«La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere».
(Keats)
“La bellezza salverà il mondo” è un concetto che, in chi si diletti di cercare soluzioni alla crisi della civiltà, produce un un effetto consolante, come un’improvvisa e gradita illuminazione. Appena sfiorato la membrana del timpano già vi carezza i precordi dell’anima e vi si adagia comodamente, prendendo dimora tra altri consolanti luoghi comuni. “È proprio così”, sospira una voce interiore, sospesa tra una malinconica sete di bellezza e l’attesa d’esser salvata.
Questa resa immediata, senz’ombra di resistenza, a un’affermazione tanto problematica, la condiscendenza con cui accettiamo gli ignoti presupposti di questa soteriologia, si può forse spiegare con un assioma generalissimo: la bellezza è ciò che dà piacere – quel che tutti cercano. Definizione priva d’ogni pretesa filosofica, che non risolve il problema di cosa accomuni la bellezza di una scarpa e quella di un sonetto petrarchesco, ma che ha il pregio dell’obiettività psicologica.
Basti constatare che, quando siamo posti alla mercé di stimoli sensoriali, mentali ed emotivi, il nostro scopo primario è evitare il dolore e cercar di trarre dalle circostanze qualche soddisfazione. È un semplice codice binario in cui le combinazioni di 1 e 0 possono generare sistemi di inaudita complessità e soluzioni a volte dritte, a volte tortuose, persino contraddittorie.
Una sofferenza immediata può sembrare un mezzo per procurarsi un piacere futuro, ma si può anche finire col godere della sofferenza. Sottoposto ai filtri dello spirito, il primitivo senso del piacere evolve in quelli più sofisticati del ‘buono’ e del ‘bello’, creando le nostre periclitanti scale di valore, nonché i vari gradi della nostra felicità o afflizione.
Di fatto, si ama ciò che in un modo o nell’altro dà piacere. Ma se ci chiedono cosa sia il piacere, risponderemo che è l’esperienza del bello e del buono. Questo crea un’evidente tautologia, per cui “il bello è ciò che piace e il piacevole è ciò che è bello”. Segno che stiamo trattando con irriducibili postulati, oltre i quali c’è il nulla.
Nella kαλοκαγαθία – fusione di bello e di buono – i greci vedevano l’ideale perfezione dell’uomo. Ma è modello teorico, che vive solo nel pensiero astratto. È in fondo un retaggio di quella ricerca d’assoluto che ci inganna su noi stessi e sul mondo, rimuovendo dalla coscienza la natura relativa dei valori. Infatti:
«Tutti nel mondo riconoscono il bello come bello.
Così, ecco sorgere il brutto.
Tutti riconoscono il buono come buono.
Così, ecco sorgere il non buono».
È l’idea di bellezza che determina il brutto, l’idea di bontà che produce il malvagio. La bellezza non può dunque salvare il mondo più di quanto lo possa condannare. Se l’aforisma del principe Myškin ci lusinga è perché promette una salvezza dal dolore, evoca un mondo utopico, redento dalla violenza dei contrari, dall’ingiustizia, dalla miseria. Riflette il nostro sogno di una luce senz’ombre, di un amore senza tormento, di una bellezza in cui tutto si concilia. Dimentichiamo così che “se Buddha cresce di un pollice, Mara (il diavolo) cresce di due”.
Myškin si consegna ingenuamente alla bellezza perché è innamorato, e l’amore rifiuta i concetti. Quindi lui stesso tace, quando Ippolito, l’ateo, gli chiede “quale bellezza salverà il mondo?”. Il bello non vuole spiegazioni, vuol restare un enigma. Inutile trattar di queste faccende con gli scettici, i razionalisti, che non ne colgono intuitivamente il senso! Così Cristo, di fronte a Pilato che gli chiede “cos’è la verità?”, resta in silenzio. L’analogia è significativa, perché bellezza e verità sono realtà inseparabili, aspetto visibile della divinità la prima, invisibile la seconda. Per così dire, esterno e interno dell’Essere.
Si potrebbe dedurne che a salvare il mondo siano l’amore, la verità, Dio stesso (“bellezza antica e sempre nuova”) e per converso che l’egoismo, la falsità e l’ateismo lo distruggano. Pensieri che pare inutile affaticarsi a chiarire a chi non ne avverta da sé l’evidenza metafisica. Così tutta la questione diventa materia di fede e potrebbe finir qui. La frase dell’idiota sarebbe rivelazione di carattere profetico, da prendere o rifiutare in blocco. Ma, anche ammesso che il soggetto ne sia una trascendenza ineffabile, che senso ha salvare il mondo?
L’idea di salvezza si lega a quella di salute e questa, più originariamente, a un concetto olistico di totalità intatta e indivisa. Consiste quindi nel conservare l’integrità di qualcosa. ‘Mondo’ è invece termine ambiguo, sinonimo di puro o pulito, ma è anche cosmo o insieme di realtà sociali, mentre ‘mondano’ sa di cose effimere e superficiali.
Alcuni notano che mir, la parola usata da Dostoevskij, significa sia mondo che pace. Esiste dunque una relazione tra l’estetica e la pace? Quanti sono nella storia i periodi in cui all’abbondanza di bellezza non fanno da contrappeso guerre dilanianti e orribili violenze? Quanta creatività artistica, poetica, filosofica, nel Rinascimento! E quanti eccidi, quante torture, quanta orribile miseria umana! Questo dovrebbe disilluderci sulla capacità del bello di produrre pace o giustizia.
Il fatto è che la bellezza non si limita al puro godimento di un occhio distaccato. In essa troviamo la passione carnale, l’egoismo e il desiderio di possesso. La madre non procura piacere al bambino perché è bella ma gli appare bella perché gli procura piacere fisico. Solo in un secondo momento, dopo un’elaborazione intellettuale, la bellezza acquista un suo valore autonomo. Così, il sorriso della madre assume simbolicamente la funzione appagante del seno e del latte, lo sguardo dell’essere amato ci ispira piaceri immateriali.
Nel nostro amore per la bellezza si confondono sentimenti distruttivi e riparativi. Da un lato, v’è l’impulso a impadronirsi dell’oggetto amato, a saccheggiarlo fino a consumarlo totalmente. Dall’altro, quello di mantenerlo integro – ossia di salvarlo – mediante affetti altruistici, di donazione e sacrificio. Questo costante conflitto è motivo per gli innamorati di lunghe macerazioni e di rare, brevi estasi. Anche l’arte, che è metafora della vita, conosce bene un simile tormento.
Imberty, filosofo della musica, si avvale di congetture freudiane per spiegare il bello musicale. In “Al di là del principio del piacere” Ernst, bambino di diciotto mesi, fa cadere un rocchetto oltre la sponda del letto tenendone il filo, per poi ritirarlo a sé con un’espressione compiaciuta. Il gioco rappresenta simbolicamente la madre assente che il bimbo può richiamare a sé, riuscendo in tal modo a dominare l’angoscia dell’abbandono.
Questa funzione catartica si ritroverebbe nel dipanarsi delle modulazioni musicali, nel loro allontanarsi da una tonalità iniziale, materna, per esplorare un mondo di tensioni e dissonanze, e tornare infine a riposare nell’accordo perfetto e tonico da cui sono partite. La bellezza non sta però nel principio o nella fine dell’opera, ma nella sua intera parabola, nelle relazioni dialettiche tra le parti, nel vasto intreccio di sviamenti, diversioni, che sembrano alienarci dalla Madre ma che sempre ce ne conservano il ricordo.
L’esperienza estetica si assimila dunque a una tensione etica, perché implica un’accettazione del male, trae valore anche dalla sofferenza e dalla privazione, insegna che il piacere deve costantemente dialogare col suo contrario. “Shiva risplende anche nel dolore”, dice Abhinavagupta. Nell’atto di armonizzare i contrari la coscienza trascende la dimensione dell’io e del mio, si distacca dal suo utilitarismo. In tal modo anche la rappresentazione dell’orrido, del funebre, del disgustoso etc. diviene fonte di piacere.
L’io riscopre nell’arte il suo potere creativo, gode nel sublimarsi e universalizzarsi, ossia nel traboccare oltre i limiti dell’individualità e dei suoi pratici bisogni, oltre la sua stessa morte. Entra in contatto con un fondale metafisico, dove i dissidi compongono la sinfonica unità del reale.
L’amore della bellezza emancipa dai loro caratteri egoistici l’appropriazione e il godimento, li rende disinteressati. Si trasfigura infine in filocalia, che è partecipazione al Bene sommo, contemplazione senza scopo. La bellezza infatti è stupore che non serve a nulla, è fine e mezzo a sé stessa. Questo, d’altro canto, la rende di solito inadatta a cambiare il mondo, perché la meraviglia ci distoglie dall’azione, invitandoci a quella ‘teoria’ che è semplice guardare.
La bellezza non genera necessariamente un’edificazione morale. Per renderla eticamente efficace dobbiamo cercare in lei l’antidoto al caos, quell’ordine cosmico che è necessario alla vita. Non l’astratta armonia o una serie di eleganti rapporti matematici, ma un bene concreto che nutra l’anima e il corpo. Dobbiamo però guardarci da un’estetica moraleggiante, bigotta. La critica astiosa di ciò che è brutto può diventare un’ossessione pericolosa, che ci abbruttisce. Occorre distaccarsene e volgersi al bello, riscoprirlo nella creatività della natura e dello spirito. E ogni bellezza trovata va partecipata, condivisa o, per meglio dire, commoltiplicata.
Questo non significa che la bellezza salverà il mondo. Il mondo gode ab initio di una pura bellezza, e non ha alcun bisogno d’essere salvato. È il grande Mandala. Il suo senso profondo nasce dalla radice sanscrita mand, adornare. Il cosmo è infatti ornamento del divino, come quelle gemme preziose che una donna indossa per apparire ancora più bella. Mentre Dio crea l’universo vede che “ogni cosa è buona”, ma potremmo, senza tradirne il senso, tradurre che è “ogni cosa è bella”.
Ma il mondo sotto la nostra discutibile tutela, s’è fatto ‘mondano’ e infine immondo. Perché la bellezza è cosa fragile e va maneggiata con estrema cura. Noi invece abbiamo sporcato cielo e terra, abbruttito le città, le relazioni umane, la stessa arte. La nostra politica è sfigurata da secoli di doppia morale: quella del cittadino e quella del potente. Uno tenuto al rispetto di virtù sociali, l’altro giustificato nei suoi crimini dalla realpolitik, da un cinismo in cui ogni bellezza sarebbe solo d’impaccio alla prassi del comando.
Così, le nobili passioni che ancora animavano il Medioevo son degenerate in calcoli machiavellici, nel culto di un Potere senza onore, senza scrupoli, odioso ma abile nel curare gli interessi dello Stato. Finché, ai giorni nostri, il potere politico, ridotto a interesse privato e a laida furfanteria, non solo è privo d’ogni decenza morale ma dello Stato più non si cura. Machiavelli certo non lo aveva previsto, e nemmeno immaginava che l’amoralità del Principe, che l’esempio di tanti pessimi ottimati potesse guastare l’intera società e precipitarla nell’abisso del nichilismo.
Dovremmo perciò chiederci quale bellezza potrà salvarci da noi stessi, dalla nostra follia. Io credo sia quella bellezza che è “splendore del vero”, “fioritura dell’essere”, che non può dunque esser separata da un’intima esigenza di verità. I falsi, nell’arte come nella vita, non hanno alcun valore. Occorre, per salvarci, uscire dalla simulazione e dalla dissimulazione, da quella falsità elevata a sistema che ha trasformato la nostra civiltà in una latrina di menzogne.
Presi da un bruciante desiderio del vero, potremmo forse ritrovare la bellezza della politica, della società e dell’uomo. Ma questo è invocare un miracolo, è come dire: «solo un Dio può salvarci». Le grandi stanze del potere e della cultura sono ormai stalle di Augia, e non basterebbe un Ercole a ripulirle. D’altro canto, rifugiarsi nella contemplazione del bello può essere una piacevole evasione. Ma un’estetica che divorzi da ogni vincolo di etica e verità non può salvare il mondo. Si estinguerebbe nel mero buon gusto o in quella passione dell’arte nota anche ad anime malvagie.
Dunque a quale bellezza affidarci? Myškin non risponde, ma possiamo divinare il suo pensiero. È principe, quindi sa che non può esservi bellezza senza nobiltà (un’umanità borghese preferisce l’utile e il comodo al bello, inclinando fatalmente alla bruttezza o a bellezze meschine); è ‘idiota’, intuisce che la bellezza non segue i sillogismi della ragion pratica; è innamorato, e in cuor suo sogna una compassione universale, nella quale ogni forma di bellezza trova la sua radice e il suo compimento.
Sono aneliti d’assoluto che la vita, con la sua fisiologia dei contrari, può soddisfare solo relativamente, deludendoli. Possiamo tendere solo a un precario equilibrio in cui il bello e il buono prevalgano, accontentarci di una felicità possibile. Inoltre, se per ‘mondo’ intendiamo la massa umana, la bellezza non lo salverà mai, perché il bello ha natura aristocratica. I sentimenti nobili e alti troveranno sempre un limite nella grettezza, la grazia naturale resterà ovunque impedita dal goffo artificio, la sincerità sarà sempre offuscata dall’ipocrisia, dalla retorica dei bei discorsi.
È in questo senso che Laozi dice: «le belle parole non sono vere, le parole vere non sono belle». I canoni estetici, le raffinatezze, non salveranno il mondo. Sarà invece il mondo, quel che resta in noi di una purezza originaria, a salvare la bellezza. Non le incerte riforme politiche o sociali ma una restitutio in integrum della nostra natura. In ognuno c’è un seme che, germogliando, aspira alla luce, un amore che sa accettare il dolore e il sacrificio. Questa è la forza rivoluzionaria che può ripristinare una verità orribilmente conculcata, curarne le ferite. Così, mondandoci da tutto ciò che è falso, ci capiterà forse di ritrovare la bellezza e in quella d’esser salvati.
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