla frequente ricorrenza di disegni di una struttura tricuspide, indicando il fatto che era particolarmente attratto dalla sua simmetria. Inoltre egli affermò: “No mj legga chi non e matematicho nelli mja principj” (“Non lasciare nessuno che non sia un matematico leggere i miei principi”). E’ ben conosciuto che la simmetria, già ben definita da Vitruvio come “la proporzione fra il tutto e le sue differenti componenti”, viene rappresentata da armonia, equilibrio e proporzione (Leonardo) così come è documentato che, nella scuola di Pitagora, il cerchio nel piano e la sfera nello spazio erano considerati le figure perfette per la loro simmetria e rotazione. In effetti, nei disegni di Leonardo, la valvola aortica tricuspide (ma anche quella quadricuspide) inserita in un cerchio appariva un perfetto esempio di simmetria e rotazione. […]. Infine, descrisse accuratamente la verifica sperimentale con un modello di valvola aortica “fa questa prova dj vetro e moujcj dentro acqua e panico”. Se da un lato tutte le teorie di Leonardo erano suffragate da un’argomentazione sperimentale, dall’altro l’osservazione della forma rappresentava il pilastro su cui fondare la teoria della funzione. Infatti, nel Codex Atlanticus, scrisse “nessuno effetto in natura e sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna esperienza” cioè “niente in natura è senza motivo; capisci il motivo e non avrai bisogno di esperienza”. Pertanto il concetto di “Unità funzionale e morfologica” della valvola aortica viene introdotto da Leonardo con una semplice domanda: “perché il buso della arteria aorto e triangolare” (“perché l’orificio dell’arteria aortica è triangolare?”)5.
La via geometrica per la ricerca delle simmetrie nel tavolino di Evola
Il quadrato, le tre opere alchemiche e i raggi della stella esagonale
Il piano del tavolo (illustr. 4) ha gli spigoli arrotondati che non consentono di pervenire alla traccia delle tre opere alchemiche, peraltro rintracciabili attraverso i loro rispettivi colori, il nero del Nigredo, il bianco dell’Albedo e il rosso del Rubedo. Ce li mostrano le traccie serpentiformi lungo una diagonale (il drago ermetico). Si traccia perciò il quadrato che unisce i centri degli spigoli del tavolino con i punti A, B, C e D. Vi fa seguito la ricerca grafica delle linee del Nigredo, del Rubedo e dell’Albedo e per essi tracciamo gli assi cartesiani orizzontali 1-2, 3-4, 5-6, e verticali 1’-2’, 3’-4’ e 5’-6’. Ora ci si accorge che il tratto verticale 5-7 è uguale a quello precedente 4-5, cosa che completa la ricerca delle simmetrie. Tracciamo perciò gli assi cartesiani relativi, 7-8 in orizzontale e 7’-8’ in verticale, in più tracciamo la quarta diagonale tratteggiata. Abbiamo ottenuto così altre simmetrie, come il rettangolo LMNP diviso in 9 parti uguali fra loro; poi il rettangolo EBFD che è speciale perché con le rispettive diagonali e la linea orizzontale mediana relativa, dà luogo alla configurazione dei sei raggi della stella esagonale. Si tratta della stella ricercata dagli ermetismi che costituisce la “firma” astrale della loro corretta opera alchemica. Fulcanelli, nelle “Dimore Filosofali”, parla dell’alternarsi di un fiore e di una stella durante l’Operazione di Sublimazione Alchemica: “Quando il mercurio giunge a bagnare lo zolfo non dissolto questo scompare ed appare la Stella, manifestazione esteriore del Sole interno. Lo zolfo (il fiore) ricompare poi alla decantazione, all’allontanamento della materia astrale. In sette riprese successive le nubi nascondono allo sguardo ora la stella ora il fiore a seconda delle fasi dell’operazione cosicché l’artista non può mai scorgere simultaneamente i due elementi del composto.”
L’esagramma, la stella di mare di Fulcanelli
A pag.72 del II vol. delle Dimore Filosofali di Fulcanelli viene presentato la foto di un cassettone del castello di Dampierre della Francia (illustr. 5) che così viene descritta. < Una grande stella a sei raggi risplende sui flutti d’un mare ondoso. Al di sopra di essa, una banderuola reca inciso questo motto latino la cui prima parola è invece in lingua spagnola: .LVZ. IN. TENEBRIS. LVCET. Cioè: La luce brilla nelle tenebre. Ci si meraviglierà ‒ dice Fulcanelli ‒ senza dubbio del fatto che noi prendiamo per dei flutti ciò che altri pensano trattarsi di nubi. Ma, studiando la maniera con cui lo scultore rappresenta in altre occasioni l’acqua e le nubi, ci si convincerà presto che non c’è, da parte nostra, né errore, né equivoco, né malafede. Con questa stella marina, tuttavia, l’autore dell’immagine non pretende di raffigurare l’asteria comune, volgarmente detta stella di mare. Questa infatti possiede solo cinque bracci raggianti, mentre la nostra è provvista di sei bracci distinti. In questa rappresentazione dobbiamo, dunque, vedere l’indicazione d’un’acqua stellata, che non è altro se non il nostro mercurio preparato, la nostra Vergine madre ed il suo simbolo Stella maris, mercurio ottenuto sotto forma d’acqua metallica bianca le brillante che i filosofi chiamano anche astro (dal greco άστήρ, brillante, sfolgorante). Cosi le manipolazioni dell’arte rendono manifesto ed esteriore ciò che prima era diffuso nella massa tenebrosa, grossolana e vile del soggetto primitivo. Dal caos oscuro esse fanno scaturire la luce dopo averla riunita, e questa luce brilla ormai nelle tenebre, come una stella nel cielo notturno. Tutti i chimici hanno conosciuto questo soggetto, sebbene soltanto assai pochi sappiano estrarne la quintessenza radiante, tanto fortemente nascosta nella terrena opacità del corpo. Per questa ragione Filalete6 raccomanda agli studenti di non disprezzare la firma astrale, rivelatrice del mercurio preparato. «Abbi cura, egli raccomanda loro, di orientare la tua strada con la stella del nord, che la nostra calamita farà apparire per te. Allora il saggio si rallegrerà, mentre il pazzo la riterrà senza importanza. Non imparerà cosa sia la saggezza e guarderà, senza comprenderne il valore, questo polo centrale fatto di linee incrociantesi, segno meraviglioso dell’Onnipotente.» >.
Andiamo avanti perché ci aspettano altre “firme”, ma per ottenerle occorre consultare un dipinto particolare di Evola, giusto quello che reca un chiaro segno alchemico, la “firma” di uno dei principi della Grande Arte, lo Solfo. E lo troviamo nel dipinto dell’illustr. 5 che segue. Il papiro di Ani ispirato dal dipinto del solfo alchemico di Evola Rilevo dalla Fondazione Evola la seguente descrizione del dipinto del solfo alchemico di Evola: Olio su tela, cm. 87×77 Firmato in alto a sinistra “Evola” Collezione privata, Roma. Nello stretto legame sussistente nel periodo dadaista tra la produzione pittorica e quella poetica di Evola, lo stesso titolo del dipinto venne utilizzato per due liriche, nondimeno completamente diverse fra loro e non soltanto perché la prima è scritta in francese e la seconda in italiano, inserite in Arte astratta (La fibre s’enflamme et les pyramides, p. 19) e in Raâga Blanda (La fibra s’infiamma e le piramidi, p. 43). L’opera si collega alle ricerche sulla lettura pittorica del processo alchemico, come indica il simbolo dello zolfo che vi è riportato. Del dipinto esiste una replica di proprietà della Fondazione Evola. f.t. (Francesco Tedeschi)7. A parte il chiaro segno del solfo alchemico, il dipinto sembra confermare appunto il rimando alla citata lirica (La fibre s’enflamme et les pyramides, p. 19) a chi conosce l’argomento legato alle piramidi egizi. In particolare al papiro di Ani della XVIII dinastia dei faraoni dell’antico Egitto, rinvenuto nella tomba dello scriba Ani e conservato nel British Museum di Londra (illustr. 6). Il riquadro centrale si incentra sul mito del grano legato allo «spirito del grano» del culto di Osiride ed in seguito al mito di Demetra e Cerere greco-latine, ma nell’iconografia di questo papiro di Ani, però, non trovano buona corrispondenza. Se osserviamo bene l’illustr. 6 non è il mazzo di grano che si vede poggiato su un calice ai piedi del tabernacolo di Osiride, bensì − e chiaramente − un plico di fogli di carta (ovviamente di papiri). Ma va bene lo stesso la metafora del grano legata allo «spirito di Osiride», che ci viene trasmessa con un’immagine. Ecco che il passo è breve per intravedere, nel plico sotto il carro del sole, la parte iconografica sovrastante, una certa struttura di memoria come quella dei calcolatori (illustr. 7). Di qui la concezione di un campo di forze, del tutto simile a quello di un magnete permanente, che tiene sospeso il carro solare della vita. E qui entrano in campo le Parche per dare il via alle Ore del flusso della vita con un periodico oscillare del carro sovrastante: Ore, di un calice dolce e/o amaro, quello nelle mani di Ani genuflesso. È così meravigliosa l’iconografia espressa dallo scriba Ani, nel dipingere questi dettagli sulla struttura magnetica (illustr. 8) da vederli aderire alla rappresentazione del corpo di Osiride. Per il resto sulla macchina del tempo lascio parlare le illustrazioni e relative didascalie. Ma non senza porre in evidenza ciò che ci preme sapere in relazione al dipinto di Evola, cosa che si è già notata con il diversi “tubi” di colori diversi. Ani li rappresenta nello scaffale in alto, sormontati da fiori. Sono vasi alchemici che si legano alle tre fasi del Nigredo, dell’Albedo, mentre il Rubedo di colore rosso lo vediamo nei quattro coperchi.
Tutta questa descrizione, offerta dal papiro di ani, come ho fatto vedere, ben giustifica l’accostamento con le due citate liriche suddette di Evola. E vedremo quanto siano preziose per dar seguito alle simmetrie ancora da rilevare sul dipinto del tavolo di Evola. La prima “firma” astrale del dipinto del solfo alchemico di Evola. La “firma” fondamentale rilevabile sul dipinto del solfo alchemico è il breve serpentello verde messo di traverso sui cilindri verticali, che da solo ci riporta, appunto, al dipinto del tavolo in questione. Qui, come già rilevato, sono le tre opere alchemiche, del Nigredo, Rubedo e Albedo che assumono l’analoga configurazione. La “firma” successiva, la prima, che vale come segno di rimando al dipinto del tavolo ancora di definire, è di certo il tavolo stesso visto in modo inclinato e lo stesso appena accennato in basso e ingrandito. Poi la seconda “firma”, ma ce ne occuperemo nel prossimo capitolo, si riferisce ai vasi alchemici raccolti in uno ben ingrandito in basso e sono tre, come si vede. Occupiamoci ora della prima “firma” che, volendola porre in pratica, ci suggerisce appunto di “inclinare” il piano del tavolo dell’illustr. 4 in modo da trovare la condizione di un quadrato, al posto del rettangolo LMNP diviso in nove parti uguali fra loro. Si tratta si rintracciare una perduta “memoria” che tanto ci ricorda l’opera di Ludovico Ariosto, L’Orlando Furioso con la ricerca del suo senno perduto, col viaggio di Astolfo sulla Luna. Cosa significa questa operazione geometrica se non quella di rintracciare, presumibilmente qualcosa di prezioso di Julius Evola, il suo SENNO messo a soqquadro nel corso della sua vita, e “ripristinarlo” così come quella del corpo dio Osiride del papiro di Ani?
Si capisce che è il traguardo dell’Opera Regia con l’ottenimento della Pietra Filosofale. Detto fatto ed ecco, con l’illustr. 9, la nuova configurazione che ci lascia meravigliati nell’intravedere in essa, ipso facto, il noto quadrato magico di Saturno descritto da Agrippa nel suo libro La Filosofia Occulta o la Magia, vol. II, ediz. Mediterranee. Non senza la conferma astrale della stella a sei raggi con la configurazione delle diagonali del quadrato 9,10,7,8 e della mediana GH orizzontale. Si capisce, a questo punto, che il quadrato di Saturno si riferisce alla memoria evoliana della tradizione romana legata alla pre-romana «sapienza italica» «Saturnia Tellus». Traggo dal libro di Lino Sacchi, 99 storie sorprendenti di Liberi Muratori, 2014. Edizioni Lindau, questo stralcio in cui si parla di Evola con un movimento, di cui faceva parte, che vi si richiama: < Nei primi trent’anni del ‘900, fiorì in Italia un movimento di pensiero tra l’anti-borghese, il magico, lo spiritualista («esoterico», se dovessi definirlo con una parola sola), che ebbe rapporti di «vicinanza» più o meno inquieta col fascismo delle origini, e poi ancora col regime. […] Ricorrenti in questo movimento erano i richiami a una supposta, pre-romana «sapienza italica» della «Saturnia Tellus» e/o al paganesimo romano e all’Impero, richiami che nel mito d’origine del fascismo si inserivano benissimo. Vale soprattutto per Reghini col suo Pitagorismo e per Julius evola con l’«imperialismo pagano». Ma tra gli «affini» ci stavano anche Giuliano Kremmerz, alcuni steineriani, alcuni teosofi, Roberto Assagioli, il poeta Arturo Onofri e soprattutto il «Gruppo di Ur» fondato dallo stesso Evola, con forte connotazione magica, ciò che bastava a farlo guardare con sospetto dal regime (e d’altra parte, il sospetto che si proponessero di influire sul fascismo per via magica non è del tutto infondato). Parentele più remote, poi, ne sono state indicate una profluvie: futurismo, dannunzianesi, le rune, dadaismo, NewAge, «La Voce» (il periodico di Papini e Prezzolini)… >. Un dettaglio che confermerebbe il quadrato di Saturno di Agrippa mi è parso di intravederlo nel numero 3, collocato esattamente nell’area dell’opera al rosso, il Rubedo, mentre gli altri numeri non hanno questa caratteristica. E sono tre gli ellissi di color nero, ma vedremo in seguito cosa essi indicano con certezza. La seconda “firma” del dipinto del solfo alchemico Abbiamo visto come il quadrato del dipinto in studio è stato inclinato per dar luogo al rettangolo dell’illustr. 9, un’indicazione tratta dal dipinto del solfo alchemico dell’illustr. 5. Ho già accennato alla seconda indicazione analoga del rombo posto in basso di questo dipinto ma ingrandito, cosa che ora ci porta a esaminare un altro modo di inclinare, non solo il dipinto dell’illustr. 2, ma tutto il tavolino come se fosse visto secondo la geometria dell’assonometria isometrica. Ma si tratta dell’immagine iniziale relativa, come se il tavolo fosse posto in una scatola, tale da far vedere in trasparenza qualcosa al suo interno. Di qui la comprensione della relazione dei tre ellissi neri del dipinto sul tavolino, con i misteriosi “tubi” del dipinto del solfo alchemico dell’illustr. 5. Ecco una nuova prospettiva della visione alchemica per identificare la natura di questi “tubi” che sembrano quelli di un organo di chiesa e che identificano i tre principi alchemici, il Solfo, il Mercurio e il Sale.
I tre principi alchemici
Lo Zolfo era ritenuto l’elemento primordiale che insieme al Mercurio poteva essere trasformato in qualsiasi altro metallo, anche l’oro.Il Solfo simbolico è annesso al principio maschile del Sole, del fuoco, dell’attività, della coscienza. Il Solfo è associato quindi alla parte mentale, il pensiero, lo spirito, la fiamma che discende sul capo degli apostoli, o più comunemente la fiamma dell’intelletto che accende l’intelligenza. Il Solfo è anche un principio acre e purificante; mantiene nei ranghi il principio mercuriale (la parte femminile emozionale ed emotiva) e veicola l’intelletto individuale verso la mente collettiva, universale, divina, che governa tutto secondo leggi eterne. Un Solfo forte determina salute, perché affranca da abitudini e vizi che portano lontani dalla Via Naturale, quella che dà adito a sprechi e accumuli inutili. Un Solfo debole lascerà via libera all’emotivo di spadroneggiare, col rischio di eccessi di ingordigia, timori inutili e depressione. Mercurio, l’anima, la vitalità. Attraverso i loro esperimenti gli alchimisti scoprirono che il mercurio poteva combinarsi con lo zolfo, a cui Paracelso aggiunse anche il sale. In base al tipo e alle proporzioni di questi tre componenti-principi, si pensava che in natura si verificasse una maggiore o minore solidificazione dell’etere, da cui si originavano così i 4 elementi-radice classici: fuoco, acqua, terra, aria. Scopo degli alchimisti era disciogliere questi elementi tramite distillazione riportandoli ai loro ingredienti originari, per poi ricombinarli in una forma più pura e nobile (il quinto elemento o quintessenza).Mercurio come divinità antropomorfizzata, è lo psicopompo, colui che mette in comunicazione la terra col cielo, gli inferi sotto la montagna con il paradiso sulla cima (l’olimpo) e come principio alchemico è ciò che scioglie, diluisce e ricondensa, da elemento volgare si rettifica e diviene elemento imperituro, che dà vita eterna. Sale. Il corpo. Il sale è comunemente conosciuto come conservante, dà sapore ai cibi e un tempo era considerato moneta di scambio. In alchimia esso simboleggia la durevolezza e la consistenza della materia, il corpo delle cose. Era ritenuto da Paracelso il terzo ingrediente, dopo solfo e mercurio, da aggiungere nelle operazioni di trasmutazione alchemica, che consistevano nella scomposizione degli elementi nei loro componenti originari per poi ricombinarli in una forma più eterea e nobile: solve et coagula. Il terzo principio alchemico in realtà non è principio ultimo né parte volgare o infima delle cose, ma di concerto con Solfo e Mercurio assolve al compito di dare sostanza e mutevolezza alla vita8.
Ancora una simmetria, la stella del tavolo visto in assonometria isometrica
Note:
1 Nota di Carlo Fabrizio Carli: La Fondazione Evola sta preparando un volume destinato a raccogliere tutte le testimonianze (poesie, testi teorici, lettere, dipinti) dell’attività di Evola quale artista d’Avanguardia. Chi volesse segnalare documenti ritenuti inediti, è pregato di prendere contatto con me (sarò il curatore del volume) al seguente indirizzo di posta elettronica: carlofabrizio.carli@virgilio.it
2 Fonte: http://test.insulaeuropea.eu/letture/a-tavola-con-latanor-di-carlo-pulsoni/
3 Il decostruttivismo è un movimento architettonico spesso contrapposto al movimento postmoderno.
I suoi metodi, in reazione al razionalismo architettonico, vogliono de-costruire ciò che è costruito. Il teorico del decostruttivismo è il filosofo francese Jacques Derrida e la nascita del fenomeno è avvenuta con una mostra organizzata a New York nel 1988 da Philip Johnson, nella quale per la prima volta appare il nome di questa nuova tendenza architettonica, che fu definita “Deconstructivist Architecture”. Alla mostra di New York furono esposti progetti di Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi e del gruppo Coop Himmelb(l)au.
In questa esposizione veniva estrapolata un’architettura “senza geometria” (la geometria euclidea), piani ed assi, con la mancanza di quelle strutture e particolari architettonici, che sono sempre stati visti come parte integrante di quest’arte. Una non architettura, quindi, che si avvolgeva e svolgeva su se stessa con l’evidenza e la plasticità dei suoi volumi. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Decostruttivismo
3 Fonte: http://www.floornature.it/progetto.php?id=4024&sez=30
4 Fonte: http://nonsprecareiltuotempo.blogspot.it/2011/10/opinioni-decostruzione-e-architettura.html
5 Nel folio 115 verso del “Corpus of the anatomical Studies” della collezione di Sua Maestà la Regina presso il Castello di Windsor, Leonardo Da Vinci riporta numerosi disegni della valvola aortica così come la sua valutazione delle diverse strutture. Questo “folio” rappresenta uno dei più ricchi esempi della precisa e accurata metodologia di Leonardo anche se,talvolta, di difficile interpretazione. Fonte: http://maori.unicz.it/?p=539
6 Filalete, Introitus apertus, Op. cit., cap. IV, 3.
7 http://www.fondazionejuliusevola.it/Quadri/Lalibras%27infiamma.htm
8 Fonte: http://www.disegnailcentro.it/antropologia/i-3-principi-alchemici/
Gaetano Barbella