di Mario M. Merlino
Duplice significato del procedere verso la vetta di un monte: ascesa del corpo; ascesi dello spirito… L’abbiamo scritto. Quando il sudore scivola lungo la schiena e dal sopracciglio stilla goccia a goccia a bruciare gli occhi e il fiato si fa corto e la bocca s’impasta e le gambe s’induriscono e negli scarponi le dita dei piedi sembrano ardere per autocombustione. E, intanto, ti dici ‘che cazzo ci faccio qui? Io vivo in città e prendo la macchina o l’autobus o scendo nella metropolitana…’, quasi godendo nel commiserarti, ‘anzi, ora mi fermo, riprendo le forze e me ne torno indietro tanto nessuno mi vede, non c’è nessuno a farmi la predica…’, facile sempre giustificarsi. Poi una strana vocina comincia ad insinuarsi, maledetta!, e ti suggerisce ‘magari arriva fino a quell’albero che svetta sopra quella roccia sporgente; in fondo saranno ancora pochi minuti, un centinaio di metri…’. Fregato forse, ma no, dai, è la piccola vittoria della tua volontà. E riprendi il cammino, cercando un altro punto ove lo sguardo si fissa e il passo lo rende ulteriore meta ed un altro ancora e ancora un altro… Poi t‘accorgi che tutto si rende più facile libero bello e vai spedito con qualche motivetto fra i denti e quella strana vocina, meravigliosa!, che ti sussurra ‘bravo!’…
Recupero da un vecchio testo l’epistola in cui Francesco Petrarca descrive l’ascensione al monte Ventoux (Ventoso) in Provenza dove il poeta sa armonizzare la descrizione della natura con la difficoltà di raggiungere una compiuta realizzazione di sé. Tema questo ampiamente ripreso nel Secretum: l’inquietudine che è a fondamento d’ogni domanda. ‘Sentio inexpletum quoddam in praecordiis meis semper’. Affermazione questa che è sì una personale confessione, sotto l’influenza di Sant’Agostino, ma che può ben divenire monito e premessa per tutti coloro che rifiutano d’acconciarsi nella banalità del quotidiano…
‘…io soprattutto m’arrampicavo per il montano sentiero con passi più moderati, mentre mio fratello per una scorciatoia attraverso il crinale del monte saliva sempre più in alto; io, più fiacco, ridiscendevo verso il basso, e a lui che mi chiamava mostrandomi la via giusta rispondevo che speravo di trovare un più facile accesso dall’altro fianco del monte, e che non mi rincresceva di fare una via più lunga ma più agevole’. Nel diverso modo di affrontare l’erta è palesato il significato allegorico: Gherardo, fratello del poeta, è prossimo sottrarsi dalle lusinghe del mondo e farsi monaco, mentre il Petrarca induce e, in fondo, si culla nell’indecisione, nelle contraddizioni dell’animo e nel ricorrente richiamo dei sensi.
Ed ancora (lo sfoggio della cultura è vanità cara a chi ha trascorso mesi ed anni infliggendo la tortura della cattedra e del registro!?). Molti anni fa acquistai in edizione raffinata, cofanetto e carta velina, l’opera di San Giovanni della Croce, che insieme a Santa Teresa d’Avila rappresenta l’apice della mistica d’età barocca e non solo. E mi tornano a mente i versi di T.S.Eliot e della cantante Giuni Russo che s’ispirò per una delle sue canzoni più evocative, La sua figura. Di San Giovanni della Croce rammento La salita del Monte Carmelo, il cui titolo è chiaro rimando all’ascesa quale ascesi. ‘Notte che mi hai guidato!/ O notte amabil più dei primi albori!/ O notte che hai congiunto/ l’Amato con l’amata,/ l’amata nell’Amato trasformata!’. Qui, comunque vada rivestendosi il pensiero, abbisognando esso stesso di forme compiute, lo spirito soffia simile a vento a spazzar via le nuvole che vorrebbero nascondere alla vista la cima del monte. Uno spirito che, soprattutto nel percorso montuoso, si riconosce fratello del corpo che l’imprigiona certo ma gli offre pure – e non è poco – lo stimolo a mettersi in gioco…
L’inviolabilità della montagna – quale tentazione simile a corpo di donna – … approssimarsi al distante, a colui che dall’alto guarda il mondo e se ne compiace o se ne adira. Superare il finito per essere prossimi all’infinito, collocarsi là dove la linea di demarcazione è, al contempo, linea di congiunzione: là dove ciò che ci è noto, l’umana nostra finitudine, si sublima in ciò che è ignoto e tale deve permanere, sia l’Essere sia il Nulla. Perché ascendere è sottrarsi e sottrarsi, in fondo, è un negare la consistenza, il principio di gravità, come nella danza o sulle cime dove l’aria si rarefa e si avverte un senso d’ebbrezza. Scrive Daumal, ne Il Monte Analogo: ‘l’alpinismo è arte di percorrere le montagne affrontando i massimi pericoli con la massima prudenza. Viene qui chiamata arte la realizzazione di un sapere in un’azione’.
Varrà la pena aggiungere, come fa lo stesso Daumal, che la ricerca della cima produce in un gruppo il senso della compagnia, si trasforma in una comunità. ‘Camminare insieme, parlare, mangiare, tacere insieme…avremo occasione di agire insieme, di soffrire insieme e ci vuole tutto questo per fare conoscenza’. Noi che abbiamo amato la montagna, i suoi silenzi, il fuoco acceso nella notte ed il levarsi del sole oltre le vette più ardite intendiamo bene e non soltanto attraverso la ragione ciò che l’autore sottace… Noi che abbiamo letto Gilles di Drieu la Rochelle e abbiamo avvertito ‘nostro’ Robert Brasillach sappiamo cosa vuol dire la parola ‘fratellanza’, ‘il frutto più bello del dolore degli uomini…’. E sappiamo quanto, attraverso il confine alto dell’orizzonte, ciò possa avverarsi.