“Io ho un sogno”
Anche se degenerata in prassi rozza e mercenaria, snobilitata o volgarmente meccanizzata, la guerra rimane una delle arti più potenti di cui l’uomo disponga per plasmare la materia. Essendo un’arte, la guerra ha carattere creativo e simbolico, presuppone una tecnica e un’estetica. Disegna forme di una bellezza corrusca e tenebrosa che da sempre, oltre a sgomentarlo, affascina l’uomo.
Questa fascinazione, che nasce da una mescolanza di caratteri – eroici e maligni, sublimi e feroci – dura finché osserviamo la guerra come un grande quadro, da un’opportuna distanza. Ma l’attrazione facilmente scompare se ci avviciniamo troppo. La guerra è bella solo finché non diventa troppo ‘scomoda’, finché non ci distrugge la casa, non uccide familiari e amici, non ci riduce al freddo e alla fame, non ci priva di una gamba.
Ora, a prescindere dalla sua orrida bellezza, si può dire che esista una guerra giusta, o una guerra santa? In realtà è difficile trovare argomenti che giustifichino o santifichino i conflitti che hanno devastato il mondo negli ultimi secoli. E anche trovassimo qualche buon motivo, tutto considerato potremmo pensare che una pace ingiusta sia preferibile a una guerra giusta.
Se però, come de Maistre, vediamo nella guerra una punizione divina, espiazione di colpe collettive, ogni guerra diviene implicitamente ‘giusta’, ineluttabile conseguenza fisica – quasi psicosomatica – di uno squilibrio spirituale. Si potrebbe anche dire che le guerre son giuste se dichiarate per una buona causa, svolte coi debiti modi (sanciti da regolari convenzioni), motivate da una legittima difesa. E che diventano sante se si ergono in difesa di principi religiosi.
Una certa teologia della guerra giusta, che attraverso Agostino e Tommaso informa la tradizione cristiana, è tuttavia incompatibile col principio evangelico di non resistere al male, principio che ha ispirato il pacifismo radicale di Tolstoj, ma che la Chiesa ha, nella sua lunga storia, ampiamente ignorato. Nemmeno il precetto dell’ahimsa è riuscito a vincolare indù e buddisti al rispetto della non-violenza. Del resto, è lo stesso Dio Krishna, che spinge Arjuna a uccidere i nemici del Dharma. Laozi, pur considerando la guerra un evento odioso e nefasto, ne ammette l’inevitabilità con rassegnazione, quando pare l’unico strumento per ristabilire un ordine sociale gravemente offeso.
Anche Machiavelli, per cui la pace è da preferire alla guerra, considera questa un’ultima ratio, “dove e quando gli altri modi non bastino”. La guerra sarebbe quindi, come dice von Clausewitz, “la continuazione della politica con altri mezzi”. Ma si potrebbe rovesciare l’assunto e osservare che la politica è continuazione della guerra e ne conserva la natura, in un continuum circolare e ininterrotto.
Tutti dicono di aborrire la guerra ma di fatto, per quanto ne esecriamo i tratti disumani, essa penetra in noi per osmosi, diviene dimensione emblematica dell’umano. Se superiamo la mera accezione di ‘guerra armata’ e accogliamo il più vasto concetto di ‘conflitto’, comprendiamo che tutto “accade secondo contesa e necessità”, in forza di un onnipresente Pòlemos. Come Minerva esce dalla testa di Giove armata di elmo, corazza, scudo e lancia, così la realtà nasce già in armi, espressione di un’opposizione tra contrari, tra principi antitetici eppur complementari, nemici eppur necessari l’uno all’altro.
Potremmo quindi vedere nell’idea di Nemico il fattore determinante della stessa evoluzione storica. Tale constatazione trascende l’ambito del politico e del militare. Ogni affermazione di sé implica un combattimento. L’artista lotta contro il brutto, il santo contro il peccato, il filosofo contro la stupidità, il medico contro la malattia etc. Ogni cosa può farsi ipostasi del Nemico.
Si può affrontare apertamente il conflitto, oppure aggirarlo, rimuoverlo, nasconderlo in sotterranee battaglie, negoziare col Nemico. C’è chi confligge tutta la vita con sé stesso, imprigionato nel circolo vizioso dell’homo nevroticus, morbosamente legato ai suoi conflitti da rapporti di amore e odio, autonomia e dipendenza. Ma vi sono anche lotte che il destino ci impone solo perché impariamo ad arrenderci, ad accettare la sconfitta.
La guerra non è dunque un’arte tra le altre ma la sostanza di un processo di attuazione del Sé, fondamentale modalità di relazione tra un individuo e gli altri o l’ambiente, o sé stesso. L’uomo stabilisce con ciò che lo circonda relazioni di concordia o discordia, e la stessa dicotomia amico-nemico coinvolge gruppi sociali, politici, identità razziali, religiose, nazionali.
Conservare in noi un nucleo di sentimenti ostili non è retaggio di istinti belluini ma una necessità spirituale. Ogni storia, se difetta dell’elemento di contrasto – l’avversità, il dissidio – perde di interesse e la sua energia vitale svigorisce. La pace stessa, privata della sua tensione interiore, degenera in apatica indolenza, mortifera palude. Da qui la funzione corroborante, terapeutica, che talvolta si attribuisce alla guerra.
In realtà, diventiamo pienamente coscienti di noi stessi solo attraverso un’opposizione – fisica, morale, intellettuale, sentimentale etc. – in forza di una privazione, di una sofferenza. Abbiamo perciò bisogno di un Nemico, di qualcuno che contraddica le nostre aspirazioni concrete o ideali. Questo antagonismo è ciò che più specificamente ci definisce. La soppressione dell’avversario annienterebbe anche noi, come eliminando il Tu non ci sarebbe più un Io.
Un fondamento di belligeranza è necessario all’auto-conservazione dello spirito, gli impedisce di cadere nel Nulla. Minacciando la nostra identità il Nemico la plasma e la vivifica, la spinge a compiersi. E se il nostro ‘buon cuore’ ci vieta di combattere, la conflittualità si rivolge su di noi, ci aggredisce e ci consuma, come in certe malattie auto-immuni.
L’apologia della pace, della fraternità tra individui e tra popoli, è una comoda, opportunistica simulazione. Chiamiamo ‘missioni di pace’ operazioni di guerra, vaneggiamo di ‘rivoluzioni pacifiche’, di ‘guerre umanitarie’! E perché non guerre pacifiche? La realtà è che la vita evolve attraverso Pòlemos, si espande mediante la distruzione di ciò che ne ostacola il flusso. Una pace troppo prolungata ci porta alla fredda sterilità, o a quella tiepidezza che induce Dio al vomito.
Con ciò non voglio negare l’alto valore della pace. Tuttavia, non intendo per pace l’astenersi da atti di violenza o il rifiutare questa naturale aggressività – insopprimibile come il far sesso – che anima individui e società. Non chiamo ‘pace’ l’effimero rilassamento, la breve vacanza, l’assenza di guerre ‘ufficiali’, l’aver fatto tabula rasa del nemico (“ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”).
La pace è un equilibrio interiore, privilegio, io credo, di pochi esseri superiori. È accogliere coraggiosamente il proprio destino, amor fati, condizione di chi vede nella vita ciò che deve essere e non ciò che vorrebbe vedere. Non è una pace etica, politica o sentimentale, ma spirituale, non ratificata da trattati e accordi inter partes, ma percezione di una quiete immutabile sotto le tempeste della vita. E penso che nessun uomo possa accedere a questa pace senza morire a sé stesso.
Non escludo possa esservi una società – nell’Età dell’oro, in un diverso ciclo cosmico o forse solo nelle utopie metafisiche, o nei miei sogni – dove il conflitto non è più impulso necessario all’evoluzione, dove le guerre sono bandite, dove regnano la concordia e l’armonia. Ma la nostra Era è campo di battaglia, non terra di Campi Elisi.
Perciò l’uomo non conosce pace. Sa solo di quei compromessi con cui amministra gli attriti personali, familiari, sociali. Si accontenta della precaria sicurezza di una società infestata da guerre sordide e avide, che cerca di nascondere la propria brutalità dietro slogan pacifisti. La pace è per noi un narcotico, rappresentazione ingannevole di un mondo che promette progresso e benessere, e intanto saccheggia il pianeta, sfrutta le persone, crea disuguaglianze, ingiustizie, abusi, perversioni.
Chi è dunque oggi il nostro Nemico? L’informazione corrente dirà che è un virus, il riscaldamento globale, la CO2, la recessione economica, il folle dittatore etc. Ma in una società nella quale ubbidire alla Legge significa ormai farsi complici di un potere corrotto, dove il rispetto dell’autorità è accondiscendenza al male, il vero Nemico è il Potere che la governa.
Siamo dominati dall’ideologia di borghesi arricchiti, mercanti, banchieri amorali. Finita l’epoca dell’ascesi monastica o cavalleresca, oggi si persegue solo una forma di ascesi mondana, legata al profitto, allo status sociale. Viviamo in una civiltà anti-spirituale per eccellenza, demonocratica, in cui l’adorazione di beni terreni non è più frenata da un barlume di fede religiosa, di timor di Dio, di dignità.
Il Nemico è la società stessa, lo Stato, le istituzioni, l’informazione, il lavoro, la sanità, la cultura. Paradigmi maligni e falsi valori distraggono l’uomo dagli scopi reali del suo esistere, lo sradicano dai fondamenti stessi di una possibile felicità, ne mortificano la natura. Pochi si ribellano, mentre gli altri si integrano più o meno consapevolmente nella generale corruzione.
La proporzione tra quelli e questi è probabilmente la stessa che v’era alle Termopili tra gli opliti di Leonida e l’esercito persiano. Pare dunque improbabile che qualcosa possa arrestare il declino dell’umanità. È più facile prevedere che una minoranza ristrettissima e senza scrupoli dominerà su una massa di individui alienati e succubi, i quali vedranno nel Potere, ossia nel loro più pericoloso Nemico, un Protettore, un Genitore rassicurante, un Grande Fratello.
Scivoliamo così verso i bassifondi dell’umano, dove brulica una casta servile, materia caotica di individui senza individualità, di apparenze senza realtà, umanità ridotta a numero, moto stocastico di particelle, cifre di una involuzione spirituale sempre più cupa.
Tuttavia, io ho un sogno, ho fede in un’eterna Legge per cui le cose devono cambiare, invertire il loro senso di marcia. La storia dell’uomo è soggetta ad avvicendamenti ciclici. Epoche idealistiche, spirituali, declinano verso il razionalismo e l’umanesimo, e da lì scivolano nel materialismo, nell’oblio dell’anima. Ma quando l’uomo, nella sua orbita, giunge al punto più lontano, punto di massima oscurità, si rivolge nuovamente al suo Sole spirituale, rivolgersi ineluttabile che è un rivoltarsi, un sorgere di moti rivoluzionari.
Nel mio sogno, a misura che ci avviciniamo al fondo buio della nostra catabasi, vedo manifestarsi una crescente tensione verso la luce. Ciò provoca smottamenti, crepe, scosse telluriche, frane nei fondamenti del Sistema. L’uomo, sempre più disgustato dall’artificiale, è attratto dalle voci della terra, ritorna alla natura, al sacro. In lui si sviluppa un’intolleranza alla complessità e all’ingiustizia dei meccanismi sociali, e insieme il rimpianto di una vita più semplice, pulita. Stanco di trance mediatiche e di mondi virtuali, cerca la verità.
Ma per uscire dal principio di inerzia che governa la nostra caduta servirà uno sforzo doloroso, una lunga e sofferta transizione. Il vecchio Potere si difenderà con ogni forza, si armerà contro lo spirito rinascente, cercherà di soffocarlo con ogni mezzo. Sarà un conflitto teso non a stabilire supremazie politiche o economiche, ma a contrapporre due concezioni della vita. Urto tra un desiderio di catarsi e culti satanici, lotta di uno spirito primaverile contro una vecchiaia laida e bugiarda.
Le persone normali, che amano la routine, le tranquille gioie domestiche, le abituali comodità, di cui vorrebbero assicurarsi il godimento perpetuo, non possono che aborrire il mio sogno. La guerra, che distrugge ogni sicurezza, che crea dolore, macerie e rovine, è per loro il colmo dell’orrore e dell’irrazionalità.
Ma nella storia poco conta quel che pensa la gente, corpo senza volontà che patisce il proprio destino. Sono sempre numeri insignificanti quelli che decidono il corso degli eventi. Lo spirito trascende statistiche e contabilità e la civiltà è il frutto di pochi uomini che ebbero una visione, una fede profonda, e seppero trasmetterle al popolo, rianimandone la massa inerte.
Perciò sogno uomini liberi, in cui si risveglia la divinità interiore, nei quali il freddo raziocinio diviene una lama rovente e si tempra nel fuoco di una volontà inflessibile. Sono questi – geni, profeti, santi, guerrieri – il lievito della terra. Ciò che li unisce è un’incrollabile disciplina, che attira e concentra in sé forze cosmiche e le fa scorrere nel mondo, come un vasto sistema di canali di irrigazione. Di questi uomini ha bisogno oggi il mondo, non di ‘manifestazioni pacifiche’.
Non dobbiamo invocare divinità sorridenti e benevole ma Dee terribili, che abbagliano, sconvolgono e purificano. Non predicare virtù flaccide e compiacenti ma esser fanatici, perché nessuna salvezza può venire da una coscienza moderata, inebetita da luoghi comuni, da ipocrisie politiche e numerologie scientifiche.
Siamo stati teneri fino a diventare una disgustosa gelatina. Abbiamo avuto una mente tanto aperta da essere invasa e infettata da ogni sorta di germi e parassiti. Dovremo ora chiuderne gli accessi, respingere gli assalti del dubbio e tornare ai dogmi dello spirito; rovesciare i tavoli delle discussioni interminabili, metter fine agli accomodanti dialoghi, ai discorsi costruttivi, ai balletti diplomatici.
Sogno una insurrezione di forze feroci che mozzino la testa al vitello d’oro, al repellente Dio degli usurai e dei filantropi che ci comandano, al Leviatano che vive in un fetido mare di deiezioni economiche, scatologici flussi di conti, bilanci, interessi bancari e operazioni finanziarie. E insieme sogno che ci sbarazzeremo di tutti quei famigli, custodi politici e culturali, leccapiedi, portaborse, manutengoli che lo servono e proteggono.
Non ci servono scienziati, tecnici o economisti, ma asceti e guerrieri. I primi dovranno col silenzio aprire il mondo all’influsso di forze spirituali, i secondi trasformare quell’energia in azione. Non garbati, educati mahatma, ma santi ribelli, profeti che suscitino in noi un’ira sublime e la sappiano dirigere. Che ci trascinino oltre il conformismo e le nostre paure, verso una redenzione e una palingenesi.
Non sogno di risanare il mondo con bombe, missili, cannoni, ma attraverso uno sforzo spirituale, un jihād. Dopo tante false emergenze, dovremo porci al servizio di questa unica reale emergenza, il diventar uomini liberi. Per questo, prima di scagliarci contro la demonocrazia e i suoi seguaci, dobbiamo abbattere gli idoli falsi e melliflui – il perbenismo, il moralismo, la tolleranza, il rispetto ecc. – con cui il Potere ha addomesticato le nostre coscienze.
Non sogno semplici purghe sociali o la soppressione fisica del Nemico, ma un uomo che si libera dei degradanti modelli di vita della società moderna e si inchina di nuovo alla trascendenza che lo abita. Un’umanità che si ripulisce del catrame materialista che le ricopre i polmoni fino a soffocarla, che si disintossica dalle droghe del progresso.
Vedo uomini che provano orrore e ripugnanza all’idea di uccidere e di far soffrire, ma insieme comprendono il valore della morte e del dolore; che hanno compassione, ma non sacrificano la giustizia a un eccesso di pietà; che non subiscono il fascino del potere o del profitto e tuttavia nutrono una potente ambizione spirituale; che amano la pace ma sanno combattere e ripongono nel coraggio, non nelle concessioni altrui, il fondamento della libertà.
Queste saranno le virtù di chi combatte questa guerra. La violenza assume allora carattere provvidenziale, diviene manifestazione di quegli attributi divini che nell’uomo si incarnano, che ne fanno non solo un creatore e conservatore di realtà terrene, ma anche, secondo necessità, il distruttore, medium di quelle forze che trasformano i sogni in realtà.
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