La visione del mondo propria dei popoli Pellerossa delle praterie dell’America del Nord è diametralmente altra dal senso comune realizzato dalla modernità e dalla post-modernità. Guardare ai riti, ai miti di quei popoli, presentatati come barbari e selvaggi da troppe pagine della letteratura e da innumerevoli «capolavori» della cinematografia statunitense, può essere attività spiritualmente ristoratrice. Per tale ragione presentiamo un libro indispensabile per avere acconcio accesso al mondo valoriale di quei nobili guerrieri. Ci riferiamo al testo di Frithjof Schuon, Il sole piumato. Religione e arte degli Indiani delle praterie, che compare nel catalogo delle Edizioni Mediterranee (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranne.net, pp.186, euro 29,95).
Si tratta di un’opera che caldeggiamo, non solo per i contenuti, ma per la pregevole edizione. Il testo è accompagnato da diciotto tavole, riproducenti i dipinti dell’autore, aventi per soggetto scene di vita quotidiana Pellerossa o rappresentazioni di rituali sacri. Da essi emana una straordinaria bellezza. Il libro si articola in tre parti: la prima raccoglie saggi di Schuon, la seconda passi del diario che egli tenne durante i viaggi nelle praterie, ospite di diverse tribù, la terza presenta estratti di lettere dell’autore. Questi, sin da bambino, aveva sentito parlare degli ‘Indiani’ d’America dalla nonna materna e tali racconti avevano profondamente influenzato il suo immaginario. Nel 1953, con sua moglie, assistette ad una esibizione di rappresentanti della tribù Crow, che si trovavano a Parigi in tournée. Cinque anni dopo i coniugi si recarono a Bruxelles per incontrare un gruppo Sioux. Tali incontri e l’amicizia stretta con alcuni Capi, spiegano il viaggio di Schuon e signora del 1959: i due furono accolti nella riserva Sioux del South Dakota e, più tardi, nella riserva Crow nel Montana.
Gli Schuon furono adottati nella famiglia di un Capo tribù e tornarono a rendere visita ai popoli delle praterie nel 1963. In quell’occasione poterono assistere alla Danza del Sole a Fort Hall. L’immediata sintonia che Schuon provò per i Pellerossa è da ascriversi al fatto che egli è stato uno dei massimi rappresentanti del tradizionalismo integrale: allievo di René Guénon, i suoi riferimenti ideali gli permisero di stabilire un rapporto empatico con gli interlocutori Pellerossa, ampiamente testimoniato da queste pagine. Per l’autore e per le tribù guerriere di cui parla, l’intera natura è simbolo. L’acqua come qualsiasi altro aspetto del manifestato è: «prima di tutto l’apparenza sensibile d’una realtà-principio» (p. 26), non perché i Pellerossa siano latori di una visione panteistica. La loro prospettiva è, anzi, opposta: non il Principio è nelle cose, ma tutto il cosmo è nel Principio. Il bisonte per questi popoli è una divinità: «ma il solo fatto che (il Pellerossa) lo cacci prova che distingue chiaramente tra l’entità’ reale’ e la forma ‘accidentale’ e ‘illusoria’» (p. 30). Con il che vengono meno le fisime ‘concretiste’, con le quali si è cercato di spiegare, secondo modalità riduzionista, la loro religione.
L’intera Tradizione Pellerossa è esemplificata dal simbolo della croce inscritta nel cerchio: il cerchio indica il Cielo, la croce le quattro direzioni dello spazio e le altre quaternità del cosmo, oltre al ternario verticale Terra-Uomo-Cielo. E’ centrale, e ritorna in molti riti, il numero dodici, espressione della combinazione del tre e del quattro. L’Uomo è il centro del quaternario spaziale e del ternario verticale, in lui, in quanto mediatore, si incontrano la Terra e il Cielo. Sta nella natura ‘inferiore’ ma può conseguire la natura ‘superiore’. L’uomo come nobile possibilità, come copula mundi, emerge dai ritratti carichi di bellezza ieratica che l’autore ci ha lasciato di questi fieri guerrieri. Ogni Pellerossa ha coscienza del proprio valore: si considera profeta di se stesso, in quanto ha conseguito, nell’iter di ascesa, una rivelazione personale (inquadrata però all’interno di regole afferenti al profetismo collettivo). Ogni Uomo rosso sente nei confronti della Natura sacra, della tribù e dei suoi simili, il bisogno di: «una reciprocità del dono […] di generosità» (p. 39), in un contesto sociale nel quale la ‘fedeltà a se stessi’ è prioritaria. Tale fedeltà riconosce nel combattimento un modus vivendi imposto dalla natura, cui si accompagna una contemplazione silente e solitaria.
E’ il tratto sciamanico a connotare di sé tale visione del mondo, un tratto in cui risultano prevalenti gli aspetti ‘vitali’ e di ‘potenza’: «caratteristica d’una mentalità guerriera e più o meno nomade» (p. 46). Lo strumento rituale e, al medesimo tempo, sintesi simbolica della loro religiosità è la Pipa sacra. Il Calumet discese dal Cielo. Dal suo cannello penzolano quattro nastri, indicanti i quartieri dell’Universo e i loro spiriti. La piuma d’Aquila che sormonta la Pipa indica l’Uno, di cui i quattro spiriti sono manifestazione. Quando il Calumet viene acceso il fumo che si perde nello spazio indica la de-individualizzazione, che l’uomo deve realizzare per verticalizzare la sua vita e tornare al Principio. L’uomo in realtà, per essenza, è divino e con il rito, deve prenderne coscienza e divenire ciò che è. Deve farsi Sole, il Sole piumato con le penne d’aquila, l’uccello che più di ogni altro, con il suo volo, simbolizza l’ascesa al Cielo, tema ornamentale onnipresente nel vestiario Pellerossa.
Medesima situazione è realizzata nella Danza del Sole: «L’intenzione interiore e immutabile è di congiungersi alla Potenza solare, di stabilire un nesso tra il Sole e il Cuore» (p. 112). Si tratta di un rito pontificale centrato sulla ‘magia analogica’. Elemento centrale del rito è l’albero, axis mundi, al quale i danzatori si attaccano con corregge fissate da uncini ai loro petti. La Danza dura tre o quattro giorni ed è preceduta da un digiuno purificatore. Il movimento dei danzatori si sviluppa tra l’albero e un riparo circolare, onde simulare le due fasi della respirazione o il battito cardiaco. Al centro, in prossimità dell’albero, i danzatori attingono la forza, mentre arretrando la espandono sul mondo. Il tutto è accompagnato dal fischio prodotto da un osso d’aquila, che ogni danzatore ha in bocca, mentre tra le mani agita una piuma del medesimo volatile. Gli astanti cantano attorno ad un tamburo, percosso a ritmo sempre più accelerato: «ponendo così in rilievo il carattere virile della loro melopea» (p. 116). La danza del Sole vissuta profondamente, suscita uno stato interiore di partecipazione al divino indelebile.
Con la Danza del Sole non solo si ricorda il Principio, ma si realizza la: «purificazione dal molteplice e dall’esteriorità» (p. 152). Schuon rileva, inoltre, che qualità connotante queste tribù è la liberalità, accompagnata dal disprezzo delle ricchezze. Questi sarebbero i selvaggi? E noi ‘civilizzati’, dispersi nel mondo della mercificazione universale, cosa siamo?
Giovanni Sessa