26 Ottobre 2024
Storia delle Religioni

Il Tempio dell’Uomo – Marco Calzoli

Le fonti riguardo la teoria del tempio induista sono:

 

  • VASTUSHASTRA: Trattati di architettura
  • SHILPASHASTRA: Trattati di scultura.

 

         I Vastushastra non sono trattati di costruzione ad uso degli artigiani. Piuttosto sono testi scritti dai brahmani letterati (casta sacerdotale dell’induismo) per sacralizzare la costruzione. Infatti, trattano del simbolismo dell’architettura e dei rituali necessari prima, durante e dopo la costruzione al fine di ottenere una pianificazione in armonia con la natura.

        I brahmani soprintendevano alla costruzione occupandosi delle necessità rituali. Il corretto svolgimento dei rituali gratifica la divinità che di conseguenza prende residenza nella cella del tempio (il garbagrha, la parte più sacra del tempio).

      Il tempio deve essere una rappresentazione del cosmo: è infatti un MANDALA TRIDIMENSIONALE. Il mandala è un disegno che rappresenta simbolicamente l’intero universo. Il tempio è una architettura che riproduce un mandala nel senso che è simbolo del cosmo. Per la riflessione indiana, il microcosmo (uomo) è coincidente con il macrocosmo (universo), ragion per cui il tempio induista, riproducendo il cosmo, riproduce anche l’anatomia sottile dell’uomo.

      Vastushastra è un termine che fa riferimento a un genere letterario o una serie di testi dedicati alla scienza (shastra) dell’architettura (vastu). Non riguarda solo l’architettura templare, la quale ne è solo una sezione. Tali testi trattano di architettura, scultura, pianificazione urbana, costruzione di fortificazioni, e così via. Vastu include anche la filosofia che lega l’architettura al macrocosmo (universo).

        I Veda, che sono i testi sacri dell’induismo, si dividono in due grandi sezioni. La prima è la Śruti = conoscenza “ascoltata”, rivelata, costituita dalla Samhita (Rigveda, Samaveda, Yajurveda, Atharvaveda), dai Brahmana (commenti alla Samhita), dagli Aranyaka (testi per gli asceti delle foreste), Upanishad (o Vedanta, testi filosofici). La seconda sezione è detta Smurti = testi “ricordati”, non rivelati ma composti da autori umani (suddivisa in vedanga e in Itihasa). Al Vedanga appartiene anche il Vastushastra relativo alla architettura templare; infatti, nel tempio viene celebrato il rito, del quale trattano la Samhita e i Brahmana.

      Riferimenti ai principi dell’architettura (vastu) si trovano per la prima volta nello Sthapathya Veda che è parte dell’Atharva Veda. La conoscenza/scienza (shastra) relativa al luogo abitato (vastu) si ritrova in manuali sui vari aspetti di quella che chiameremmo architettura. Cioè geometria, progettazione, misurazione, organizzazione degli spazi, preparazione del terreno di costruzione, e così via.

       I Vastushastra si basano su un sistema di credenze che mira all’integrazione dell’architettura con la natura utilizzando la simmetria, i pattern geometrici sacri (yantra, termine che vuol dire anche mandala) e gli allineamenti direzionali. Dei manuali includono anche informazioni astrologiche e rituali. Questa scienza mistica aspira a bilanciare la natura con l’agire umano, conferendo alle costruzioni armonia e la capacità di veicolare energie positive.

       Questa idea deriva dalla credenza nelle forze intrinseche ai cinque elementi (pancha mahabhuta), cioè aria, acqua, fuoco, terra e spazio, e alla loro interazione. Pertanto, il bilanciamento intenzionale degli elementi avrebbe il potere di veicolare energie positive producendo felicità, armonia e prosperità. Anche le direzioni hanno grande importanza a tal fine, pertanto sono state teorizzate anche le interazioni fra spazio e costruzioni a varie scale, dall’orientamento geografico a quello astronomico.

        Già dal VI sec. d.C. erano in circolazione in India testi in sanscrito con istruzioni architettoniche. Dei numerosi testi che trattano in maniera più o meno estesa di architettura, i più completi e noti sono:

 

  • Mayamata
  • Manasara
  • Samarangana Sutradhara
  • Rajavallabha
  • Vishvakarmaprakasha
  • Aparajitaprccha.

 

       Vāstupuruṣa è l’essere divino che controlla un luogo non antropizzato su cui si intende costruire una struttura. Il Vāstupuruṣa diventa poi anche la divinità che protegge la struttura. È anche chiamato Vāstoṣpati, con questo nome è infatti menzionato già nel Ṛgveda.

      Vāstupuruṣa è oggetto di culto qualora si debba costruire una nuova struttura, la sua stessa immagine (sottoforma di feticcio) deve essere posta nelle fondamenta a faccia in giù (adharānanaṃ).

       Il mito relativo al Vastupuruṣa lo dipinge come un demone intenzionato a distruggere il mondo degli uomini e degli dèi. Questi ultimi lo bloccarono per molti anni al fine di controllarlo, e le varie divinità preposte al controllo delle varie parti del corpo del Vastupuruṣa sono venerate nella posizione presa.

       Il Vastupuruṣa è rappresentato incluso diagonalmente in un quadrangolo (maṇḍala), che rappresenta il terreno di costruzione di un edificio, in particolare templare. Gli dèi, con Brahma al centro, trattengono il puruṣa schiacciato a faccia in giù, offrendo una distribuzione geometrica per la costruzione e sacralizzazione del terreno di costruzione e dell’edificio.

        Nell’India antica il tempio costituiva il punto focale dell’arte, cultura ed istruzione. Pertanto, esso costituisce anche il centro focale dell’assetto urbano. I templi sono centri energetici estremamente potenti che possono profondamente influenzare e trasformare le persone e la società. La scienza del vāstu relativa all’architettura templare probabilmente costituisce il nucleo originale di tutta la letteratura vāstuśāstra, successivamente ampliato ad altri ambiti della costruzione (pubblica, domestica, e così via).

        Prāsāda è un termine tecnico sanscrito che indica genericamente il tempio, oltre a indicare la grazia divina. Indica un luogo di dimora, la residenza della divinità. Il termine prāsāda in questa accezione è incluso nell’elenco dei sinonimi presente nella Mayamata XIX.10-12 e nella Mānasāra XIX.108-12.

         Come abbiamo già accennato, la letteratura dei Vastushastra non riguarda l’architettura in senso moderno, bensì è più un insieme di norme e riti relativi alla costruzione di immobili e di mobili (seggi, mezzi di trasporto) assieme a un piccolo manuale di iconografia.

           Bisogna anche notare che per la concezione indiana antica, la natura in quanto tale non è una realtà positiva. I luoghi, infatti, sono infestati da spiriti maligni, da energie nefaste che bisogna ritualizzare affinché diventino manifestazione del divino. Quindi, da una parte, abbiamo una pietra grezza, una natura selvaggia, piena di demoni, la quale diviene pietra squadrata, addomesticata in un tempio, da un continuo lavoro rituale mediante le indicazioni contenute nei Vastushastra.

          Pertanto, il Mayamata è stato visto come una specie di rituale, quello del costruire. Costruire equivale a trasformare il luogo, i materiali di costruzione in un insieme più sofisticato e completo, che fosse gradito agli dèi secondo le indicazioni che essi stessi danno al redattore dei Vastushastra.

           Con l’opera rituale dell’architetto la natura non è più tale, sembra solamente, in quanto diviene una opera del costruire, plasmata dal costruttore su indicazione degli dèi. Tutte le tradizioni dell’umanità hanno messo in relazione il processo della creazione architettonica con l’idea del divino.

           Nella mitologia indiana, l’architetto (sthapati) vanta una discendenza divina. Egli deriva dall’Architetto dell’Universo, il quale rivela i segreti alla propria discendenza per costruire templi e case che fossero manifestazioni del divino. Nel Manasara la figura che dirige i lavori viene definita “maestro costruttore” (II, 17; 26-27; 31).

          Secondo la rivelazione cristiana, il vero tempio, quello che Dio gradisce più di tutti, non è un edificio in pietra ma l’uomo stesso. 1Corinzi 3, 16-17: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui”. Già Osea 6,6 faceva dire a Dio: “Amore voglio e non sacrifici”. Giovanni 1, 14: “E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in noi”, dove l’aoristo greco eskēnōsen significa letteralmente “ha posto la tenda”, da skēnē, “tenda” (nel greco biblico spesso gli aoristi hanno valore di perfetti): per alcuni l’allusione sarebbe al velo del tempio di Gerusalemme che ricopriva l’Arca dell’Alleanza. Quindi Giovanni fa una duplice dichiarazione: il Verbo di Dio, Gesù, è venuto a risiedere in noi (en ēmin, che si può intendere anche “in mezzo a noi”), e noi siamo il vero tempio di Dio.

           Tutte le culture sulla faccia della terra hanno parlato di Dio. In ogni religione c’è del vero e del buono e il fedele di una qualsiasi religione può ottenere la salvezza finale. Ma è verità cristiana che il cristianesimo sia la religione ultima e perfetta: Dio ha deciso di ricapitolare tutte le cose in Cristo (Efesini 1, 10) e non si può ottenere salvezza se non mediante il sacrificio di Cristo sulla croce. Chiunque viene salvato è salvato mediante il sangue di Cristo, la cui morte e risurrezione si rinnova in ogni Messa celebrata sulla faccia della terra.

            Nella Messa il sacerdote spezza il pane e versa il vino consacrati mediante la invocazione dello Spirito (epiclesi), che li rende veramente e realmente corpo e sangue di Cristo risorto. L’atto dello spezzare e del versare costituisce il rinnovamento della morte di Cristo. La morte di Cristo costituisce il sacrificio rivolto al Padre per il perdono dei peccati di tutti gli uomini, condizione necessaria per ottenere la salvezza, anche da parte di coloro che non sono cristiani ma svolgono nondimeno una vita santa e esemplare.

          Nella Messa il sacerdote opera nella Persona di Cristo, che è allo stesso tempo il sacrificato e il sacerdote, l’unico vero sacerdote della Nuova Alleanza.

           La Messa è stata istituita nell’Ultima Cena di Cristo. Luca 22, 19-20: “Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo (in greco sōma) che è dato per voi; fate questo in memoria di me’. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (in greco aima), che viene versato per voi’”. Abbiamo riportato la versione di Luca perché ai più sembrerebbe quella più vicina a come realmente si svolsero gli eventi. Era il giorno di Pasqua, festività degli ebrei che commemora la liberazione dagli egiziani (esodo). Gesù identifica il pane e il vino della cena pasquale degli ebrei di allora con il suo corpo e il suo sangue.

             In ebraico corpo e sangue sono detti “basar” e “wadam”, mentre in aramaico (la lingua parlata da Cristo nella quotidianità) “bisra” e “udema”. Si tratta dei due elementi costitutivi della vittima sacrificale nel tempio di Gerusalemme quando essa viene uccisa (Levitico 17, 11.14; Deuteronomio 12, 23). Egli dunque trasferisce a sé i termini tecnici del linguaggio sacrificale. Gesù sta parlando di sé come di una vittima sacrificale. E lo diventa per amore del genere umano!

         Lettera agli Ebrei 10, 19-20: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne”. Quindi l’autore di questo passo biblico pone la salvezza (l’entrata nel santuario) come derivante dal sangue di Cristo. Sappiamo che la crocifissione era un supplizio incruento, con poco spargimento di sangue. Pertanto, gli studiosi ritengono che questa locuzione di Paolo, ma non solo (è comune al Nuovo Testamento), si spiega in riferimento al sangue dell’animale sacrificato.

            Nella Pasqua ebraica si mangia un agnello, che commemora quello immolato durante l’uscita degli ebrei dall’Egitto. Pertanto, Cristo, dicendo di essere la vittima sacrificale, si identifica sia con l’agnello dell’esodo sia con tutti gli agnelli sacrificali della storia di Israele. Gli ebrei sacrificavano nel tempio un agnello per il perdono dei peccati; quindi, Cristo muore per ottenere da Dio Padre il perdono dei peccati commessi dal genere umano.

            Bisogna osservare che il sangue degli agnelli immolati all’uscita dall’Egitto aveva determinato la salvezza degli ebrei, che cosparsero di questo liquido vitale gli stipiti delle case cosicché l’angelo distruttore passasse oltre. Non solo, ma secondo le fonti ebraiche, il sangue dell’agnello pasquale dell’esodo ebbe per effetto l’espiazione dei peccati, per questo Dio liberò Israele dal giogo egiziano. Secondo costumi analoghi del Vicino Oriente, il sangue versato sugli stipiti della porta serviva a placare il demonio, il quale, nutrendosi di sangue, si saziava prima di entrare dentro l’abitazione.

           Secondo una interpretazione, gli agnelli immolati durante l’esodo non avevano una funzione sacrificale come quelli successivi dei riti del Levitico, ma avevano a che fare con il sacrificio di famiglia, con il quale si inaugurava l’anno nuovo. Infatti, era il tempo in cui nascevano gli agnelli. Secondo Wendel e anche Beer la Pasqua era all’origine una festa primaverile dei primogeniti del bestiame. Poi con l’esodo diventò la festa per eccellenza, quella della liberazione dal giogo egiziano. Con Cristo essa divenne la festa del Risorto.

           La prima Alleanza fu siglata da Mosè sul Sinai con il sangue di animali. Esodo 24, 6-8: “Mosè prese metà del sangue e la mise in catini; l’altra metà la sparse sull’altare. Poi prese il libro dell’alleanza e lo lesse in presenza del popolo, il quale disse: ‘Noi faremo tutto quello che il Signore ha detto e ubbidiremo’. Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse: ‘Ecco il sangue dell’alleanza (berit) che il Signore ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole’, hinneh dam habberit asher karat YHWH chimmakem chal kal haddabarim ha’elleh”. Invece la Nuova Alleanza viene siglata da Cristo con il proprio sangue sacrificale: “Questo calice è la nuova alleanza (diathēkē) nel mio sangue, che viene versato per voi, touto to potērion ē kainē diathēkē en tō aimati mou, to uper umōn ekchunnomenon” (Luca). “Versato”, in greco ekchunnomenon, è un termine sacrificale.

          L’Alleanza di Cristo è detta “nuova”, in greco kainē, che nella mentalità semitica vuol dire “ultima”, “definitiva”, “perfetta”. Inoltre, nel greco classico e in quello biblico l’aggettivo greco neos indica la novità quantitativa, cronologica, mentre kainos quella qualitativa, di specie, intrinseca. Il giudaismo si aspettava una nuova alleanza come intervento diretto di Dio che avrebbe circonciso e purificato il cuore (Giubilei 1, 23-25). In Gesù è venuto a farla il Figlio di Dio, quindi Dio stesso (“Mio Signore e mio Dio”, Giovanni 20).

           La magia nel mondo primitivo e antico è stata interpretata da De Martino come un momento del pensiero di allora, molto diverso dal nostro. Il modo attuale di pensare pone una rigida distinzione tra soggetto e oggetto, la cartesiana opposizione tra res cogitans e res extensa. Anticamente non era così: la presenza oggettiva del singolo individuo e del mondo potevano venire meno in ogni istante, la persona poteva cadere nell’oggetto e l’oggetto poteva eclissarsi all’improvviso. Un uomo poteva quindi identificarsi con una cosa o con uno spirito o un’altra persona. In questa maniera si spiegherebbero episodi come spostare gli oggetti (caduta nell’oggetto e credere di muoverlo o di essere colpiti da cose, come nei malefici in cui si trovano oggetti maledetti dentro la vittima), possessioni (identificazione con uno spirito) e telepatia (identificazione con un uomo). Il mago, con le sue doti eccezionali, cioè una mente superiore, poteva volontariamente entrare e uscire dalla identificazione con uno spirito e allora si parlava di trance momentanea, oppure poteva spostare volontariamente oggetti (telecinesi), e così via. Il mago è colui che, grazie alla forza della sua mente, riesce anche a liberare colui che si è identificato con uno spirito (possessione). Grazie alle sue doti aiutava gli altri a liberarsi da questo collasso psichico. Si può spiegare la identificazione che Cristo fa tra la propria persona e il pane e il vino in termini di magia primitiva? Cristo è caduto nell’oggetto?

           Altri interpretano questa “strana” identificazione ricorrendo al pensiero rabbinico, che ama esaltare i contrasti. Tuttavia, Gesù dice chiaramente che il pane è il suo vero corpo (Giovanni 6): “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo …   In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”.

           Nell’Antico Testamento vi sono molte pagine violente, in cui Dio punisce gli ebrei e ordina stragi (herem). Addirittura, secondo Marcione il primo Testamento è frutto di un Dio malvagio, diverso da quello buono del Nuovo Testamento. Ma, per Sant’Agostino, Dio ha scelto di rivelarsi gradualmente al popolo di Israele per adattarsi alla mentalità troglodita di allora fino a giungere alla sua completa rivelazione di essere Dio di Amore attuata nel Nuovo Testamento.

         In Lamentazioni 2, 1 si canta: “Come mai ha oscurato nella sua ira il Signore la figlia Zion …?”. Il verbo di questa proposizione, l’ebraico yachib, è un hapax, ricorre solamente qui. Gli studiosi lo spiegano facendolo derivare dall’ebraico chab, “nube”, intendendolo come “oscurare”, “coprire con una nube”. Altri cambiano la vocalizzazione del verbo in ychyb e propongono l’associazione con tochebah, “abominio”, e il corrispondente verbo denominativo tchb. Quindi significherebbe non “oscurare” ma “avere in abominio, in orrore”. Però, stando al primo significato (“coprire con una nube”), l’ira di Dio viene paragonata a una nube. Perché? Questo può indicare che l’ira di Dio è sempre la manifestazione della sua volontà perfetta, in quanto la nube è simbolo biblico di Dio, che accompagna e protegge Israele. Come a dire che bisogna accettare la volontà di Dio anche se fa male. Non per nulla nell’importante testo cabalistico Sefer Yetzirah il male è semplicemente una manifestazione di Dio, la Via di Mem.

           Dio nella storia si è rivelato in molti modi (Ebrei 1,1) ma ha deciso di manifestarsi totalmente in Cristo, suo unico Figlio e Dio al tempo stesso. Per questo in ogni religione c’è del buono, sebbene sia solo Cristo il Salvatore del mondo.

            Di più, ogni uomo ha in sé un germe divino, che è l’anima immortale. Ogni uomo, anche di religione diversa, è una particella di Dio, ma allo stato dormiente, grezzo, che deve essere lavorata affinché si risvegli. I maestri spirituali che cooperano al risveglio seguono dettami divini. È questa la Grande Opera degli alchimisti, che sotto il velo di operazioni con gli elementi volevano intendere in realtà il risveglio dell’uomo, cioè la presa di coscienza della sua originaria natura divina.

           Il Caduceo ermetico è una croce di legno con attorno due serpenti: la croce indica l’uomo, invece i due serpenti la sua doppia natura, quella materiale e quella divina. L’uomo ha un ego materiale, grezzo, non formato, che coincide con i pensieri limitati di ogni giorno. Ma ha anche una natura divina, un Ego superiore. Affinché i due serpenti si uniscano, le due nature si uniscano, occorre fare un lavoro di costruzione.

           Con la espressione Rosa del cuore si fa riferimento all’atomo-scintilla di Spirito, chiamato anche atomo originale o atomo cristico. Si trova in corrispondenza della sommità del ventricolo destro del cuore ed è il centro matematico del microcosmo. È un rudimentale vestigio della Vita originale divina. La Rosa del cuore è il germe di un microcosmo del tutto nuovo, il seme divino conservato nell’uomo caduto come promessa di grazia, affinché un giorno si ricordi della sua origine e sia ricolmo del desiderio di ritornare alla Casa del Padre. Solo allora può accendersi la luce del Sole spirituale, la luce della Gnosi, la quale desta il bocciolo di rosa addormentato e, grazie a una reazione positiva e a un orientamento perseverante e consapevole, dà inizio al processo che porta alla rigenerazione totale dell’uomo secondo il Piano di salvezza divino.

             Secondo una certa visione, ogni religione sarebbe un piano dei Maestri Invisibili per la rigenerazione dell’uomo, cioè la sua integrazione nella natura divina originaria.

           A parte questa visione esoterica, non da tutti accettata, è verità cristiana che è Cristo che opera la salvezza di ogni uomo mediante il suo sacrificio cruento sulla croce, che si rinnova in maniera non cruenta nella Messa.

         Egli è allo stesso il Maestro e il Dio che costruisce l’uomo nuovo. Si serve però dell’opera degli uomini per realizzare il piano di salvezza originario. L’uomo, infatti, da principio fu creato con tutti i doni di grazia, tra cui l’immortalità e la onniscienza, l’assenza di malattie e di dolore. Poi l’uomo peccò e decadde dalla condizione salvifica di partenza e si ritrova in questa valle di lacrime, per volontà del demonio, che è il continuo nemico dell’intero genere umano sprofondato nel peccato, la grande opera del diavolo, foriera di tutti i mali che affliggono l’umanità.

          Dio “ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Giovanni 4,10). “Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo” (1 Giovanni 4,14). “Egli è apparso per togliere i peccati” (1 Giovanni 3,5). Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo “partecipi della natura divina, theias koinōnoi fuseōs” (2 Pietro 1,4). Per sant’Atanasio Dio si è fatto uomo affinché noi diventassimo Dio.

          Per la Prima Lettera di Giovanni “Dio è amore, theos agapē estin” (capitolo 4). Questo amore si vede nella incarnazione e nella redenzione del Figlio, Cristo, come abbiamo già citato. Gesù è stato mandato dal Padre e qui, una volta fattosi uomo, è divenuto vittima di espiazione verso il Padre a nostro beneficio.

         Nel capitolo 5 della Prima Lettera di Giovanni la croce di Cristo è striata di acqua e sangue e su di essa si posa lo Spirito. “Questi è colui che è venuto con acqua e sangue: Gesù Cristo; non soltanto con l’acqua ma con l’acqua e il sangue, all’en tōi udati kai en tōi aimati. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, poiché lo Spirito è verità. Poiché sono tre quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi”. Il sangue e l’acqua sono elementi fisici che scaturiscono dal costato di Cristo quando viene colpito dalla lancia del soldato romano (Giovanni 19), ma sono interpretati già nel Vangelo di Giovanni come segni sacramentali: Giovanni 7 parla della sorgente di acqua, acqua della salvezza, cioè battesimale e il sangue è un antichissimo simbolo cristiano della Eucaristia. Allora l’autore della Prima Lettera di Giovanni, riprendendo questi antichi segni, unisce nella croce di Cristo l’incarnazione, la redenzione e la chiesa con i suoi sacramenti: tutto questo è un atto di amore!

          Solo in Dio abbiamo, per amore, la salvezza. Cristo apparve a una suora polacca, Faustina Kowalska (1905-1938) e le rivelò che l’umanità non troverà la pace fino a quando non ritornerà al suo Cuore misericordiosissimo. La radice semitica della “salvezza”, presente anche nel nome Gesù, significa “allargare”, “espandersi”, come un cuore che si dilata per amore.

            Il profeta biblico Osea esaltava l’unione tra Dio e Israele come un rapporto sponsale. Non solo, ma il Cantico dei cantici, delizioso poemetto biblico in cui apparentemente si canta l’amore tra un uomo e una fanciulla, in realtà è una continua allusione al rapporto tra Dio e il suo popolo, anche il singolo fedele, all’insegna dell’amore più travolgente. I santi dicono di aver sperimentato un Dio “pazzo di amore” per ogni singolo uomo.

           Facciamo un esempio dal Cantico dei cantici, capitolo 8, versetti 8-10: “Una sorella piccola abbiamo e ancora non ha seni. Che faremo della nostra sorella nel giorno in cui se ne parlerà? Se fosse un muro, le costruiremmo sopra un recinto di argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di cedro. Io sono un muro e i miei seni come torri! Così sono ai suoi occhi, come colei che ha trovato pace!”. Il primo registro, quello dell’amore sensuale, è evidente: i fratelli anticamente sorvegliavano la sorella, quindi dicono che, qualora si innamorasse, essi la proteggerebbero, rafforzando le barriere, cioè frapponendosi tra lei e un eventuale amante indesiderato: è indesiderato perché la ragazza ha i seni ancora piccoli, non è matura per il matrimonio. Il riferimento al parlare (“parlare su, riguardo a qualcuno”, in ebraico dbr be) indica la comunicazione in vista di un matrimonio, ma è troppo presto (1Samuele 25, 39: “Davide mandò messaggeri per dire ad Abigal, dbr be, che voleva prenderla in moglie”); poi la fanciulla parla in prima persona e dice di essere matura (ha seni rigogliosi) e vuole avere pace/pienezza (shalom), cioè una vita felice, piena di amore con il suo uomo. Il secondo registro, quello dell’amore spirituale, si può capire da questo: la “tavola” (luach) allude alla tavola della Legge (Esodo 24, 12); il “cedro” è un noto materiale purificatore (Levitico 14, 4ss: nella purificazione del lebbroso; Numeri 19, 6: nel rito della vacca rossa; e così via); kemosh’et shalom, “colei che ha trovato pace”, è un chiarissimo riferimento messianico e divino, in quanto shalom, “pace” indica nella Bibbia la salvezza portata dal Messia quale inviato di Dio. L’espressione kemosh’et shalom si può tradurre: “colei che ha trovato pace” (intendendo mosh’et come participio dal verbo msh’, “trovare”) oppure “colei che produce pace” (participio causativo di jsh, “uscire”, quindi “fare uscire”, “procurare”, “produrre”). In questa seconda accezione, la fanciulla non è solamente colei che è salvata da Dio ma che va in missione, dando al mondo intero la salvezza che ha ricevuto.

            Ma anche i ghazal di Hafez, poeta persiano morto nel 1390, sono grossomodo come le strofe del Cantico dei cantici. Il ghazal è un genere della poesia persiana paragonabile al nostro sonetto. Quelli di Hafez apparentemente cantano un amore umano, un misterioso amico, ma si aprono in filigrana all’esaltazione dell’amore tra Hafez e il Dio islamico.

           In un ghazal Hafez canta: “… il lamento della sera del Distacco è meglio abbandonarlo: grazie a Dio, finalmente, il giorno dell’Unione si è rivelato. Su vieni, poiché noi la settuplice rossa tendina dell’occhio già abbiamo calato, per rendere bella l’officina dell’immaginazione …”. Il primo registro, quello dell’amore sensuale, è chiaro: Hafez odia il distacco dall’amato e esalta il giorno dell’unione, quando i due si incontreranno sessualmente, quindi cade la palpebra (tendina dell’occhio) perché i due giaceranno insieme, ove la palpebra è rossa per indicare le gocce della passione sessuale, momento prefigurato nella immaginazione prima dell’incontro (dove “immaginazione” è khiyal, termine ricorrente in Hafez che indica anche il fantasma o una parte del corpo dell’amico, che ossessiona le notti e le fantasie del poeta). Ma tra le parole si intravede un altro registro, quello dell’amore spirituale di Dio: in Hafez la solita antitesi “unione” (vesal)/”distacco” (hejran) può essere interpretata anche qui come sofferenza del distacco da Dio e gioia spirituale per la unione mistica; notevole l’ammiccamento mediante la “settuplice” palpebra, che indica un riferimento alla oftalmologia antica (che vedeva l’occhio formato da sette parti), ma che si apre alla lettura teologica (che fa corrispondere i sette strati dell’occhio con il cosmo tolemaico delle sfere celesti concentriche).

            Il filosofo danese Soeren Kierkegaard (1813-1855), cresciuto come protestante luterano, diceva che il rapporto tra uomo e mondo è all’insegna dell’angoscia. In ogni cosa che si appresta a fare, l’uomo ha di fronte a sé una gamma infinita di possibilità, situazione che coincide con il nulla, ha cioè di fronte una miriade di possibili opzioni, vale a dire, nessuna autentica; dall’altra parte per agire l’uomo ne deve sceglierne soltanto una. La frizione tra un infinito di possibilità e la scelta unica in cui si radica l’azione, espone l’uomo alla libertà, e ciò genera angoscia.

           Invece il rapporto tra l’uomo e sé stesso si estrinseca come disperazione. Infatti, l’uomo sente la necessità di essere sé stesso, è questa la chiave ultima del suo agire sulla terra. Ma, se l’uomo vuole essere conforme a sé, agisce e nella azione non potrà mai riuscire a essere tale, in quanto l’opera dell’uomo è sempre imperfetta, manchevole. Invece se l’uomo rinuncia a essere sé stesso, si trova alienato. In entrambe le opzioni (essere sé stesso, non essere sé stesso) l’uomo non si realizza con le proprie forze, quindi è disperato.

          Per Kierkegaard la soluzione alla impossibilità dell’io (che genera disperazione) e alla possibilità del nulla (che genera angoscia) è solamente Dio. Infatti, solo Dio è la possibilità infinitamente positiva che pone fine a una raggiera di possibilità infinite che equivale al nulla, la quale destabilizza l’uomo con una angoscia esistenziale insopportabile. Ed è solo Dio che può far realizzare l’uomo: solo affidando il proprio io nelle mani di Dio l’uomo può sperimentare il pieno appagamento, che quindi coincide con il fare la volontà di Dio.

          Santa Caterina da Siena osservava che i peccatori sono “i martiri di satana”, in quanto il demonio li tortura offrendo loro cose che li distruggono sotto apparenza di bene, con lo scopo ultimo di allontanarli da Dio, che è l’unica cosa necessaria.

           Kierkegaard aveva modo di riflettere che “la storia è una unità di metafisica e di casualità. È realtà metafisica, in quanto questa è il nastro eterno dell’esistenza senza il quale il mondo dei fenomeni andrebbe in frantumi; è casualità, in quanto in ogni avvenimento c’è sempre la possibilità della produzione di una infinità di altri modi: questa unità dal punto di vista di Dio è la Provvidenza, dal punto di vista degli uomini è la storia” (Diario, 508).

           Kierkegaard: “La disgrazia dell’umanità … è che essa ha abolito il rapporto con Dio, che si è ribellata a Dio: ci si immagina che la più alta serietà della vita consista nel rapporto fra uomo e uomo” (Diario, 1517). La perdita del rapporto con Dio è una disgrazia perché, senza Dio che regge i fili del destino di ogni uomo, si genera il caso cieco, vale a dire, una infinità di possibili azioni, che destabilizza ogni persona. Solo facendo la volontà di Dio si trova pace e soluzione ai problemi. Sant’Agostino diceva che il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in Dio. Anche il Corano, che riconosce come la mancanza di fiducia nella misericordia di Dio è un peccato (12, 87: “… non disperate della misericordia di Dio, perché della misericordia di Dio non disperano che i miscredenti”, walā tāy’asū min rawḥi l-lahi, innau lā yāy’asu min rawḥi l-lahi illā l-qawmu l-kāfirūna).

           Per Kierkegaard, se la libertà sceglie il finito, l’uomo perde sé stesso, ma se la libertà sceglie Dio infinito, l’uomo ottiene quel punto di Archimede che permette di sollevare e trascendere il mondo per fondarsi nell’Assoluto.

           Fare la volontà di Dio, come rivelò Cristo a Madre Speranza, una mistica cattolica morta in Umbria nel 1983, è soffrire. Perché? Perché soffrire equivale ad abbandonare il proprio egoismo. Se vogliamo ritornare tra le braccia di Dio, bisogna annullare l’ego inferiore, cioè l’egoismo, che ci trattiene saldamente nel mondo materiale, per approdare per amore a Dio. Lo stacco dall’io fa soffrire. Anche Kierkegaard riconosceva che “la dottrina del Cristianesimo è che l’essere amati da Dio e amare Dio è soffrire” (Diario, 2766).  San Luigi Maria esclamava: “Mai Gesù senza la Croce, né la Croce senza Gesù”. In un suo noto scritto questo santo ebbe a dire: “Amico della Croce è un re onnipotente e un forte eroe che vince il demonio, il mondo e la carne nelle loro tre concupiscenze. Con l’amore alla umiliazione egli abbatte l’orgoglio di satana; con l’amore alla povertà debella l’avarizia del mondo; con l’amore alla sofferenza smorza la sensualità del corpo. Amico della Croce è l’uomo santo e distaccato da ogni cosa terrena. Il suo cuore s’innalza al di sopra di quanto è caduco e destinato a perire. La sua patria è nei cieli. Vive quaggiù come straniero e pellegrino, senza lasciarsi affascinare dalle cose del mondo, che osserva dall’alto con sguardo di indifferenza e calpesta con disdegno”.

            San Francesco d’Assisi: “E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia. E però odi la conclusione, frate Lione. Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere sé medesimi e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo: Che hai che tu, che tu non abbi da Dio? e se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l’avessi da te? (1 Cor 4,7) Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo: lo non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo (Gal 6,14)” (Fonti francescane, 1836).

            Il teologo cattolico von Balthasar diceva che la sofferenza è la condizione di questo universo. Prima o poi tutti ci ammaleremo grevemente e periremo nel corpo denso, il corpo fisico, quello materiale: è solo questione di tempo. Alcuni soffrono prima e di più, nel corpo o nello spirito. I santi dicono che la sofferenza è una vocazione ad amare di più. Senza quel pungolo nella carne o nello spirito penseremmo a cose mondane e frivole senza rivolgersi a Cristo, che è l’unica cosa veramente necessaria.

            Secondo la dottrina rosacrociana, il mondo del finito non va abbandonato bensì va trasfigurato in Cristo, l’Uomo Dio sceso sulla terra per salvarci. È questo il senso esoterico della Stella di Davide, formata dall’unione di due triangoli equilateri, uno con la punta verso il basso e l’altro con la punta verso l’alto. Il primo indica il finito, il secondo indica l’infinito. Solo la perfetta unione di finito e infinito, che si realizza nella Stella di Davide, permette la salvezza dell’uomo. Paolo non parla della distruzione del mondo alla fine dei tempi ma di “cieli nuovi e terra nuova”. Romani 8, 18-22: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto”.

            Con la morte non finisce tutto. È verità cristiana che i giusti vanno in Paradiso per godere con l’anima e alla fine dei tempi anche con il corpo risorto, cioè trasfigurato a immagine di Cristo. Attualmente è risorto solo Cristo e sua Madre verginale, Maria. Invece i dannati vanno all’Inferno con l’anima e alla fine dei tempi anche con il corpo in una risurrezione di condanna.

             Alla fine dei tempi tutti i giusti ritroveranno ogni cosa di questa terra che credevano persa ma in una maniera più alta e sublime. Cristo ci dà già su questa terra il centuplo di quello che lasciamo per lui e, alla fine dei tempi, ci darà cieli nuovi e terra nuova. Ecco, quindi, le parole suggestive di Novalis (1772-1801), protestante pietista, forse la incarnazione più pura del Romanticismo tedesco e europeo:

 

“Prendimi con te, eroe dell’amore!

Sei la mia vita, il mio mondo,

se niente di terreno mi rimane,

so dove mi posso rivalere”

Nimm du mich hin, du Held der Liebe!

Du bist mein Leben, meine Welt,

Wenn nichts vom Irdischen mir bliebe,

so weiss ich, wer mich schadlos hält.

(Canti spirituali, XI).

 

          Secondo la dottrina di Max Heindel (1865-1919), il maggiore sensitivo statunitense del Novecento, estensore degli insegnamenti rosacrociani, la nostra terra conosce delle ere tra di loro differenti. Prima dell’avvento del Cristo, ogni religione era dominata da uno Spirito di Razza, che la custodiva in modo molto settoriale. Ogni Spirito di Razza faceva in modo che la singola religione fosse l’unica e la più importante. Questo atteggiamento, se spinto all’estremo, avrebbe condotto a una progressiva spinta disgregatrice che avrebbe interrotto il progresso evolutivo dell’essere umano e degli altri abitanti del pianeta. Lo scopo di questo pianeta, per Heindel, è quello di far progredire evolutivamente tutti coloro che vi abitano. Tutti gli esseri, infatti, sono parte di Dio, considerato una Grande Entità che si deve evolvere verso il proprio perfezionamento.

       Ora, la presenza per molto tempo, nel passato più remoto della terra, degli Spiriti di Razza ha provocato un rallentamento nella evoluzione per via dell’esclusivismo che queste entità inculcavano a tutti i loro seguaci. Quindi venne la necessità di una nuova religione con l’obiettivo di unificare ogni religione e ogni popolo. L’unificazione va al di là del principio della legge esclusiva di ogni singola religione e si basa su quello dell’amore, possibilmente verso tutti i popoli e gli individui. Questa nuova religione è quella del Cristo.

         Esotericamente è successo che Gesù accolse nel proprio corpo denso il Cristo, che sarebbe un Grande Spirito Solare. Nella effusione del sangue di Gesù sul Calvario, si è riversato sulla terra questo Grande Spirito Solare che divenne il Grande Spirito Planetario. In poche parole, con l’effusione del sangue, Cristo venne sulla terra e ne assunse il controllo con lo scopo di unificare religioni e razze nel nuovo patto dell’amore, a discapito delle varie leggi dei popoli che vigevano fino ad allora.

            Sempre secondo la dottrina rosacrociana di Heindel, sotto gli Spiriti di Razza le persone non agivano abbastanza sufficientemente per amore, quindi peccavano in continuazione. Con la morte di Gesù sul Calvario, questo Spirito Solare detto Cristo riversò sul mondo, mediante l’effusione del sangue, il proprio corpo del desiderio (uno dei vari involucri dell’essere umano, quello deputato alle emozioni) con lo scopo di purificare con l’amore tutte le bassezze originatesi durante il dominio degli Spiriti di Razza.

            Prima dell’avvento di Cristo gli uomini erano molto in ritardo nel cammino evolutivo. L’intervento di Cristo ha fatto in modo di aiutare i peccatori a riconnettersi al sentiero dell’evoluzione. Cristo, in quanto Spirito Planetario, emana i raggi eterici benevoli dal centro della terra all’esterno e tutti gli uomini possono trarne vantaggio per imparare l’amore e, dato che l’amore è una energia spirituale, anche per imparare i valori spirituali, che prima erano ottenebrati da logiche gregarie, settoriali, meramente tribali e individualistiche.

            Certamente la dottrina rosacrociana non viene accettata dalla religione cristiana ortodossa, ma è semplicemente una diversa interpretazione delle Sacre Scritture. Heindel veniva ispirato dai Rosacroce, persone normali ma grandi iniziati dai poteri terribili, che gli apparivano all’improvviso e lo istruivano sulla dottrina segreta per la evoluzione dell’umanità. Il cristianesimo ortodosso non accetta le comunicazioni dei Fratelli Maggiori.

            Il cattolicesimo considera la Santa Eucaristia la fonte e il culmine della vita cristiana. Tutte le grazie che provengono al mondo intero derivano dalla Messa perché in essa si rinnova la passione, la morte e la risurrezione del Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.

           Alcuni carismatici cristiani riescono a vedere che, durante la consacrazione, quando nella Messa il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo risorto, da essi promana una luce sfolgorante che va a sanare tutti i partecipanti alla Messa. È la Luce del Risorto, che si rinnova durante ogni celebrazione eucaristica!

          La seconda preghiera più importante del cristiano è il Rosario alla Beata Vergine, la bella preghiera che, secondo il Magistero dei Papi, serba queste benedizioni:

 

  • I peccatori ottengono il perdono.
  • Le anime assetate sono saziate.
  • Coloro che sono legati vedono infrante le loro catene.
  • Coloro che piangono trovano gioia.
  • Coloro che sono tentati trovano pace.
  • I bisognosi ricevono aiuto.
  • I religiosi sono riformati.
  • Gli ignoranti sono istruiti.
  • I vivi vincono il declino spirituale.
  • I morti hanno le loro pene alleviate per via dei suffragi.

 

           San Bernardo definiva Maria “negotium omnium saeculorum”, “affare di tutti i secoli”. Di Maria si sono occupati necessariamente tutti i cristiani, in quanto è la Madre di Dio, e se ne dovranno occupare tutti in avvenire in quanto egli è la Mediatrice di tutte le grazie che promanano alla chiesa e al mondo intero. Juan Ruiz (1283 – 1350) è stato un poeta spagnolo che pregava la Madonna in questa maniera:

 

“Stella del mare, porto di gioia,

da ogni dolore e tristezza

vienimi a liberare e a confortare,

Signora grandiosa.

Mai fallisce la tua grazia,

sempre risani dagli affanni e dài vita;

mai perisce né intristisce

chi non ti dimentica.

Soffro gran male senza meritarlo,

a torto e penso di morirne;

ma tu proteggimi,

ché non vedo altro

che mi conduca in porto”.

 

          Lo stesso Gesù consigliava di pregare incessantemente per vincere lo spirito del male. Ogni cristiano deve fare vita di preghiera, su stessa indicazione evangelica.

          La preghiera deve essere l’occupazione più importante della giornata perché gli uomini, dotati di anima immortale, sono esseri spirituali e trovano la maggiore realizzazione svolgendo attività spirituali. Gregorio di Nissa (Sull’anima e la risurrezione, 97) scriveva: “Poiché dunque ogni natura è tale da attirare a sé ciò che è ad essa affine, e l’umano è in qualche modo affine a Dio, in quanto reca in sé stesso l’imitazione dell’archetipo, l’anima necessariamente è attratta verso il divino, che le è congenere, elketai kata pasan anankēn pros to theion te kai sunghenes ē psuchē. Bisogna, infatti, che sotto tutti gli aspetti e in tutte le maniere sia riservato a Dio ciò che è suo proprio”.

          È importante sia la preghiera di lode sia la preghiera di intercessione. Oggi molte anime vanno all’Inferno perché non c’è nessuno che prega per loro. La preghiera può anche alleviare le pene del purgatorio, oltre che ottenere benefici già su questa terra, perché ha il potere di interrompere le leggi della natura per volontà di Dio.

          Una madre si recò da Sant’Alfonso Maria de Liguori perché aveva un figlio dissoluto, ladro e violento: la madre non sapeva come convincerlo per riportarlo sulla retta via. Al che il santo le disse di pregare per lui e, per via della intercessione della madre, questi sarebbe stato salvato. Dopo del tempo il giovane venne ucciso durante una rapina. Allora la madre sognò la notte stessa il figlio che stava in Paradiso e le disse che venne salvato per via della preghiera insistente della madre. Allora questa donna si recò di nuovo da Sant’Alfonso disperata: Come mai mio figlio è morto? Il santo quindi le disse che gli preannunciò non la vita ma la salvezza.

           Molti santi dicono che Dio non esaudisce sempre le nostre richieste materiali in vista di un profitto spirituale maggiore. Evidentemente Dio aveva deciso di ascoltare la preghiera di quella madre e di salvare il ragazzo strappandolo immediatamente da una vita di peccato, che avrebbe continuamente pregiudicato il bene spirituale.

            Nelle cose spirituali ci comportiamo spesso come i pagani: preghiamo per ottenere una grazia! In realtà si prega per fare la volontà di Dio: la richiesta deve essere non anteposta ma posposta alla volontà di Dio, che conosce il nostro vero bene.

             Noi siamo il vero tempio di Dio, che egli costruisce in vista della salvezza eterna mediante gli aiuti che ci giungono dalle persone ispirate, dai maestri che circondano la nostra vita, dalle guide sagge che Egli ci fa trovare lungo il cammino.

            Siamo come argilla nelle sue mani. Lo scopo della creazione è diventare come Dio. come si fa? Si fa seguendo la sua volontà mediante i segnali che ci offre quotidianamente e le guide che ci fa incontrare.

          Bisogna essere come Gesù, detto giusto. “Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Giovanni 2,1-2). Nella Bibbia la giustizia è una parola molto più ampia della accezione comune, indica il progetto di Dio sulla creazione e sull’uomo. Quindi quando qualcuno viene definito “giusto”, come anche Giuseppe, significa che il personaggio in questione fa la volontà di Dio. Gesù ha accettato il disegno del Padre di morire per i peccati degli uomini, Giuseppe ha accettato di fare il padre putativo di Gesù, anche se sapeva che il pargolo era figlio dello Spirito Santo, che lo concepì nel seno della Vergine Maria.

          La vera giustizia non sta tanto nel fare grandi cose agli occhi della gente, che pure sono necessarie nel mondo. Ma ognuno può essere giusto se si adegua alla vocazione che tutti riceviamo da Dio alla nascita e per la quale bisogna lavorare fino alla fine della vita terrena. Kierkegaard, che era molto ispirato, scriveva: “… la minima abnegazione vera, anche se si tratti del più piccolo nonnulla della vita quotidiana, vale più di un gesto storico mondiale, anche se, visto dall’esterno, esso trasforma religiosamente tutto un paese o un mondo intero” (Diario, 2107).

          Lo stile di Dio è la piccolezza. 1Corinzi 1, 27-29: “Ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, ta mē onta, per distruggere le cose che sono, ina ta onta katarghēsēi, perché nessuno si vanti di fronte a Dio”.

          Gli apostoli non fanno una bella figura nei vangeli: chi si impacca, chi lo tradisce tre volte, chi scappa via, dopo la risurrezione stanno rinchiusi nel Cenacolo per paura dei giudei, Tommaso non crede nemmeno alle apparizioni del Risorto. Ma curiosamente il vangelo si diffonde in tutto il mondo anziché eclissarsi. Così 2Timoteo 4,17 poteva affermare che “il Signore mi stette vicino e mi diede forza, affinché per mio mezzo la predicazione fosse portata a termine e tutte le nazioni l’ascoltassero”. È il Signore che opera negli uomini, Egli vuole la nostra disponibilità, i pochi pani e pesci che possiamo offrirgli, il miracolo è Lui che lo compie. Il Regno di Dio per affermarsi necessita della spesso piccola partecipazione di tutti i battezzati, come umili gocce nel mare, ma Sant’Agostino diceva che un mare grande è formato da tante gocce. Bonum diffusivum sui, il Bene diffonde sé stesso, scriveva San Tommaso d’Aquino.

          Gesù dice che “senza di me non potete far nulla” (Giovanni 15, 5). Salmo 121, 1-4: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra. Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele”. Il Dio di Israele accompagna sempre il fedele, dando efficacia a ciò che questi fa. Salmo 23, 24: “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male perché tu sei con me”. Le sue palpebre sono sempre spalancate sul fedele per proteggerlo e assisterlo. Dio è l’antitesi di Baal, il dio cananeo, il quale, come dice Elia, spesso si addormenta e deve essere svegliato (1Re 18, 27). È contro Baal che canta il fedele biblico: l’aiuto non potrà venire dai monti, ove vi erano culti idolatrici alle divinità cananee (come Hermon, Tabor, Safon, quest’ultimo in Siria settentrionale, monte sacro di Ugarit), bensì da Dio, l’unico protettore di Israele.

          Notiamo l’originale ebraico: ‘essa ‘enay ‘el heharim me’ayin yabo ‘ezri. Può essere tradotto sia “alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?” sia “ho alzato i miei occhi ai monti dai quali verrà il mio aiuto”. La seconda traduzione è della Septuaginta, della Vulgata e di Lutero, anche se l’ebraico me’ayin, “donde”, è sempre interrogativo nella Bibbia (tranne in Giosuè 2, 4). Ma, dando per buona la seconda resa, ci si rivolge ai monti come dimora di Dio e luogo delle teofanie: infatti Isaia 2, 2-3 afferma che “alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: ‘Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri’. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore”. Il Midrash Tehillim dice che, quando Dio verrà per giudicare, i figli di Israele guarderanno verso i monti, cioè i padri e i maestri perché prendano le loro difese. Ma Origene aggiunge che nessun padre potrà salvare, solo il Padre che è nei cieli.

          Kierkegaard riconosceva nell’uomo tre stadi, non necessariamente compresenti, anche se una persona può avanzare o regredire. La vita estetica è quella della persona dedita ai piaceri terreni, come Don Giovanni, il celebre seduttore.

           Invece la vita etica è quella della persona attenta ai doveri morali e dello stato.  È un buon cittadino, un buon padre di famiglia. L’ideale dell’uomo etico è il matrimonio. Se notiamo bene la Bibbia esalta questa vita di coppia. In Genesi 2, 18 Dio dice: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto degno di lui, chezed kenegdo”. L’originale ebraico è molto più pregnante della traduzione riportata. Il sostantivo ebraico tradotto con “aiuto” ha in realtà una vasta gamma di significati, che includono anche “sostegno” fino a “salvezza”. Abbiamo poi un’altra espressione, un avverbio sostanzialmente, che rende l’idea dell’essere di fronte nel senso contrappositivo, dialettico e, contemporaneamente, nel senso dell’essere accanto. Pertanto, abbiamo una classica espressione ebraica polisemica, che non si può tradurre adeguatamente in una lingua indoeuropea. Quindi dire che la donna è per l’uomo “un aiuto che gli corrisponda” è una traduzione inesistente. Ma cercando di sviscerare l’originale ebraico emerge l’idea che la donna è un vero sostegno per l’uomo, come quelle raffigurazioni provenienti dall’antico Egitto nelle quali la donna sta accanto al maschio reggendolo per il fianco. La costola era nel mondo antico la sede della vita. Quindi dire che la donna viene estratta dalla costola dell’uomo significa dire che essa è elemento indispensabile per la vita, una creatura che gli sta accanto per essere un vero sostegno, indispensabile per il progetto di Dio.

          Kierkegaard proponeva poi la vita religiosa, ancora più importante agli occhi di Dio. La vita religiosa è quella di colui che accetta di fare in pieno la volontà di Dio. Fare la volontà di Dio fino alle estreme conseguenze non è un progetto razionale come può essere il matrimonio ma è spesso qualche cosa che cozza contro il comune sentire della gente. Dio può chiedere come ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco. Per Kierkegaard la fede non è qualcosa di oggettivo e di razionale in quanto si basa squisitamente sul rapporto unico che il credente ha con il Signore.

         I santi affermano che Dio chiede tutto. Ci sono stati santi ai quali Dio ha chiesto di lasciare ogni bene terreno e di vestire con un sacco chiedendo l’elemosina per vivere, come San Francesco di Assisi. I santi cristiani dicono che l’amore per il mondo è l’amore per il peccato. I sufi islamici si chiamano così dal povero vestito di lana (in arabo ṣūf) che indossano. Il mondo va lasciato, quindi non amato, da chi è chiamato alla santità. Un detto di Maometto non raccolto nel Corano, quindi facente parte degli Ḥadīth, così recita: “Il mondo è una prigione per un credente e il paradiso per un miscredente” (Sahih Muslim, numero 2956).

         Come Dio costruisce il suo tempio è allo stesso tempo un mistero e un dono.

          Nella mentalità biblica non vi è una chiara differenza tra spazio e tempo. Il termine ebraico ‘olam significa sia “mondo” sia “secolo”. Questo spiega perché la espressione ebraica melek ha-‘olam viene tradotta a volte come “re del mondo” e a volte “re dei secoli”, cioè re eterno.

          Nella letteratura rabbinica uno dei nomi più comuni di Dio è Ha-Makom, in ebraico Il Luogo. Filone di Alessandria, filosofo ebreo, contemporaneo di Gesù, dice che Dio stesso è chiamato Luogo in quanto Egli contiene le cose anche se da esse non è contenuto. Dio, quindi, è il luogo santo per eccellenza, anche se trascende la realtà materiale; quindi, non è localizzabile nelle coordinate comuni dello spazio e del tempo. Un altro testo, il Midrash Bereshit Rabba (68, 9 ricorda che Dio è il Luogo di tutto. Dio non è contenuto da nessun luogo ma contiene tutto quanto esiste. Dio è la dimora a cui tendiamo.

           Anche il tempio degli ebrei viene definito in ebraico ha-makom, per riferirsi alla presenza di Dio in quel luogo. Il tempio viene visto dagli ebrei come la “casa” di Dio: in ebraico bet significa sia “casa” sia “tempio”. Nel Nuovo Testamento Cristo, che è il compimento dell’Antico, è lo stesso tempio. Cristo stesso, infatti, si paragona al tempio (che ricostruirà in tre giorni, Giovanni 2) e soprattutto nel Vangelo di Giovanni molte volte Egli parla del “rimanere”, in greco menein, in Lui da parte dei discepoli.

          Nell’ebraismo è molto importante la pratica e il concetto di “consacrazione”, che equivale a una “separazione”. Qadosh, Santo, è prima di tutto Dio: è una espressione ebraica che etimologicamente vuol dire “separato” dal mondo terrestre, indicando allora l’idea del trascendente. Anche le prostitute erano dette “sante” perché vivevano separate dal resto della comunità. C’è quindi una separazione netta tra luoghi sacri e luoghi profani, tra la Terra Santa (Eretz Israel, la Terra di Israele) e il resto del mondo. C’è una separazione anche tra il popolo eletto di Israele, “consacrato”, e tutti gli altri.

          Per la Bibbia la “separazione” / ”consacrazione” è sempre finalizzata a una missione per gli altri. Quando Dio sceglie Abramo rispetto a chiunque altro, gli dice che sarà una benedizione per tutte le genti. In questo senso la separazione di Israele non è una esclusività ma una preparazione del popolo eletto a annunciare il messaggio a tutti gli altri popoli.

        L’opera stessa della creazione viene vista come un atto liturgico, un rito di consacrazione. Infatti, in Genesi 1 leggiamo che Dio “separa” la luce dalla tenebre, “separa” il giorno di Sabato eleggendolo su tutti gli altri giorni.

         La Genesi presenta due racconti della creazione: il primo (1-2,4 a) è il più recente (durante l’esilio, VI secolo a.C.), il secondo (il resto del capitolo 2) è anteriore (X a.C.). Il primo è contrassegnato dall’acqua (è stato redatto a Babilonia, terra ricca di fiumi e canali), il secondo è contrassegnato da terra e polvere (dalla quale viene tratto l’uomo), si tratta della geografia della Terra Santa, assai brulla, dominata da un deserto prevalentemente stepposo.

          “Facciamo l’essere umano a nostra immagine, na’aseh ‘adam betzalmenu” (1, 26). Il verbo è al plurale, cioè Dio parla plurale. Residuo di plurale mesopotamico? Coinvolgimento della corte celeste? Forma espressiva intensiva? Allusione alla Trinità?

          Il termine tzelem, “immagine”, deriva da una radice semitica non ebraica, presente in aramaico giudaico, palmireno e siriaco nel senso di “scolpire”, così come in arabo. In accadico tzalmum significa “statua, immagine”. La parola ebraica indica allora la statua del regnante: la traduzione greca della Septuaginta rende di norma tzelem con eikōn, da cui “icona”. Nell’antichità ai crocicchi delle strade vi era la statua del regnante del momento e la parola tzelem, “immagine”, vuol dire una somiglianza molto netta ma non la sovrapposizione (simile, ma non uguale). La rassomiglianza (non identità) vuole indicare la relazione tra due entità, il regnante e il suddito, e nella Genesi tra Dio e l’uomo creato, ma anche tra l’uomo e la donna (“a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”, 1, 27). Per questo la creazione dell’essere umano, capace di relazionarsi, è detta “molto buona/bella” (tob me’od), e non soltanto “buona/bella” (tob) come gli altri elementi. Possiamo dire, interpretando in chiave cristiana, che l’uomo nasce creatura (non identica a Dio) ma deve diventare identico a Dio per redenzione, cioè Dio.

        Anche nel secondo racconto della Genesi l’essere umano ha una dignità altissima: egli dà il nome alle cose create, e nella Bibbia “dare il nome” significa partecipare all’opera della creazione, perché il “nome” (shem) è la cosa stessa. Ma questa creazione è incompleta e allora Dio sente la necessità di creare la donna, fa scendere l’uomo in un sonno profondo (perché l’uomo, alto dignitario, deve eclissarsi nella coscienza durante la creazione della donna da parte di Dio, come per non essere leso nei suoi diritti) e gli preleva una costola. La traduzione “costola” dell’ebraico tzelach è riduttiva, nella Bibbia il termine indica le pareti dell’Arca dell’Alleanza o quelle di una montagna, insomma veicola l’idea della struttura fondamentale, portante dell’oggetto in questione. Quindi la donna deriva dalla struttura stessa dell’uomo: questo vuol dire che uomo e donna hanno pari dignità, “ossa dalle mie ossa”, infatti in ebraico “maschio” è ish e “femmina” è isshah, sono allo stesso livello. “Saranno una carne sola” (concetto che la traduzione greca della Septuaginta rende con il verbo proskollaomai, donde la nostra parola “colla”), cioè avranno una relazione assai intima alla pari.

        Possiamo concludere questa breve analisi dei due racconti della creazione dicendo questo. Il primo racconto ha una finalità sacrale, vuole dipingere la creazione come un atto rituale (“separare”) e nella quale l’uomo deve stare in relazione con Dio, il creato e la donna (compaiono tre elementi con cui relazionarsi e che NON sono allo stesso livello). Come a dire che tutto è sacro, quindi ogni rapporto che l’uomo instaura è sacro e benedetto da Dio. Invece nel secondo racconto della creazione l’unico essere con cui l’uomo deve relazionarsi è la donna, che sta al suo MEDESIMO livello. Qui compare un blando elemento di laicità e di profano. Se nel primo racconto il creato è il tempio di Dio, qui compare uno spazio differente da quello sacrale, quello dei rapporti interpersonali, tra le persone.

        Il grande storico delle religioni Eliade osservava come lo spazio sacro è ierofanico, cioè ha origine nella manifestazione di Dio in quel luogo, per questo scelto dagli uomini, intermediari degli dèi, quindi consacrato. Il centro in cui si manifesta la divinità diventa una apertura verso il trascendente e anche l’asse attorno al quale si organizza lo spazio profano.

          Genesi 28: Giacobbe prende una pietra e si mette a dormire, nella notte sogna una scala in cui gli angeli salgono e scendono; Giacobbe chiama quel luogo Casa di Dio (Bet-El) e sarà il luogo dove sorgerà il tempio di Gerusalemme. La pietra su cui dorme Giacobbe diventerà la pietra di fondazione (even shetiyyah) del tempio. Quando Giacobbe si risveglia esclama: “Questa non è altro che la Casa di Dio, la porta del Cielo”. Quel luogo in cui appaiono nel sogno gli angeli, diventa un luogo speciale, “separato”, “consacrato”. Secondo la tradizione ebraica, la pietra di fondazione è anche il centro del mondo e la base sulla quale il mondo venne creato.

           Nell’Antico Testamento Dio si manifesta nella creazione (la quale non è divina, ma serba sempre segni della presenza del Signore) e nei patriarchi, ma anche in certi luoghi. Per tutto l’esodo fino a Salomone, Dio abita in una tenda mobile, nella precarietà più assoluta. Dio si fa pellegrino per amore del suo popolo. Il primo santuario di Dio è un luogo mobile, che si spostava nel deserto assieme ai pellegrini. Dio cammina con il suo popolo. Questa tenda era detta Mishkan, “dimora” e conteneva l’Arca dell’Alleanza, al cui interno erano conservate le due Tavole della Legge, che Dio diede a Mosè.

          Quando Giovanni in 1, 14 utilizza il verbo greco eskēnōsen, “ha posto la tenda”, potrebbe alludere anche a questo santuario mobile del deserto, sopra il quale Dio si manifestava come una nube. Quindi dicendo che Cristo ha posto la tenda in noi, Giovanni vorrebbe dire che Dio considera i cristiani la sua tenda, il suo santuario, il suo tempio.

          Quando il popolo eletto raggiunge la Terra Promessa, l’Arca dell’Alleanza fa una sosta a Silo, in Samaria, poi vien rubata dai filistei; quindi, viene recuperata ponendola in una casa privata e Davide la porterà a Gerusalemme, dove Salomone costruirà il tempio di Gerusalemme, in pietra. In 2Samuele 6 vi è la processione durante la quale Davide danzando e cantando porta l’Arca a Gerusalemme. Secondo gli studiosi il Salmo 132 fu redatto originariamente per questa traslazione da villaggio a villaggio. Nel racconto di 2Samuele 6 vi è anche un fatto strano: Uzzà tocca l’Arca che stava per cadere e viene ucciso da Dio. Probabilmente si tratta della testimonianza di un racconto molto antico, ove c’è ancora il retaggio di un sacro arcaico e magico, che precede la coscienza stessa dell’uomo e quindi serba una forza dirompente e incontrollabile. Inoltre, è attestata altresì la credenza che nessuno può violare lo spazio sacro se non è consacrato.

          In seguito, l’Arca dell’Alleanza, a Gerusalemme, viene posta all’interno del Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme. La politica religiosa di Salomone è il momento più alto del suo regno, nel quale la Bibbia si sofferma particolarmente. I capitoli 6-8 di 1Re sono molto importanti a questo scopo, con una descrizione dettagliata del tempio, testimonianza dell’opera di Salomone. Il tempio viene posto vicino alla reggia, in quanto anticamente potere religioso e politico si identificavano. Il tempio viene descritto dalla Bibbia con quell’amore di chi celebra un corpo amato, non per nulla nelle antiche culture i luoghi sacri erano considerati alla stregua di creature viventi. È significativo 1Re 7, 23 in cui il bacino di bronzo è detto Mare (yam): nel Vicino Oriente il mare era visto come un grande mostro; quindi, il bacino di bronzo del tempio ostacola intenzionalmente l’emergere delle “grandi acque” (mayyim rabbim), simbolo delle forze oscure che attentano all’ordine della creazione (il Salmo 46 canta una Gerusalemme compatta mentre tutto attorno si sta sgretolando assaltato dal mare).

          È giusto dire che Dio abita nel tempio di Gerusalemme. Ma non come intendevano i popoli vicini del periodo. Possiamo dire che Dio vi abita solo quando scende per ascoltare le preghiere dei suoi fedeli. Ma la questione è dibattuta dagli studiosi. È interessante a riguardo 1Re 8, 27-30 in cui si dice che i cieli dei cieli non possono contenere Dio, quindi nemmeno il tempio. L’autore del brano fa riferimento alla concezione antica per la quale la divinità sarebbe imprigionata nella cella del santuario. Israele non ha una concezione del genere, come si può desumere anche da Geremia, il quale dice che, dato che gli israeliti sono ingiusti, Dio se ne è andato dal tempio. Secondo 1Re 8 Dio non sta propriamente nel tempio come un prigioniero, ma quando il popolo fedele viene al tempio, Dio scende dalla sua dimora, quasi curvandosi (nel capitolo 8, quando si trova scritto che Dio li ascolta “dai” cieli, si usa il min dinamico). Del resto, il rapporto con Dio è un incontro e non una costrizione: la tenda del deserto era detta Tenda dell’Incontro, Ohel Moed.

          Dopo secoli, nel 586 a.C., quando Gerusalemme viene presa dai babilonesi, l’Arca dell’Alleanza viene persa e distrutto il tempio. Il tempio viene ricostruito dopo l’esilio (terminato il 12 marzo del 515 a.C. e riconsacrato il 21 novembre del 164 a.C. da Giuda Maccabeo), ampliato da Erode e dai successori dal 19 a.C. al 64 d.C., poi distrutto dai romani definitivamente nel 70 d.C.

          Gli ebrei aspettano tuttora il Messia che ricostruirà il tempio e il sacerdozio, che è in potenza nella Mishnà.

          Gli archeologi propongono come modello del primo tempio di Gerusalemme (quello fatto da Salomone nel X secolo a.C.) un santuario in pietra scoperto a Endara e che rimase in piedi per diversi secoli. Questo complesso era formato da un vestibolo, che conduceva al tempio propriamente detto, denominato il Santo, poi si accedeva al Santo dei Santi, il Devir, che era la parte interna più sacra delle altre.

           Per il popolo ebraico nessun luogo era più amato del tempio di Gerusalemme, in quanto Dio abitava nel Santo dei Santi. Il tempio, quindi, divenne il fulcro della liturgia ebraica: al tempo di Cristo e anche prima ogni preghiera era detta stando rivolti al Santo dei Santi di Gerusalemme. Ancora oggi gli ebrei dispersi nel mondo pregano rivolti a Gerusalemme; se sono a Gerusalemme verso il muro superstite dell’antico tempio.

            La Bibbia spende molte parole sull’architettura sacra. In Ezechiele, ai capitoli 40-43, c’è addirittura la profezia del Terzo Tempio, luogo eterno. Si tratta di una descrizione assai imprecisa, per cui i miniaturisti medioevali avevano serie difficoltà a riprodurlo. La cultura medioevale, infatti, risente di quella greca per cui la “idea” deriva dal verbo greco “vedere”, quindi essa si può vedere chiaramente, mentre la civiltà ebraica si basava sulla parola, per cui le cose si possono scrivere senza che si possano esprimere visibilmente.

         Anche per la Bibbia l’architetto umano è una immagine di Dio, il vero Architetto e Costruttore del mondo. L’ebreo Filone di Alessandria, commentando i primi libri della Genesi sulla creazione, paragona Dio a un architetto che costruisce il mondo. In seguito, Giovanni Calvino riprenderà l’immagine tipicamente ebraica per il Dio cristiano.

          Gli uomini sono strumenti nelle mani di Dio, qualsiasi cosa facciano, non solo il tempio e altri spazi sacri. La volontà dell’architetto è quella di creare uno spazio “pulito” (mundus in latino), cioè il “mondo” civilizzato, mettendo barriere contro il caos mediante la architettura, sia sacra sia profana. In greco la parola kosmos vuol dire sia “mondo” sia “ordine”.

           Ma sin dall’inizio Dio dice a Davide che Egli non abita tanto in un luogo ma nel cuore dell’uomo. Il vero luogo privilegiato da Dio non è il tempio, anche se da Lui abitato, ma l’uomo stesso. In 2Samuele 7 Natan profetizza a Davide, che intende fare una “casa” / ”tempio” (bet) a Dio, che il Signore gradisce di più una “discendenza” (lo stesso termine bet), un “casato”.

          “Amore voglio e non sacrifici, chesed hafasti velò sabach” (Osea 6,6). Dio non sta dicendo che non vuole sacrifici ma che ad essi preferisce l’amore. Vediamo perché. L’originale ebraico ha hafasti, che è un perfetto, quindi andrebbe tradotto: “misericordia volli e non sacrifici”. La traduzione greca della Septuaginta rende con thelō, un presente indicativo oppure un presente congiuntivo, forma mantenuta da Matteo 9, 13.  Il greco non ha il condizionale, che lo esprime con un congiuntivo. Thelō può quindi essere tradotto sia con “voglio” sia con “vorrei”. È meglio intendere il verbo greco con il condizionale “vorrei” in quanto Osea non sta dicendo che Dio non vuole i sacrifici (da sempre cari agli ebrei perché prescritti da Dio) ma che non li ha voluti (tempo passato), che è un semitismo per dire che non li avrebbe voluti, preferendo a loro l’amore.  Inoltre, il verbo ebraico veicola anche l’idea del desiderio e del piacere connesso; quindi, non è un mero volere decisionale. Allora Osea vuole dire che Dio ha piacere più dell’amore dei suoi fedeli che dei sacrifici.

          Non per nulla in Isaia 29, 13 Dio si lamenta: “Questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me”. Isaia 58, 6-7: “Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?”. Gioele 2, 13: “Laceratevi il cuore, non le vesti; ritornate al Signore vostro Dio”. Matteo 7, 21: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Il giudizio escatologico di Cristo verterà sulle opere di misericordia (Matteo 25). Lo stesso Platone (Leggi 716 e) riconosceva che “è del tutto vano l’affannarsi dell’uomo empio a rendere grazie agli dèi, mentre la stessa azione (rituale) è altamente opportuna nel caso di tutti gli uomini giusti”.

            La Presenza di Dio (Shekinah) si manifestava nel Santo dei Santi in mezzo ai due cherubini d’oro sopra l’Arca dell’Alleanza del primo tempio: Dio appariva nello spazio vuoto tra i due cherubini.

            Il tempio era strutturato con un cortile esterno, nel quale potevano entrare tutti, anche i pagani. Vi era poi un muro dal quale passavano solo gli ebrei, uomini e donne, per accedere ad un’area riservata (ai tempi di Cristo se vi passava un pagano veniva condannato a morte). Quindi vi era l’Atrio delle donne, dove potevano entrare le donne ebree, oltre il quale una porta introduceva allo spazio destinato ai sacrifici, solo per gli uomini. Oltre il luogo dei sacrifici, vi era un vestibolo che dava accesso al Santo, cioè il santuario vero e proprio, riservato ai sacerdoti e ai loro sacrifici particolari. Nel Santo dei Santi, il luogo più sacro del tempio, vi era l’Arca dell’Alleanza (nel primo tempio, di Salomone), ma nel secondo tempio vi era uno spazio vuoto, coperto da una tenda.

           Nel Santo dei Santi poteva entrare solo il sommo sacerdote e una volta l’anno, nello Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione, durante il quale il sommo sacerdote compiva il rito: aspergeva il luogo santo con sangue di animali. Precisamente gettava gocce di sangue di animali sacrificati sul Kapporet, cioè il Propiziatorio, un coperchio d’oro che reggeva le due statue di cherubini ed era localizzato sopra l’Arca dell’Alleanza. Invocava anche il nome impronunciabile di Dio, YHWH, con la esatta vocalizzazione, che era segreta, la quale passava dalla bocca del sommo sacerdote a quella del suo successore. L’espressione Santo dei Santi traduce quella ebraica Qadosh ha-Qadashim, che filologicamente è un tipico superlativo assoluto ebraico, per indicare un luogo Santissimo, Santo per eccellenza.

            Lo storico latino Tacito ricorda che quando nel 63 d.C. Pompeo violò il tempio di Gerusalemme e penetrò nel Santo dei Santi fu stupito perché non trovò la statua d’oro del dio ma solamente uno spazio vuoto. Gli ebrei, infatti, non rappresentano Dio come invece facevano i romani.  Dio è Qadosh, è sempre oltre, non si può inquadrare in schemi umani e iconografici.

            La Lettera agli Ebrei vede la realizzazione dello Yom Kippur in Cristo, il nuovo sommo sacerdote. Ebrei 9, 11-12: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna”.

             Romani 3, 25: Dio usa Gesù quale “strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. In greco “strumento di espiazione” è ilastērion, che traduce l’ebraico Kapporet. È dal sangue di Cristo, morto in croce, che proviene la salvezza a tutto il genere umano.

             Nei templi shintoisti in Giappone all’interno del luogo più sacro vi è uno specchio metallico. La divinità (kami) si manifesta nel Sé dell’uomo, che si specchia dentro il tempio. Nel Kojiki (I, sez. XVI), antico documento che tramanda i miti e la storia del Giappone, si narra che, essendosi il sole nascosto in una grotta, per far cessare l’eclisse gli dèi fecero uno specchio. I canti e le risate degli dèi eccitarono la curiosità del sole che uscì a vedere. Il sole, vedendo la propria faccia riflessa, credette che ci fosse un altro sole. Quel momento di sorpresa bastò agli altri dèi per forzare il sole a uscire di nuovo a illuminare il mondo.

            La pluralità è il cardine del rapporto dell’uomo con Dio. Esistono, infatti, molte religioni e molti testi sacri o comunque normativi. Tutte le religioni, tranne il buddhismo, pregano, e in modi assai variegati. La stessa Bibbia è formata da 73 libricini composti da autori in tempi diversi e con finalità assai diverse. Ogni libricino biblico in genere serba più generi letterari. Inoltre, le parole della Sacra Scrittura possono essere interpretate in più maniere, in quanto ci separano secoli dalla loro redazione e la falce del tempo fa aumentare la raggiera dei possibili significati. A ciò si aggiunga che l’Antico Testamento è redatto originariamente in prevalenza in ebraico biblico, una lingua semitica, quindi assai diversa dalla nostra, quella italiana, che è un idioma indoeuropeo derivante da un’altra lingua indoeuropea, il latino. L’ebraico biblico si fonda sulla paratassi e il fulcro della frase è il verbo, per di più ricchissimo di significati (polisemia), mentre il sostantivo svolge un ruolo minoritario. Invece l’italiano si basa sulla ipotassi e nella frase il verbo è importante ma lo è anche il sostantivo. Pertanto, rendere il vero senso di una frase ebraica in italiano è assai arduo, è necessaria molte volte una perifrasi. Anche il greco, lingua indoeuropea con cui è redatto tutto il Nuovo Testamento, risale alla fase detta koiné ellenistica, l’ultimo livello del greco antico, che è semanticamente diverso dal latino e quindi dall’italiano. A ciò si aggiunga che la Bibbia non serba solo un senso letterale (quello che ha voluto dire l’autore umano, nel pieno possesso delle proprie facoltà in un dato contesto storico-culturale), cioè “le parole”, ma anche un senso spirituale, cioè “la Parola”, vale a dire quello che ha voluto dire solamente l’autore divino, che ha ispirato quell’agiografo. Massimo il Confessore diceva quindi che non si può conoscere la Parola senza conoscere le parole.

              Anche noi oggi ci rapportiamo al testo biblico per cercare un contatto con Dio mediante la liturgia. È un approccio in sé pluralistico, che varia nel corso dei secoli a seconda dei vari approcci che la chiesa (anzi le chiese) adotta verso il dettato sacro.

          I Salmi sono un libro biblico costituito da 150 componimenti, delle liriche dai generi letterari assai diversi, dalla lode alla invettiva. Ancora oggi la Liturgia delle Ore adotta il salterio per pregare durante la giornata, così come nella Messa, già dagli inizi il rito cristiano più importante.

          Anche la Vergine Maria declama (Luca 1) il Magnificat, dai cattolici pregato ancora oggi nei Vespri della Liturgia delle Ore e nella Messa del 15 agosto. Si tratta di una preghiera di 102 parole greche dalla profonda eco veterotestamentaria, ricolma di iridescenze dell’Antico Testamento. Ecco il testo:

 

“6 Allora Maria disse:

‘L’anima mia magnifica il Signore

47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

48 perché (oti) ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

49 Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente

e Santo è il suo nome:

50 di generazione in generazione la sua misericordia

si stende su quelli che lo temono.

51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,

ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

52 ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili;

53 ha ricolmato di beni gli affamati,

ha rimandato a mani vuote i ricchi.

54 Ha soccorso Israele, suo servo,

ricordandosi della sua misericordia,

55 come aveva promesso ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza,

per sempre’”.

 

          Maria riconosce che il Dio che interviene nella storia di allora e di sempre è lo stesso che è sempre intervenuto nella storia di Israele, “come aveva promesso ai nostri padri”, dove kathōs non va inteso alla stregua del greco classico, “come” comparativo, ma secondo l’ebraico biblico, “come” fondativo: “sul fondamento delle promesse fatte ai nostri padri”, qui puntualmente realizzate. C’è un solo Dio che si manifesta nella storia! Il riferimento alla misericordia (“la sua misericordia si stende …” e “ricordandosi della sua misericordia”) è assai significativo, perché il greco eleos traduce l’ebraico chesed, termine fondamentale della teologia dell’Antico Testamento, l’amore misericordioso tipico di Dio che si china su coloro che sono fedeli alla alleanza, i quali spesso sono considerati “timorati di Dio”.

          Giobbe 28, 28: “Ecco, temere Dio, questo è sapienza
e evitare il male, questo è intelligenza, hen yir’at ‘Adonay hi chakmah wesur me’ra binah”. Il versetto 28 del capitolo 28 di Giobbe fa intendere che la sapienza (chokmah) è eminentemente pratica, come è tale in genere per tutta la Bibbia, insomma una sapienza che connota la dimensione etica e religiosa dell’uomo, che si affida a Dio con timore reverenziale, obbedendo alla sua parola. Nel prologo Giobbe, venendo definito “timorato di Dio e alieno dal male”, è il rappresentante dell’uomo che vive secondo la sapienza.

           Maria si definisce umile e prega per gli umili come lei: gli “umili” non sono altro che gli ‘anawim dell’Antico Testamento, i “poveri”, etimologicamente i “curvi”, non solo sotto l’oppressione del potente di turno ma anche in atteggiamento adorante verso Dio. Dio e il suo Messia si manifestano soprattutto per salvare gli oppressi; infatti, l’esultanza dello spirito di Maria viene espressa in greco dal verbo agallian, che indica la gioia messianica, come quando Cristo intona il suo inno al Padre: “Gesù esultò, ēghalliasato, di gioia nello Spirito Santo” (Luca 10, 21). È interessante che quando Maria canta che Dio “ha soccorso Israele, suo servo”, adopera il verbo antilambanein, piuttosto raro, che sottintende quasi un afferrare per mano per estrarre una persona da una situazione negativa (anti-): qui Israele è detto pais, che significa sia “servo” sia “figlio”.

           Per Gunkel il Magnificat risponde proprio al genere innico del giudaismo (soprattutto dei Salmi), che si caratterizza per la lode a Dio; e, in particolare, si tratta del sottogenere degli inni profetico-escatologici. Egli divide la composizione in due parti: una introduzione (v. 47) e il corpo dell’inno (dal v. 48 alla fine).

         Gunkel osserva che l’oti (perché) che apre il corpo dell’inno risponde alla particella ebraica “ki” (aramaica “di”) con la quale erano aperte le parti corrispondenti degli inni veterotestamentari. Non solo, ma confermano il parallelo anche le numerose espressioni che hanno Dio (cioè YHWH) per soggetto così come negli inni veterotestamentari questa fraseologia è funzionale al canto della maestà di Dio; queste espressioni sono intercalate da proposizioni che hanno altri soggetti (come in 49b-50), come avviene nel contesto dell’innologia dell’Antico Testamento; l’uso del parallelismo antitetico (vv. 52-53) così come è utilizzato negli inni biblici per esprimere l’onnipotenza di Dio, che “schaltet und walter”; la presenza di una frase anacolutica (mnēstēnai eleous, “ricordandosi della sua misericordia”), così come negli inni veterotestamentari si incontrano spesso infiniti assoluti (“le” + infinito) e nella poesia tardogiudaica la frase assoluta segue la principale, come avviene nel caso di specie; la finale che esalta la azione divina quale compimento delle promesse che Dio ha giurato anticamente (basterebbe solo leggere il salmo 48, 9).

         Interessantissima, infine, l’analisi che l’autore compie per dimostrare che il Magnificat appartiene al sottogenere profetico-escatologico: 1. gli aoristi dei vv. 51-54 non sono gnomici e non si riferiscono al passato (come spesso si intendono), ma echeggiano il modo di procedere della poesia biblica che si riferisce al futuro con i tempi del passato (tradotti normalmente dalla Septuaginta come aoristi), per esprimere la certezza delle realtà future riposanti nella parola/progetto di Dio; 2. presenza, come si è detto, di frasi assolute riferite a Dio (49b-50).

            L’intero Magnificat è un tripudio del primo Testamento. “Magnifica” (in greco megalunei, verso 6), verbo molto usato dalla Septuaginta, ricorre quasi sempre in Luca (anche in 1, 58 e tre volte negli Atti). Dio/Cristo è detto Santo (aghion, 49) come nella Bibbia ebraica: Qadosh. “Ha spiegato la potenza” (epoiēsen kratos, 51) ricalca l’espressione ebraica asah hayil. “Ha disperso i superbi nei pensieri (dianoiai) del loro cuore” (51): dianoiai è un dativo di relazione, ma Delebecque osserva che la tradizione manoscritta propone due lezioni, la prima, comunemente accettata, e la lezione dianoias, non accettata perché interpretabile o come genitivo singolare (dianoìas) o come accusativo plurale (dìanoias), senza senso nel contesto; tuttavia lo studioso ipotizza di emendare la seconda lezione in di’anoìas (preposizione+genitivo), Dio ha disperso i superbi “per via (dia) della follia (anoias)” del loro cuore (ammettendo che il copista abbia dimenticato un apostrofo), considerando anche il fatto che il sostantivo anoia, “follia”, non è estraneo a Luca e che la preposizione con genitivo rafforza il valore strumentale, più frequentemente espresso da dia+dativo.

         Ora, gli autori del mondo danno diverse interpretazioni della preghiera. Heindel ipotizza che la preghiera abbia efficacia per via della forza della mente di chi prega. La preghiera sarebbe un atto magico. La magia, secondo Heindel, sarebbe la capacità della mente umana di influenzare la realtà. In questo senso, una persona entra in un tempio e prega un dio estraneo da sé, ma non si accorge che la divinità è proprio lei stessa in quanto capace di far realizzare le invocazioni con quello che altri chiamano Fattore X, una carica magica presente in ogni individuo, che avrebbe quindi qualità divine. Un po’ come nello specchio dei templi shintoisti?

          Heindel in un’altra opera molto interessante (Iniziazione antica e moderna) interpretava in chiave antropologica anche il tempio di Gerusalemme, che sarebbe un simbolo della iniziazione quale passaggio progressivo verso la unione con il divino.

            All’interno del tempio, vicino alla Porta orientale, vi era l’Altare di Bronzo, adibito ai sacrifici di animali. Il sacrificio era un rito cruento ma adatto alla mentalità primitiva di allora. Il bronzo è una lega, quindi non si trova in natura, è formato da rame e zinco. Questo significa che il peccato, cui rimedia il sacrificio, non era previsto in natura, ma dipende da colpe degli uomini alla legge sacra dell’universo.

          Il fuoco del sacrificio era alimentato costantemente: due sacerdoti che non lo fecero vennero puniti con la morte. Questo significa che chi trasgredisce le leggi dell’Ego superiore, che coincidono con quelle divine, viene punito.

            Il candidato all’iniziazione era posto all’inizio davanti all’Altare di Bronzo e quindi vedeva solo fumo (del sacrificio) e luce (del fuoco). La sua vista spirituale era troppo debole, in quanto agli inizi, per vedere chiaramente la verità. Come la luce era mista al fumo, così la verità non è chiara all’apprendista, che si appresta a fare il cammino iniziatico.

        La vittima del sacrificio era cosparsa di sale. Il sale brucia e questo significa che la iniziazione richiede molto impegno, e può anche nuocere.

           Vi era poi la Coppa di Bronzo, il bacino di bronzo, sopra 12 buoi anch’essi di bronzo, simboli dei segni dello Zodiaco. Questa Coppa conteneva acqua, magnetizzata dai Guardiani divini che guidano l’universo. I sacerdoti, che guidavano il popolo, seguivano le direttive dei Guardiani.

          Nel tempio erano sempre esposti 12 Pani di pasta per Dio (cambiati il sabato). Il Santo era coperto dal primo velo, invece il Santo dei Santi era coperto dal secondo velo. Di fronte al secondo velo vi era l’Altare dei Profumi, ove non era bruciata nessuna carne ma solo le corna assieme a incenso. Lì compariva inoltre un Candelabro dalle 7 braccia, simboli dei pianeti che orbitano attorno al Sole.

         Il candidato doveva attraversare tutto il tempio. Oltrepassato l’Altare di Bronzo, egli giungeva alla Luce del Candelabro: questa Luce era il simbolo delle conoscenze nuove che aveva acquisito e che doveva spendere per gli altri (simbolo dei Pani).

        La vittima sacrificale all’Altare di Bronzo erano i peccati commessi in vita; invece, l’incenso bruciato assieme alle corna sull’Altare dei Profumi era il Bene compiuto offerto a Dio.

         Secondo noi, il passo successivo sarebbe quello di entrare nel Santo dei Santi, ove risiede Dio, per accorgersi che quel Dio tanto cercato altro non è che il candidato stesso. Per tutta la vita si è cercato fuori ciò che sta dentro di noi.

         Dion Fortune scriveva: “L’esperienza spirituale assegnata a Kether è detta essere l’Unione con Dio. Questa è la fine e lo scopo di tutta l’esperienza mistica (e magica), e se noi andiamo alla ricerca di qualsiasi altro obiettivo siamo come quelli che costruiscono una casa nel mondo dell’illusione”.

         In un testo indiano, una famosa Upaniṣad, il discepolo chiede al maestro chi è Dio. Questi inizia a spiegargli la dottrina portandolo lentamente a capire che Dio è il discepolo stesso. Nell’induismo si afferma frequentemente in sanscrito: Tat tvam asi, “tu sei Quello”, cioè tu sei Dio.

          Anche il filosofo greco neoplatonico Plotino (Enneadi VI. 5, 12): “Tu sei arrivato nel Tutto e non indugi più in una sua parte e non dici più di te stesso: ‘Come sono grande’, ma lasci da parte questa grandezza per diventare Tutto. Eppure, tu eri Tutto anche prima, kaitoi kai proteron ēstha pas, ma poiché ti sei aggiunto qualcosa di altro oltre il Tutto, proprio per questa aggiunta, sei diventato piccolo, elattōn eginou tēi prosthēkēi”.

          Il filosofo greco neoplatonico Proclo (Teologia platonica II, 4, 33.5) scriveva: “Ed in effetti l’essenza e l’intelletto si dice che hanno avuto sussistenza principalmente ad opera del Bene, che intorno al Bene hanno la loro esistenza, che sono colmi della luce, da lì proveniente, della verità, e che ricevono dall’unificazione la partecipazione, che si riversa su di loro, a questa luce, kai tēs epiballousēs autois methexeōs ek tēs enōseōs tou fōtos toutou tunchanein, la quale è più divina dell’intelletto stesso e dell’essenza, considerato che essa risulta dipendere principalmente dal Bene e negli enti è apportatrice della somiglianza a ciò che è primo”.

          Ancora Proclo (I, 3, 16.19): “E questa è la parte migliore della nostra attività: nella quiete delle nostre facoltà elevarci verso il divino stesso, danzarvi intorno, riunire senza posa tutta la molteplicità dell’anima in questa unificazione, kai pan to plēthos tēs psuchēs sunagheirein aei pros tēn enōsin tautēn, e, tralasciate tutte quante le cose che vengono dopo l’Uno, porci accanto ad esso, e stabilire un contatto con esso che è ineffabile e al di là di tutti gli enti”.

Bibliografia

 

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  • G. Ravasi, Il libro dei Salmi, vol. 3, Bologna 2015;

 

  • G. Ravasi, Le sette parole di Maria, Bologna 2020;

 

  • E. Zolli, Il Nazareno. Studi di esegesi neotestamentaria alla luce dell’aramaico e del pensiero rabbinico, Milano 2009.

 

 

 

 

 

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 52 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

2 Comments

  • Il Grillo Parlante 12 Ottobre 2024

    Bene, basta leggere questo articolo per perdere la fede. Per fortuna altri avevano già provveduto in precedenza.

  • Giovanni Bassoli 12 Ottobre 2024

    Articolo meraviglioso, soprattutto per l’accostamento tradizionale della mistica indiana a quella cristiana (originale). Concordo anche con la visione del Tempio.

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