Questo testo ha una storia curiosa: la sua stesura risale a quasi vent’anni fa, lo redassi d’istinto in seguito alla lettura dell’articolo pubblicato sulla rivista di divulgazione scientifica “Focus” che cito più sotto. All’epoca non avevo una rete di contatti con pubblicazioni e siti di Area come attualmente, lo feci girare un poco, facendolo leggere a conoscenti del nostro ambiente, ma non mi risulta sia mai stato pubblicato sotto nessuna forma, poi l’ho accantonato per un lungo periodo. Avendolo riletto casualmente tempo addietro, mi sono accorto che non ha minimamente perso di attualità, anzi, trattandosi del nostro futuro…
Avete l’impressione che la gente intorno a voi diventi ogni giorno più stupida? Bene, consolatevi, non è un’impressione, è un dato di fatto scientificamente dimostrato. Non si tratta del solito mugugno del solito conservatore destrorso, ma di una lampante verità scientifica.
Nel n. 67 di maggio 1998 di Focus, la nota rivista di divulgazione scientifica, apparve un articolo, Bestie del lontano futuro a firma di Ivan Vispiez nel quale sono presentate alcune ipotesi sulle trasformazioni cui potranno andare incontro le varie specie animali in un futuro più o meno remoto, ma quello che più interessa è il riquadro che si riferisce alla specie umana, le cui magnifiche sorti e progressive sono, se si continua di questo passo, quelle di tornare ad essere una specie bestiale in un futuro nemmeno troppo lontano.
Non si tratta di illazioni, ma di un dato di fatto, le dimensioni del cervello umano si stanno progressivamente riducendo.
L’articolo nel riquadro riferisce i risultati di uno studio condotto dal professor Giuseppe D’Amore dell’Università di Firenze. Il cervello umano, spiega l’antropologo fiorentino, ha raggiunto il suo massimo durante l’età paleolitica 35.000 anni fa con un volume cerebrale di 1600 centimetri cubi, per scendere a 1500 c.c. durante il neolitico, 8000 anni fa, e toccare oggi i 1400 c.c.
Le cause di questa situazione? Presto dette!
“Con il progresso”, spiega il professor D’Amore, “è diventato sempre più facile raggiungere l’età adulta. Oggi tutti possono fare figli senza che contino l’intelligenza e l’abilità di sopravvivere. Nell’età della pietra queste qualità erano invece necessarie per arrivare a riprodursi”.
In poche parole, la civiltà umana ha messo in scacco la selezione naturale, ma così facendo, ha avviato la decadenza dell’uomo come specie.
L’antropologo fiorentino aggiunge poi la conclusione del tutto ottimistica e ingiustificata, in contrasto con i dati sin qui forniti, che il limite inferiore di 1000 c.c., al disotto del quale non si potrà più parlare di homo sapiens, al disotto del quale i nostri discendenti non saranno più abbastanza intelligenti da tenere in vita una civiltà, sarà toccato soltanto fra tre milioni di anni.
L’impressione che se ne ricava è che il professor D’Amore avesse cercato di non spaventare il pubblico.
Un semplice conteggio ci dimostra che le cose non possono stare così. Per perdere i primi 100 c.c. di volume cerebrale sono occorsi 27.000 anni, mentre i secondi 100 c.c. se ne sono andati in solo 8000, il che vuol dire che la velocità di decadenza del cervello umano dal neolitico ad oggi è più che triplicata.
C’è tuttavia un dato importante che va considerato per avere chiara la questione, che rende meno drammatica la situazione del neolitico, e molto più drammatica, invece, quella attuale. Le dimensioni assolute del cervello non sono una misura diretta dell’intelligenza; più attendibile, da questo punto di vista, è il cosiddetto indice di cefalizzazione che si ottiene moltiplicando le dimensioni del cervello per il rapporto cervello/massa corporea. In termini semplici, gli uomini piccoli hanno un cervello di dimensioni minori di quelli di taglia maggiore senza che questo implichi un pregiudizio dell’intelligenza, semplicemente perché il loro cervello ha una minore massa corporea da controllare. Gli uomini del neolitico erano di taglia modesta, con un’altezza intorno al metro e sessanta cm., a fronte degli 1,70 – 1,75 dei cacciatori paleolitici, per una ragione molto semplice: il neolitico coincide con la scoperta dell’agricoltura. Lo stile di vita dell’agricoltore sedentario ha creato un surplus alimentare che ha permesso alle comunità umane di espandersi numericamente, ma è innegabile che il singolo agricoltore neolitico si alimentasse peggio del cacciatore paleolitico, con una dieta ricca di carboidrati ma povera di proteine. Questo dato sdrammatizza la perdita di volume cerebrale avvenuta fra paleolitico e neolitico, spiegabile in parte con la riduzione di taglia, ma rende ancora più drammatica ed esponenziale quella avvenuta negli ultimi ottomila anni, soprattutto nella cosiddetta età moderna nella quale la statura è risalita, ma il volume del cervello è continuato a diminuire.
Ci stiamo trasformando in ottusi giganti ipervitaminizzati, idioti e ben nutriti, ci stiamo, in una parola, americanizzando, non solo culturalmente, ma anche biologicamente, il che è infinitamente peggio.
Se le cose stanno in questi termini, se prosegue la tendenza attuale, non ci vorranno tre milioni di anni, ma alcuni millenni, forse addirittura non più di qualche secolo, perché il cervello umano scenda al disotto della soglia dei 1000 c.c., e per conseguenza ad un livello che si può definire subumano, incapace di sostenere una civiltà. Non stiamo parlando di un futuro lontanissimo attingibile soltanto alla fantascienza, ma dei nostri pronipoti.
Che gli uomini di oggi siano più stupidi di quelli di qualche secolo fa, è un fatto innegabile, ad esempio Julius Evola faceva notare che anche i maggiori o quelli che passano per i maggiori filosofi nostri contemporanei trovano la Summa Theologica di Tommaso d’Aquino un testo di lettura estremamente ardua, eppure all’epoca in cui l’Aquinate lo scrisse, era un manuale ad uso degli studenti. Ci eravamo illusi tuttavia, finora che questa stupidità dilagante che contrassegna l’uomo moderno, l’ultimo uomo puntualmente profetizzato da Nietzsche fosse soltanto un dato culturale, invece è chiaro che sono i fondamenti biologici dell’intelligenza a essere intaccati e messi a repentaglio.
Possiamo fare qualcosa, e che cosa?
In teoria, quello che potremmo fare, che saremmo ancora in tempo per fare, sarebbe molto. Gli sviluppi della contraccezione, della diagnosi prenatale, i test del DNA ci eviterebbero di ricorrere a soluzioni drastiche come la soppressione dei portatori di handicap, e d’altra parte non occorre neppure attendere soluzioni per ora fantascientifiche e fuori dalla nostra portata come la manipolazione del patrimonio genetico, basterebbe finalizzare la contraccezione e la diagnosi prenatale (con eventuale decisione di aborto per la donna) allo scopo di prevenire la nascita di persone portatrici di handicap e di anomalie ereditarie, è quella che si chiama eugenetica.
Come ulteriori misure accessorie si potrebbero suggerire:
Una legislazione più rigida e repressiva in materia di stupefacenti. (Una delle cose che si sanno già dagli anni ’60 ma che di solito ci si guarda dal dire, è che gli allucinogeni sintetici, dal vecchio LSD alla recente ecstasy, provocano anche danni al patrimonio genetico).
Per l’Europa, un deciso sforzo per scoraggiare l’immigrazione extracomunitaria, soprattutto quella proveniente dall’Africa subsahariana. Una volta che una consistente minoranza è insediata in una regione, è praticamente impossibile impedire il meticciato con la popolazione nativa, ed è un fatto accertato che le persone appartenenti a popolazioni originarie dall’Africa subsahariana, anche di origine remota (ad esempio afro – americani) ottengono nei test d’intelligenza punteggi che statisticamente sono significativamente più bassi rispetto a quelli riportati da persone di origine europea (intendo dire esattamente quello che ho detto, né una parola di più né una parola di meno, non mi sognerei mai di fare affermazioni razziste del tipo “i neri sono più stupidi dei bianchi”).
Quali probabilità vi sono che simili misure possano essere adottate?
Praticamente nulle, soprattutto in Italia, paese che ha la disgrazia di essere cattolico e, peggio ancora, un condominio catto – marxista.
Ricordo, molti anni fa, quando vi fu l’introduzione in Italia della legge sull’aborto, una tavola rotonda televisiva sull’argomento alla quale parteciparono, su fronti contrapposti, intellettuali marxisti e cattolici.
L’unico punto su cui erano tutti d’accordo, era l’escludere l’aborto per motivi eugenetici. Cosa significa questo in concreto? Che se una donna, ad esempio, scopre di essere rimasta incinta in un momento tale che il parto le scombinerebbe una villeggiatura programmata per l’anno successivo, questo è un ottimo motivo per consentirle di abortire, ma se scopre di portare in grembo un figlio affetto, ad esempio una da sindrome di Down o da qualche altra grave patologia, non ci sono santi, se lo deve tenere e sollazzare tutta la vita. Una cosa che non ha nessuna ragionevolezza, nessun senso, se non quello di contrastare una cosa “fascista” e “razzista” come l’eugenetica, una pura ubbia ideologica, a cui non importa quanto debba essere sacrificato in termini di vita concreta di sofferenze imposte alle persone e alle famiglie, e i marxisti, sia ben chiaro, il più delle volte sono perfino più astratti, ipocriti, untuosi, “preteschi”, degli stessi preti.
Personalmente ritengo che i motivi eugenetici, assieme alla salvaguardia della vita della madre e alla gravidanza conseguente a uno stupro, siano i soli che giustifichino realmente un aborto.
Bene, qui lo dico e qui lo affermo, è piuttosto evidente che tutte le misure che potremmo prendere oggi per impedire, arrestare, invertire la tendenza alla degenerazione della nostra specie, hanno un sapore sgradevolmente “destrorso”, “elitario”, “fascista”, “razzista”, urtano sistematicamente contro tutto ciò che siamo abituati a considerare “morale”, “giusto”, “buono”, in una parola “cristiano”. Allora sarà il caso dirlo una volta per tutte senza peli sulla lingua, forse è davvero arrivato il momento per la cultura europea di liberarsi di questa palla al piede di origine semitica che si trascina da due millenni.
Una, non la sola, forma di cecità del marxismo, è quella di essere ciechi all’aspetto genetico della vita umana, e c’è davvero da chiedersi come si possa essere marxisti senza ingaggiare una lotta quotidiana contro l’evidenza.
Tuttavia, per quanto riguarda noi, non vedo motivo di cadere nella cecità opposta e simmetrica, e ritenere la genetica onnipotente negando una qualsiasi importanza alla cultura e all’apprendimento. Ammesso che non si possa fare nulla – ed abbiamo visto che non è così – per contrastare la tendenza alla riduzione del volume endocranico, non è privo di conseguenze il modo in cui questo volume è utilizzato. Uno spazio minore può contenere più cose di uno spazio maggiore, se sono disposte secondo un ordine preciso. Fuori di metafora, per l’intelligenza vale esattamente quello che vale per altre caratteristiche umane, quale la forza fisica: il patrimonio genetico ci dà una gamma di possibilità nella quale la nostra prestazione effettiva andrà ad inserirsi a seconda di quanto ne avremo curato lo sviluppo. In poche parole, anche (e soprattutto) i migliori atleti hanno bisogno di allenarsi. Esiste un allenamento per l’intelligenza? Eccome!
E’ un fatto noto che negli Stati Uniti i ragazzi di origine asiatica, estremo – orientale, cinese e soprattutto giapponese ottengono sia in termini di voti scolastici, sia in termini di punteggio nei test d’intelligenza risultati significativamente superiori a quelli dei loro coetanei di origine europea. Lo psicologo Daniel Goleman riferisce nel libro Intelligenza emotiva (Emotional Intelligence) di aver sottoposto questo fatto ad una attenta indagine, ed ecco cosa ne è emerso: in età prescolare ed agli inizi della scuola dell’obbligo non esiste alcuna differenza significativa fra i punteggi dei ragazzi di origine asiatica e quelli di origine europea, quando invece esso è già allora facilmente riscontrabile fra entrambi i gruppi e quello dei ragazzi afroamericani. Dopo, per tutto il curriculum degli studi, il divario si allarga a forbice, e una volta raggiunta l’età adulta, rimane costante per il resto della vita. Tutto ciò, secondo Goleman, non si spiega con una differenza di tipo genetico, ma è il risultato di una differente educazione a cui sono sottoposti i ragazzi asiatici ed europei. I genitori di origine asiatica sono notoriamente più esigenti, impongono ai ragazzi una disciplina più severa, inculcano ai figli un preciso senso del dovere, pretendono l’attuazione fedele delle consegne in ordine a compiti e studio fin dai primissimi anni di impegno scolastico, laddove i genitori europei si farebbero prendere dall’indulgenza e dal compatimento, salvo accorgersi, una volta arrivati alla pubertà, di non riuscire più ad esercitare alcun controllo sui propri figli. Goleman completa quest’analisi con l’osservazione su numerose attitudini, ad esempio l’attitudine musicale, che si sviluppano tanto meglio, quanto più l’apprendimento avviene in età precoce.
Cosa emerge da tutto ciò? Null’altro che una fortissima indicazione a favore della bontà di ciò che siamo soliti chiamare educazione tradizionale. Dati alla mano, tutta la pedagogia progressista dell’ultimo quarantennio, da Benjamin Spock a Timoty Leary, è da buttare alle ortiche, ha contribuito a rovinare ormai due generazioni di giovani.
A ripensarci oggi, sembra una barzelletta, ma quarant’anni fa era convinzione diffusa che i giovani che allora si preparavano ad essere gli educatori della generazione emergente si sarebbero trovati a mal partito perché avrebbero dovuto confrontarsi con allievi che, cresciuti nell’età dei mass-media e bombardati da una grande varietà di stimoli, sarebbero stati più intelligenti di loro (ed a quei tempi non c’erano ancora i computer ed Internet). Oggi si può dire con sicurezza che di una simile, attesa, fioritura di geni non s’è vista nemmeno l’ombra. Al contrario, nel mondo dell’istruzione si discute dei saperi irrinunciabili, cioè si vorrebbe tracciare una sorta di linea del Piave, dei saperi che l’attuale generazione adulta non può rinunciare a trasmettere ai giovani di cui implicitamente si riconosce l’imbarbarimento. La semplice verità è che la sovrabbondanza di stimoli della cultura mediatica non favorisce per nulla lo sviluppo dell’intelligenza se gli stimoli non sono organizzati in un sistema di sapere, al contrario, favorisce l’insipienza, la superficialità, il fruire ogni cosa in maniera epidermica.
Per fare un esempio, parecchi anni fa negli Stati Uniti fu pubblicato un libro che fu un clamoroso insuccesso commerciale, e di cui non è mai apparsa la traduzione italiana, si trattava di un testo divulgativo preparato da alcuni dei migliori matematici americani, Innumeracy. Che cosa significa? Il titolo è un gioco di parole con illiteracy che significa analfabetismo, e si potrebbe tradurre come “analfabetismo matematico”.
L’analfabetismo matematico sta diventando un problema sempre più grave nella società moderna. Quanti, fra le persone che conoscete sanno compilare la dichiarazione dei redditi, leggere la busta paga od un estratto conto, consultare un orario ferroviario? Non si tratta di cultura astratta, ma di questioni molto pratiche, eppure ben pochi fra il pubblico americano si sono degnati di cercare di risolverlo, ed è difficile pensare che in Italia le cose sarebbero andate meglio. Il disinteresse per un simile testo che affronta un problema che coinvolge così tante persone, è del pari ugualmente significativo.
La “cultura” mediatica, fragorosa, scintillante e vuota, sembra proprio la cornice ideale di una società dove l’intelligenza è in declino, e possiamo assistere ogni giorno di più al trionfo della stupidità.
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