Il centenario di un evento offuscato dalla vulgata antifascista per non scrivere una parola tabù: “consenso popolare”
Una vittoria della sopraffazione?
Nelle tappe della Rivoluzione fascista una data è sempre rimasta in secondo piano, quella del 6 Aprile 1924, di cui quest’anno ricade il centenario. Quel giorno, infatti, si tennero in tutta Italia le elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati dopo due anni di Governo Mussolini, un Governo di unità nazionale dove i fascisti erano solo una trentina. Si rendeva necessario il rinnovo del Parlamento perché il popolo italiano si esprimesse su questi ultimi due anni di gestione fascista. Fu quindi un appuntamento molto importante, che si risolse in un trionfo per la Lista Nazionale approntata dal PNF, ben oltre ogni più rosea previsione. Mussolini ebbe così la consacrazione elettorale per proseguire sulla strada della rivoluzione nazionale e sociale di cui si faceva portatore, senza essere più legato mani e piedi ai compromessi parlamentari.
Eppure, come abbiamo detto, questa data è rimasta sempre in secondo piano.
I fascisti, infatti, non diedero mai importanza alle elezioni, ai ludi cartacei tipici dei sistemi che avevano fatto il loro tempo e dimostrato tutta la loro inadeguatezza ad affrontare i problemi del Paese: ben altra cosa era stata la Marcia su Roma e il discorso mussoliniano del 3 Gennaio 1925 con il quale si iniziò il processo di costruzione del Regime fascista come poi passato alla storia. Tra il 28 Ottobre 1922 e il 3 Gennaio 1925 non c’era stato il “6 Aprile”, ma solo la marcia impetuosa della rivoluzione…
Dall’altro lato, gli antifascisti – profondamente scioccati non per la loro scontata sconfitta, ma per l’inaspettato trionfo della Lista Nazionale – parlarono di questo evento mistificando i fatti, depotenziando il risultato, filtrando il tutto in un’ottica ideologica volta a falsare il risultato e il significato di quelle elezioni. Quelle poche volte che se ne parla, se ne parla, non a caso, attraverso le parole addolorate, indignate, di protesta e di denuncia pubblica, dell’On. Giacomo Matteotti, pronunciate nel famosissimo discorso alla Camera dei Deputati del 30 Maggio 1924 – dove, quindi, si poté liberamente esprimere – che molti, probabilmente a sproposito, considerato l’anticamera della sua “condanna a morte”.
In realtà, il discorso deve essere assolutamente contestualizzato, come ha fatto in maniera magistrale Enrico Tiozzo, ricordando il modus operandi di Matteotti, uso a lanciare virulente accuse e denunce senza riscontri oggettivi contro i suoi nemici politici. Un uomo politico con poca considerazione tra i vari partiti della sinistra, sia detto, santificato solo dopo la sua morte, perché il suo cadavere era utilizzabile nella battaglia contro il fascismo, di tutte le epoche ovviamente[1]. Del resto, quello che era considerato il “capo dell’opposizione” in quel 1924 non era certamente lui, ma il liberale Giovanni Amendola.
In quel discorso “storico” del 30 Maggio 1924, Matteotti considerò non valide le elezioni perché nessun Italiano si era potuto esprimere liberamente. Attaccò il Governo per il mantenimento della Milizia, un esercito di partito istituzionalizzato, ed entrò nello specifico, sostenendo che ad Iglesias (Cagliari) la casa del Notaio Corsi che stava raccogliendo le firme per la presentazione delle liste in quella circoscrizione era stata circondata dai fascisti. Un altro Notaio fu bastonato in Puglia, mentre a Melfi (Potenza), sempre con la violenza, venne impedita la raccolta firme:
«A Genova i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati. […]
In sei circoscrizioni, abbiamo detto, le formalità notarili furono impedite colla violenza, e per arrivare in tempo si dovette supplire malamente e come si poté con nuove firme in altre provincie. A Reggio Calabria, per esempio, abbiamo dovuto provvedere con nuove firme per supplire quelle che in Basilicata erano state impedite.
[…] L’inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell’Onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all’oratore di aprire nemmeno la bocca.
[…] Ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell’Onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell’Onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell’opposizione costituzionale, l’Onorevole Amendola, e che fu impedita…
[L’On. Piccinini] fu assassinato nella sua casa, per avere accettata la candidatura nonostante prevedesse quale sarebbe stato per essere il destino suo all’indomani».
Fu facile rispondere, chiedendo di dimostrare quanto denunciato, essendo questi fatti mai giunti a conoscenza della Giunta per le elezioni. “Per paura di ritorsioni”, chiosò Matteotti, non fu fatta denuncia (comunque, in tutte le circoscrizioni, si raggiunse il numero delle firme necessarie a presentare la lista e tutti i partiti poterono presentarsi e, nei pochi casi in cui ciò non fu possibile, la colpa fu da addebitare principalmente alla deficienza organizzativa dei singoli movimenti).
Lo stesso Mussolini aveva fatto del tutto perché l’On. Giovanni Amendola potesse tenere il suo comizio a Napoli, arrivando anche a scrivere al Prefetto obbligandolo ad intercedere presso proprietario del salone “Miramare” che aveva vietato la sala per l’evento:
Prego V.S. invitare proprietario teatro Miramare voler concedere uso locali per discorso Amendola. Invitola evitare eventuali concentramenti fascisti altre provincie, che sono inutili. Altrettanto inutili anche contraddittori, che non hanno mai spostato le idee. Fascisti mezzogiorno devono convincersi che il discorso di Amendola lascia perfettamente indifferenti Governo e Partito Fascista[2].
Amendola alla fine fece il suo comizio presso la sede del suo Comitato elettorale… Fu rieletto al Parlamento e continuò la sua fiera opposizione al fascismo, anche se i fascisti ironizzarono sul triste risultato elettorale incassato nella sua Sarno (Salerno): la Lista Nazionale aveva preso più di 4.000 voti, quella di Amendola solo 27![3]
Durante il discorso di Matteotti del 30 Maggio 1924, scandalizzato per quello che il Deputato socialista-unitario sosteneva, la Medaglia d’Oro Giacomo Suardo abbandonò l’Aula, non potendo tollerare altre accuse.
Il famosissimo discorso matteottiano si concluse chiedendo l’annullamento in blocco delle elezioni per le violenze e i brogli elettorali di cui si erano macchiati i fascisti.
Tutto qui.
Conoscendo Matteotti, il suo linguaggio politico, nulla di eccezionale, se non il classico “dovere dell’opposizione”, di opporsi a tutto, sempre e comunque, a prescindere dalla realtà.
Questo è quanto passato alla storia, nulla di più dicevamo. Eppure, una riflessione sulle elezioni del 1924 ci porterebbe forse lontani dal quadro dipinto fino ad oggi dalla vulgata, come ha dimostrato, tra gli altri, Alessandro Visani nel suo pregevole, quando dimenticato e silenziato, La conquista della maggioranza, studio fondamentale per comprendere cosa in realtà avvenne in quel momento storico[4].
Con ciò non si vuole assolutamente affermare che in quel 1924 non ci furono violenze fasciste o brogli, ma questi non condizionarono l’esito del voto che fu sostanzialmente regolare e il cui risultato rispecchiò gli orientamenti politici della popolazione italiana. Infatti, non si deve dimenticare come fino ad allora si erano svolte le elezioni in Italia e che si era appena usciti da una guerra civile (a bassa intensità) durante la quale si erano tenute tre incandescenti tornate elettorali (le politiche del 9 Novembre 1919, le amministrative dell’Autunno 1920 e le politiche del 15 Maggio 1921), con ben altre violenze, ben altri brogli.
Il successo della Lista Nazionale approntata dal PNF non fu dovuto alle violenze o ai brogli, ma per la considerazione che Mussolini, settimana dopo settimana, si era conquistato tra la pubblica opinione, dal fatto – come evidenza il Visani – che per la prima volta un Governo uscente affrontò una campagna elettorale forte di un partito di massa come mai si era visto nella storia d’Italia, perfettamente organizzato ed inquadrato che, anche attraverso la mobilitazione dei Sindacati fascisti e delle associazioni dei combattenti e dei reduci, rappresentò la vera novità di tutta la “battaglia elettorale”, una novità che gli altri partiti, certamente impauriti, ma altrettanto disorganizzati e certi della propria sconfitta, non poterono che osservare esterrefatti.
Al 12 Marzo 1924, il PNF poteva vantare la costituzione di 7.216 Fasci, 371.467 iscritti e un milione di organizzati nei Sindacati fascisti[5].
Ma la vittoria elettorale fascista, sebbene non preventivata nei termini cui risultò, era già scontata nella realtà del Paese. Come la Marcia su Roma rappresentò il sugello della conquista del potere già effettuata mesi prima dallo squadrismo in tutta Italia, così le elezioni del 1924 furono solo il sugello di un consenso tra l’opinione pubblica italiana già diffuso e consolidatosi nei mesi precedenti. Nelle elezioni amministrative che si erano svolte nel 1923, ad esempio, le liste fasciste avevano quasi sempre stravinto.
Una legge per la stabilità e per la rivoluzione
In questo contesto, la nuova legge elettorale, la Legge Acerbo, fu lo strumento con cui volle “istituzionalizzare” questo consenso, garantendo al PNF una maggioranza larghissima, che gli avrebbe permesso di governare tranquillamente e, soprattutto, iniziare quelle agognate riforme costituzionali necessarie per modernizzare l’Italia e rendere viva la realizzazione della Rivoluzione fascista da tanti annunciata.
Le ultime elezioni, quelle del Maggio 1921, si erano tenute con il sistema proporzionale a suffragio universale maschile, una mèta considerata fondamentale per la consacrazione di un compiuto Stato democratico. Tuttavia, ciò aveva provocato una grave instabilità governativa e per giunta premiato un partito, il PSI, che quello Stato voleva abbattere in nome del bolscevismo.
In molti, quindi, si era diffusa l’idea che il sistema elettorale dovesse essere corretto e in questo si inserirono i fascisti, convinti della necessità di trovare una formula che garantisse loro non tanto il successo – che era scontato –, ma soprattutto quella maggioranza parlamentare fondamentale per realizzare i postulati della rivoluzione di cui si dicevano portatori. È così che, per l’appunto, nacque la Legge Acerbo.
Questa legge, prima di tutto, abbassava il limite di età per l’eleggibilità da trenta a venticinque anni, proprio a simboleggiare il vento di novità generazione di cui il fascismo era l’espressione. Poi, venne abolita la “busta libera” – che i partiti distribuivano ai propri elettori già compilata prima di recarsi in cabina elettorale – sostituita dalla “scheda di Stato” cosa che, nessuno dice, garantiva maggiore segretezza del voto.
Veniva istituito un collegio unico nazionale (diviso in 16 circoscrizioni) che avrebbe stabilito quale sarebbe stata la lista più votata. Nel caso che questa avesse superato la soglia del 25%, avrebbe ottenuto i 2/3 degli eletti (cioè 356 Deputati su 535). Un trauma per molti “democratici puri” che, evidenziando anche l’enorme disparità tra voti presi e Deputati conquistati, denunciarono la legge come un sistema per instaurare una dittatura legalizzata (e su ciò converse anche la polemica di chi democratico certamente non era).
Se il premio di maggioranza era enorme, nulla si diceva degli altri 179 Deputati che, comunque, con sistema proporzionale, sarebbero toccati alle opposizioni. Rappresentanza, tanto per essere chiari, che nei sistemi maggioritari a collegio uninominale non esisteva affatto e non era garantita.
La Legge Acerbo (Legge n. 2444 del 18 Novembre 1923) così concepita – sistema proporzionale a premio di maggioranza – venne votata da un Parlamento dove i fascisti veri e propri erano una trentina, mentre tutti gli altri erano difensori del sistema proporzionale (sinistra) o del sistema uninominale (liberali). Nonostante ciò, nonostante lo scrutinio segreto, la legge passò con una larghissima maggioranza!
E questo per una serie di fattori, prima di tutto la considerazione che il proporzionale puro non potesse in nessun modo garantire la stabilità governativa. Dove, caso mai, ci fu battaglia fu sulla soglia per ottenere il cospicuo premio di maggioranza che in molti volevano alzare, chi al 33%, chi al 40%. Mussolini, però, si impose e confermò il 25%. Infatti, questa soglia era considerata abbordabile dal PNF, mentre una soglia più alta lo avrebbe costretto a fare un accordo con i liberali, pregiudicando quindi la compattezza della futura Camera e lo stesso scopo della legge.
Con l’approvazione da parte della Camera dei Deputati – dove ripetiamo i fascisti veri e propri erano una trentina – della Legge Acerbo, Mussolini aveva dimostrato il consenso che poteva vantare e messo una pietra fondamentale per la costruzione del suo prossimo Governo che, ovviamente, non sarebbe stato più un Governo di unità nazionale ma, prima di tutto, un Governo fascista. Con tutte le conseguenze del caso.
La campagna elettorale: la confusione delle opposizioni
Il 25 Gennaio 1924, il Re scioglieva la Camera dei Deputati, dando così il via alla competizione elettorale.
I partiti antifascisti – ben consapevoli della propria inadeguatezza, dei limiti e dell’impossibilità di sconfiggere in libere elezioni Mussolini – cercarono in tutti i modi di delegittimare l’evento, ipotizzando un’astensione di massa che avrebbe oggettivamente inficiato la scontata vittoria elettorale del PNF. E qui si dimostrò tutta l’impossibilità di andare oltre i proclami. Il PPI e il PCdI, infatti, si dichiararono subito in campagna elettorale, spiazzando gli astensionisti.
Particolarmente piccato dalla discesa in campo del Partito Comunista d’Italia fu l’On. Giacomo Matteotti, Segretario del Partito Socialista Unitario (socialisti riformisti), che si era battuto per la tesi astensionista e la creazione in tal senso di un “blocco delle libertà” a carattere antifascista che avrebbe dovuto unire tutti gli oppositori dai bolscevichi ai liberali. Forse un po’ troppo viste le divisioni che si registravano tra gli antifascisti. Del resto, tra i movimenti di sinistra forti erano le polemiche offensive e i contrasti violenti, e credere che sarebbe bastato l’antifascismo elevato a “minimo comune denominatore” a farli finire rappresentò certamente un limite di percezione della realtà, di cui lo stesso Matteotti non si rese assolutamente conto.
Altro schiaffo, l’Onorevole socialista-unitario ricevette dal PPI, la cui eminenza grigia – Don Luigi Sturzo – si dichiarò favorevole alla presentazione della lista dei popolari in solitaria.
Dopo che per settimane si era parlato di “blocchi antifascisti” – astensionisti o partecipazionisti – i vari partiti dell’opposizione scelsero di scendere in campo, da soli, con il proprio programma, con le proprie idee, con i propri uomini. Del resto, che senso avrebbe avuto unirsi solo su una piattaforma di negazione assoluta? L’odio antifascista avrebbe cementato tutti quei partiti così diversi e da sempre in lotta tra loro? Ma, poi, con quale obiettivo? Solo per abbattere Mussolini e poi continuare a scontrarsi violentemente tra di loro?
Insomma, ben pochi si sarebbero lasciati inaridire su una piattaforma di negazione assoluta, preferendo la lotta ideale, l’affermazione di una ideologia, la rivendicazione di valori e progetti propri. Questa era la politica per cui si era disposti a lottare.
La presentazione dei partiti di opposizione alle elezioni rappresentò una evidenza che uomini come Matteotti volevano assolutamente evitare: la legittimità delle elezioni (e della scontata legittima vittoria del PNF). Se tutti i partiti avevano potuto partecipare – ed avevano partecipato – di quale dittatura si stava parlando?
Di nessuna, per l’appunto. Un cavallo di battaglia dell’opposizione che naufragava miseramente.
Il fatto che tutti i partiti decisero di partecipare alla competizione elettorale, oltretutto, dimostrò che le violenze fasciste – che ci sarebbero state, basti pensare a quello che era accaduto nel Maggio 1921! – non sarebbero state determinanti per l’esito della votazione e non preoccupavano più di tanto nessuno.
L’opinione pubblica giudicò gli antifascisti per quello che si dimostravano di essere: “Un’opposizione allo sbando, incerta nella tattica e nella strategia, litigiosa e divisa”[6].
Comincia la “marcia” del PNF
In quelle settimane, i fascisti poterono sfruttare tutta la potenzialità di due eventi eccezionali che costituirono una “colonna portante” per l’aumento esponenziale del consenso tra la popolazione: l’annessione alla Madre Patria della città di Fiume del 27 Gennaio 1924 e l’annuncio del raggiungimento del pareggio di bilancio (dogma dei sistemi economici dell’epoca) del 30 Marzo successivo.
Successi, di certo, non mancavano al Governo Mussolini: l’eliminazione degli oneri fiscali dalle terre; il suffragio per le elezioni amministrative alle donne[7]; l’introduzione della religione nelle scuole pubbliche; l’aumento dei piccoli risparmi degli Italiani; l’abolizione delle tasse sull’eredità in difesa della famiglia; il freno dell’esodo all’estero del capitale italiano e l’aumento dell’ingresso del capitale straniero; l’apprezzamento della Lira; la giornata di otto ore lavorative agli operai; l’aumento del traffico ferroviario; gli scioperi aboliti; la diminuzione della disoccupazione; il ritorno dell’ordine dopo quattro anni di guerra civile (a bassa intensità).
Mussolini, comunque, intese condurre la campagna elettorale in stile schiettamente fascista, senza sotterfugi, dissimulazioni, vane promesse, doppiogiochismi tipici dei partiti impegnati nei ludi cartacei, iniziando a screditare il “rito” delle elezioni, considerandole di relativa importanza. Addirittura si rifiutò di presentare un programma elettorale, definito senza mezzi termini come «smercio al minuto di paccottiglia politica». Una cosa senza precedenti, che scandalizzò i democratici e fece evidenziare ai cronisti “una ulteriore dimostrazione della tendenza intimamente antidemocratica e antiparlamentaristica intrisa nella mentalità del Presidente del Consiglio e del fascismo”[8].
Il PNF, per tutta la campagna elettorale, si impegnò in una serie di mobilitazioni senza precedenti che attirarono non solo l’attenzione, ma anche la partecipazione della popolazione. Già la grande assemblea del Partito Nazionale Fascista a Palazzo Venezia (Roma) organizzata il 28 Gennaio 1924 con 800 partecipanti venne considerata dalla stampa un evento grandioso.
In questa occasione, ancora una volta, Mussolini fu chiarissimo. Iniziò ad elencare i meriti del suo Governo:
«Il Governo fascista non ha perduto il suo tempo. Esso ha profondamente rinnovato la compagine della Nazione, ha profondamente riformato le istituzioni militari, ha sistemato gli Ufficiali usciti dall’Esercito, i combattenti venuti dalle trincee, i mutilati e gli invalidi che nelle trincee avevano lasciato brandelli delle loro carni. Il fascismo ha rinnovato radicalmente gli ordinamenti dell’amministrazione civile, delle scuole, della Giustizia, delle Finanze, dei servizi pubblici, degli Esteri, dell’Economia nazionale, ecc. I risultati di questo enorme cumulo di riforme che, in sintesi, costituiscono una rivoluzione grandiosa, si vedranno in tutta la loro plasticità fra qualche tempo»[9]
Davanti alla possibilità di rinnovare i pieni poteri a suo tempo concessigli dalla Camera eletta nel 1921, aveva preferito rinunciare, decidendo di sottoporre il suo mandato al giudizio degli Italiani. Quella Camera, sebbene pronta a rinnovargli i pieni poteri, non rappresentava l’Italia.
Davanti alle “provocazioni” del Presidente del Consiglio le opposizioni insorsero, continuando la polemica sulla dittatura de facto instaurata da Mussolini, con i decreti che limitavano la libertà di stampa, con il mantenimento della Milizia “in armi” e gli squadristi scatenati nelle piazze in cerca del nemico politico di turno.
Un progetto totalitario
Il disprezzo per le elezioni e per i partiti, per il parlamentarismo, per la democrazia in genere, l’arroganza di ergersi a unico difensore della Patria e del sentimento nazionale, dimostrava – ancora una volta – il totalitarismo implicito del fascismo.
Anche questo caso si inquadra nella generale operazione intrapresa già da tempo dal fascismo per conquistare una sorta di monopolio del culto della Patria attraverso l’appropriazione di tutti i simbolismi ad esso connessi e l’assimilazione materiale dei movimenti patriottici affini, quali arditismo e fiumanesimo. Non poche difficoltà si ebbero, in questo senso, con quella parte del movimento combattentistico – di tradizione antifascista – che reclamava il diritto di presentarsi come legittimo custode della mitologia guerresca e che non aveva nessuna intenzione di lasciare campo libero alle tendenze totalitaristiche del fascismo[10].
Non sarà un caso che quando vennero resi noti i nomi dei candidati inseriti dal PNF nella Lista Nazionale si esaltò la presenza in essa di 200 combattenti, tra cui 10 Medaglie d’Oro, 114 d’Argento, 98 di Bronzo, 80 tra mutilati ed invalidi di guerra, 34 Volontari di Guerra[11]. La Lista Nazionale era la lista dei patrioti, di coloro che per la Patria avevano combattuto e vinto, l’aristocrazia della guerra, la famosa trincerocrazia un tempo annunciata da Mussolini. Nessun altro partito poteva reggere il confronto. E l’opinione pubblica se ne accorse e giudicò di conseguenza.
Verso cosa “navigasse” il fascismo – ossia verso una nuova forma di Stato – doveva essere chiaro a tutti e rimaniamo sbalorditi nel pensare che vi fossero coloro – fiancheggiatori o meno, addirittura alcuni inquadrati nel PNF – che pensassero che si ci si trovasse solo davanti ad una situazione di emergenza transeunte, passata la quale tutto si sarebbe “normalizzato”, ossia si sarebbe ritornati beatamente all’Italietta pre-guerra, con il suo Parlamento, le sue “libertà”, la sua pochezza. Magari anche Giolitti Presidente del Consiglio… e i cannoni di Bava Beccaris o le mitragliatrici dei Carabinieri Reali contro la gente. Forse un po’ troppo, dopo una guerra mondiale e quattro anni di guerra civile (a bassa intensità). Che gli squadristi si fossero fatti ammazzare per la Belle époque, ci sembra una interpretazione allucinante. E che qualcuno all’epoca lo pensasse, non ha nessuna valenza in ambito storico. Il fascismo non aveva mai negato di voler compiere una rivoluzione, anzi.
Il Governo Mussolini, sebbene un Governo di unità nazionale dove i Deputati fascisti erano una piccola minoranza (una trentina), si era caratterizzato per una rottura rivoluzionaria con la prassi della democrazia parlamentare fino ad allora in voga. Era giunto al potere dopo una guerra civile (a bassa intensità) sbandierando valori antitetici a quelli della democrazia liberale, attraverso una vera e propria insurrezione armata contro i legittimi poteri dello Stato. Che, poi, tutto si fosse costituzionalizzato attraverso la designazione del Re di Mussolini a Presidente del Consiglio e al voto di fiducia di entrambe le Camere, non cambia molto la sostanza delle cose, semmai introduce il tema del consenso, della necessità storica che in molti riconobbero del fascismo al potere. Ma non solo. Per la prima volta nella storia – quante prime volte! – un esercito di partito fu istituzionalizzato (cfr. nascita della Milizia, 1° Febbraio 1923) e si assistette ad una fascistizzazione dello Stato, creando appositi organi non previsti dallo Statuto, come il Gran Consiglio del Fascismo (15 Dicembre 1922), arrivando addirittura ad elevare il simbolo di un partito (il fascio) ad emblema di Stato (cfr. l’emissione, decisa il 21 Gennaio 1923, dell’emissione di monete da due Lire con le immagini del Re e, per l’appunto, del fascio littorio; che sarà poi ufficialmente riconosciuto tale con il R.D. 2061 del 12 Dicembre 1926).
A noi sembra che la situazione in atto fosse chiarissima sotto tutti i punti di vista. Chi veramente poteva credere che ci si trovasse davanti ad una momentanea emergenza e che si potesse tranquillamente tornare indietro, magari “stringendo la mano” e dando una bella “pacca sulle spalle” ai fascisti, dicendo loro: «Bravi, ben fatto. Ma adesso tornate a casa che qui ci pensiamo noi»?
“La Stampa” – il prestigioso giornale piemontese che da tempo aveva impostato una fiera battaglia antifascista – fu chiarissimo: il fascismo non si stava avviando verso una “normalizzazione” – ossia al ritorno dei “bei tempi” del parlamentarismo pre-guerra – ma “verso una soluzione di tipo autoritario dalle connotazioni dichiaratamente antidemocratiche e intransigenti”[12].
Totalitarismo implicito, soluzioni autoritarie. Era ben chiaro a tutti, quindi, quale progetto di rigenerazione della società italiana con cui il PNF si apprestava ad affrontare le urne.
Secondo le opposizioni, gli Italiani si sarebbero rifiutati di aderire a questi progetti. Era vero? Lo vedremo dopo le elezioni, intanto basti dire che questi ideali democratici, liberali, ma anche socialisti-libertari – per i quali si scendeva in campo come a difesa di un dogma, di una fede, di un “assoluto” cui tutti dovevano credere – erano coltivati solo da pochi borghesi nell’alto dei loro attici a Piazza del Duomo o nel lusso delle loro ville nelle amene campagne toscane, e non avevano minimamente riscontro tra le classi popolari e sempre meno nell’opinione pubblica. Delle élites borghesi, quindi, sempre più lontane dal contatto con la realtà della Nazione, che volevano difendere un mondo “bucolico” mai esistito.
Il “fronte” delle opposizioni: tutti contro tutti
Le opposizioni, oltre a non comprendere cosa stava avvenendo nella società italiana – sebbene avessero capito, per spirito polemico o per arguta analisi non importa, dove il fascismo volesse arrivare – continuarono a darsi battaglia tra loro, come sempre era avvenuto, come era inevitabile data la naturale antiteticità dei programmi e degli ideali che le muovevano.
Il PSI viveva una crisi epocale e non certo solamente per i colpi infertogli dallo squadrismo che, ribadiamo e lo vedremo meglio in seguito, non aveva intaccato la sua potenza elettorale. I veri danni erano venuti semmai dai compagni, prima i comunisti, artefici della traumatica scissione del Gennaio 1921 e, infine, dai riformisti (Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti), espulsi alla vigilia della Marcia su Roma, che il 4 Ottobre 1922 avevano fondato il Partito Socialista Unitario (PSU).
In queste condizioni, il PSI si lanciava nella battaglia elettorale, minato non solo dagli attacchi a sinistra dei bolscevichi e a destra degli unitari, ma anche dalle ancora presenti divisioni interne, questa volta tra massimalisti e terzini. Entrambi convinti della imminenza della rivoluzione socialista, i primi credevano nell’autonomia e nella tradizione del Partito Socialista Italiano, mentre i secondi – seguaci della Terza Internazionale del calibro di Giacinto Menotti Serrati, Francesco Buffoni, Fabrizio Maffi, Ezio Riboldi, Giuseppe Di Vittorio – erano fautori di una fusione con il Partito Comunista d’Italia. Quest’ultimo era un partito in “fibrillazione” che aveva visto l’allontanamento del settario Segretario Amedeo Bordiga, poco ligio agli ordini fusionisti di Mosca, e la costituzione di un Esecutivo direttivo affidato ai compagni più allineati all’URSS (Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti, Mauro Scoccimaro), convinti che fosse necessario fagocitare il PSI e, quindi, fomentare la scissione dei terzini.
E la “matriosca socialista” non finiva qui, perché anche i terzini erano divisi al loro interno, tra chi pur aderendo all’Internazionale comunista rimaneva agli ordini del PSI (come Costantino Lazzari) e chi, invece, spingeva per una decisa chiarificazione in tal senso.
La rottura divenne ancora una volta inevitabile, con i terzini che si lanciarono in liste comuni con il PCdI, subendo la consequenziale espulsione dal PSI…
Un disastro nel disastro, insomma. E gli squadristi, sia chiaro, non c’entrarono nulla.
Non meglio andava al Partito Socialista Unitario di Matteotti. Era a mezza strada tra l’estrema sinistra e i democrati e poteva, quindi, fungere da anello di congiunzione. Per questo si era battuto per la costituzione di un “blocco delle libertà”, di chiara ed esclusiva matrice antifascista, in modo da coalizzare tutta l’opposizione su un progetto astensionista. Ma ben pochi diedero seguito al progetto e il PSU si trovò isolato, costretto a presentarsi alle elezioni pure lui. E gli squadristi, sia chiaro, anche qui non c’entrarono nulla.
E veniamo a quello che era – dopo il disastro scissionistico nel PSI – il principale partito d’opposizione, il PPI. Guarda caso, anch’esso era diviso in tre correnti: l’ala sinistra di Francesco Luigi Ferrari e Guido Miglioli (con le sue Leghe bianche) fermamente antifascista; il centro di Don Luigi Sturzo non certamente tenero verso Mussolini; e la destra di Filippo Meda dichiaratamente filogovernativa. Le polemiche interne ovviamente non mancarono e dopo la scelta antifascista del partito, Meda decise di defilarsi, rinunciando alla candidatura, provocando un cedimento della destra del movimento, con tutte le conseguenze del caso. E gli squadristi, sia chiaro, non c’entrarono nulla.
Se i democratici, i difensori degli “immortali principi”, avrebbero fatto alle prossime elezioni come sempre solo “opera di testimonianza” avendo scarso seguito nel Paese, i liberali – senza un vero e proprio partito radicato sul territorio – avrebbero corso principalmente a caccia di un “posto sicuro”. Ora che la soglia per la “conquista della maggioranza” era stata fissata al 25% su un collegio unico nazionale che spezzava le consolidate clientele territoriali su cui avevano costruito da sempre le loro fortune elettorali, ai liberali altro non restava da fare che sperare – almeno per i filogovernativi – di essere inseriti nella Lista Nazionale che il PNF stava approntando. Questuando un posto.
Discorso a parte merita la Confederazione Generale del Lavoro che si era estraniata dalla lotta elettorale, anche per non compromettere la sua compagine in cui militavano comunisti, massimalisti e riformisti, tutti polemicamente in lotta tra loro. Ogni decisione in uno o nell’altro senso avrebbe provocato delle fratture in quel litigioso mondo. Senza contare un altro motivo che deve essere assolutamente evidenziato: “Non è da escludersi poi che i dirigenti confederali non avessero affatto accantonato l’idea di una possibile collaborazione futura, pur limitata ad un piano tecnico, con il Governo fascista, se l’occasione si fosse nuovamente presenta”[13]. Come si dovrebbe sapere, all’indomani della Marcia su Roma, Mussolini aveva aperto una porta alla CGdL e la proposta – che aveva trovato consenzienti anche dirigenti del calibro di Bruno Buozzi – cadde solo per la ferma opposizione dei nazionalisti, degli squadristi più reazionari e dei sindacalisti fascisti che, certamente, non volevano scendere a “patti” con la concorrenza sconfitta.
Non una legittimazione, ma una chiarificazione
E veniamo dunque al vincitore annunciato delle elezioni: il Partito Nazionale Fascista (anche se bisogna dire: Mussolini). Anche in casa del PNF non erano mancati gravi problemi di dissidentismo, che avevano travagliato tutto l’anno 1923, con il rassismo a difendere il suo potere locale, con gli squadristi più rivoluzionari insoddisfatti del Governo di unità nazionale varato da quello che già tutti chiamavano “il Duce”. In certe lande la presenza di elementi perturbatori dell’ordine pubblico in camicia nera comprometteva l’immagine del Governo. E nemmeno la creazione della Milizia, che avrebbe dovuto imbrigliare gli squadristi più esagitati, aveva risolto il problema. Così le espulsioni dal Partito e dalla MVSN degli elementi più indisciplinati e dei delinquenti.
Mussolini aveva comunque in parte arginato il fenomeno pericoloso del rassismo (rimasero gli scontri violenti con Cesare Forni e i suoi squadristi) e si era potuto lanciare nella campagna elettorale forte di un partito di massa perfettamente inquadrato e disciplinato; con una Milizia onnipresente e incombente; con la forza dei Sindacati fascisti in vertiginosa crescita; con l’appoggio delle associazioni d’arma e combattentistiche che non potevano non sottolineare quanto questo Governo aveva fatto per i reduci e per l’Italia; con il consenso di gran parte dell’opinione pubblica che – fregandosene degli “immortali principi” e delle violenze fasciste – considerava quanto fatto negli ultimi due anni qualcosa di eccezionale.
Per questo le adunate fasciste assunsero a “novità politica” dell’intera campagna elettorale, conquistando l’attenzione di coloro che fascisti non erano: il saluto romano collettivo; il giuramento delle squadre; la sfilata dei gagliardetti; la venerazione e la difesa dei simboli della Patria per anni vilipesi; il culto dei caduti, dei Martiri; la bellezza dei giovani squadristi che marciavano; l’adesione del clero, non più timoroso di scendere nelle vie pubbliche; non poterono non impressionare positivamente gli spettatori di queste originali manifestazioni di massa, veri e propri riti, che rappresentavano il nascere di una vera e propria “religione politica”, una religione della Patria:
Tutti i riti fascisti nella fase di lotta dello squadrismo si legavano al mito della “rinascita della Nazione” e all’universo simbolico del combattentismo e del reducismo. Lo squadrismo fascista si presentò anche visivamente come un movimento strettamente legato agli ideali della borghesia patriottica[14].
Ma, ovviamente, sarebbe errato confondere il fascismo come movimento di classe, perché se è vero che in esso trovarono rappresentanza i ceti medi emergenti; che gran parte della borghesia vide nello squadrismo una “guardia bianca” a difesa del proprio mondo; bisogna evidenziare che il consenso di cui Mussolini fu catalizzatore fu ben più ampio, mobilitando anche le fasce popolari, come dimostra l’esplosione del movimento sindacale fascista, che costituì, infine, la “massa consensuale di base” che permise al PNF di imporsi come primo movimento politico d’Italia fin dal Maggio 1921.
Ad ogni modo, ancora una volta soprattutto a livello di immagine, il Governo e il fascismo avevano buon gioco nel proporsi all’opinione pubblica come “avanguardia” nella difesa del patrimonio ideale della guerra e dei valori della Nazione. […]
Un altro passaggio riconducibile all’operazione e fascistizzazione dei simboli della Nazione […] si può individuare nell’attenzione mostrata dal Governo e dal fascismo per il “culto del tricolore”. Il 31 Gennaio 1923 il Ministero della Pubblica Istruzione dispose l’obbligo del rito del “saluto al tricolore” nelle scuole”[15].
Già il 28 Ottobre 1923, il primo anniversario della Marcia su Roma, promosso a vera e propria liturgia che coinvolse tutta l’Italia, sentenziò l’identificazione tra la Rivoluzione fascista e la rinascita nazionale.
Quando iniziò la campagna elettorale del 1924, ormai l’organizzazione del PNF e i riti si erano consolidati. Le adunate furono impressionanti, radunando ovunque masse di uomini perfettamente inquadrati tra i 3.000 e i 20.000 individui. Ma quello che deve essere sottolineato deve essere questo: ovunque l’ordine pubblico non fu minimamente turbato.
E fu proprio in questi mesi che Mussolini assunse al mitico ruolo di “Duce”. Sia chiaro, il tutto nacque spontaneamente, siamo ben lontani dalla regia del Regime in stile anni ’30, durante l’edificazione dello Stato totalitario. Tutti videro in Mussolini l’Uomo nuovo. Giovane, dinamico, intraprendente, brillante, replicando quanto avvenuto ai tempi della sua ascesa in politica tra le fila del PSI:
La giovane età, il rapido successo, le doti di oratore e di giornalista e i risultati positivi della sua politica nel Partito, sono le ragioni concrete del suo successo, i motivi che contribuirono a fare di lui un personaggio straordinario, osannato dai giovani socialisti rivoluzionari e rispettato, allo stesso tempo, anche dai riformisti[16].
Ecco quello che era avvenuto nel PSI, ora avveniva in tutta Italia:
La maggior parte degli Italiani che applaudirono nelle piazze il nuovo Presidente del Consiglio non era fascista, ma affascinata da questo giovane energico, dinamico, dai “tratti napoleonici” quando non addirittura “cesarei”, dotato di un’oratoria semplice, efficace, persuasiva. […]
Mussolini stabilì continuamente un contatto diretto con la gente comune, apparendo ad essa come un Capo di Governo capace di proporre dei modelli comportamentali del tutto nuovi e un taglio netto con il passato. Per l’opinione pubblica “borghese” egli era colui che aveva salvato la Patria dell’anarchia e dal bolscevismo e che prometteva un futuro di ordine e di normalità, mentre nei ceti popolari che non avevano subito direttamente la violenza squadrista, Mussolini era visto come “un figlio del popolo” che mai aveva nascosto le sue origini popolane. Ferruccio Parri, nell’Estate del 1924, osservò come Mussolini fosse stato posto dalla gente comune su “un piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore estatico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo Duce dinamico agitarsi e recitare[17].
Tutto ciò avvenne, ripetiamo, spontaneamente, senza che vi fosse una regia politica alle spalle. I giornali – anche quelli non fascisti o addirittura di opposizione – evidenziarono questa “straordinarietà” di Mussolini, partendo anche da piccole cose che tanto colpivano l’immaginario collettivo, come il suo intervento personale a favore di questo o quel disgraziato; la sua sportività; la sua frenetica attività lavorativa; fino ad arrivare a contemplare i suoi indiscutibili successi in politica interna ed internazionale. E ciò si riscontrò anche dalla valanga di cittadinanze onorarie che il Presidente del Consiglio cominciò a ricevere da moltissimi Comuni proprio in quei giorni, dopo sottoscrizioni plebiscitarie da parte dei reduci dalla Grande Guerra (sono le stesse che, oggi, ad un secolo di distanza, dopo che per decenni nessuno – neanche i “padri costituenti” e i partigiani – ci aveva dato importanza, piccoli e settari gruppi di antifascisti rancorosi ne chiedono l’abrogazione).
“Il Duce Benito Mussolini” non fu certo una invenzione della propaganda fascista…
Davanti a tutto ciò, nel 1924, denunciare la “dittatura in atto” (ma davvero?); le violenze squadriste (quali?); la Milizia in armi, i Decreti limitanti la libertà di stampa, la legge elettorale (tutte iniziative comunque votate da un Parlamento dove i fascisti erano una esigua minoranza); farsi alfieri del ritorno alla “democrazia” (ma quale?), della difesa degli “immortali principi” (ma chi ci credeva?); fu la più chiara evidenza di come l’opposizione antifascista si ponesse al di fuori della realtà del Paese e, per essere in tema spirituale come lo si intendeva allora, della “storia che avanzava”.
E i primi a comprendere la situazione furono ovviamente i liberali. Davanti alla più che certa vittoria del PNF, soprattutto davanti alla soglia del premio di maggioranza al 25%, il PLI votò un ordine del giorno che vale la pena di leggere:
La Direzione nazionale del PLI:
-
- Orgogliosa della guerra combattuta dai liberali contro le forze antinazionali dei socialcomunisti e demagogiche dei popolari e di altri partiti, dalle quali essi si sono sempre distinti, specialmente nelle ore tragiche del dopoguerra;
- […] Coerente all’indirizzo di adesione al Governo Nazionale data con le precedenti e ripetute deliberazioni;
- Delibera di autorizzare i propri iscritti ad accettare la inclusione nella lista governativa e, ove lo ritenga necessario, per combattere e diminuire le forze antinazionali, di concorrere con propri uomini alla conquista dei posti riservati alla minoranza[18].
Era la prima vittoria di Mussolini. I liberali sarebbero stati degli “ospiti” – in qualità di singole persone – nella Lista Nazionale approntata dal PNF, invertendo i rapporti di forza dei Blocchi Nazionali del 1921. E sia chiaro, come nel 1921, il simbolo della lista sarebbe stato il fascio repubblicano.
Le presenze di uomini come Sidney Sonnino, Vittorio Emanuele Orlando, Enrico De Nicola, dimostrarono quanto seguito avesse ottenuto la progettualità politica mussoliniana.
Tra i 356 Deputati della Lista Nazionale ben 247 erano iscritti al Partito Nazionale Fascista (128 gli “antemarcia”, molti anche i giovani sindacalisti fascisti alla loro prima esperienza) e 109 erano “ospiti”, inseriti a titolo personale come politici qualificati o tecnici. Mussolini avrebbe, quindi, nella futura Camera, potuto contare almeno su 247 “fedelissimi”, ai quali si sarebbero aggiunti certamente anche quelli eletti tra le file delle “liste bis”, appositamente costituite per rastrellare altri voti nelle circoscrizioni di Toscana, Lazio-Umbria, Abruzzo-Molise e Puglia. Liste ovviamente “fascistissime”, anche nel simbolo: l’aquila romana troneggiante su un fascio repubblicano orizzontale. Da queste liste usciranno altri 18 Deputati fascisti. Senza contare, poi, tutti gli “ospiti” che all’indomani della loro elezione sarebbero corsi ad iscriversi al PNF. In pratica, Mussolini avrebbe avuto la maggioranza alla Camera in ogni caso, anche se per ipotesi tutti i fiancheggiatori eletti nella Lista Nazionale sarebbero passati all’opposizione.
A Mussolini, al PNF, non serviva certamente una votazione per avere una legittimità. Le rivoluzioni, tutte le rivoluzioni, trovano la loro legittimazione e la loro moralità negli ideali assoluti che professano. Così la rivoluzione francese, così le rivoluzioni socialiste, così anche i colpi di Stato. Semmai le votazioni – attraverso la forma di plebisciti, più o meno pilotati – sono serviti a questi sommovimenti politici per dimostrare al mondo il consenso che avevano. Per tacitare le opposizioni, soprattutto dei Governi esteri. Perché, sia chiaro, le rivoluzioni hanno il loro fondamento nella violenza, creduta da chi la compie “morale”. Più che giustificata dagli ideali assoluti che con essa si affermano. Si tratta sempre di minoranze che spinte da ideali assoluti conquistano con la violenza il potere, assumendo il governo della cosa pubblica e annichilendo – soffocando nel sangue – l’opposizione. Questa si chiama rivoluzione. Francese, socialista, comunista, non importa, il quadro è sempre questo. La violenza politica nasce come teoria proprio a sinistra e dalla sinistra è coltivata, come “leva della storia” (basterebbe leggere, tra i tanti, Marx Sorel e Lenin). Ecco, nel 1923, dopo la Marcia su Roma, cosa era accaduto?
Nulla di tutto questo. Il fascismo si diceva portatore di una rivoluzione, ma l’opposizione era rimasta lì, ferma sulla “porta di casa”, con tutta la sua virulenza, con tutta la sua rabbia, con tutto il suo odio, con tutto il suo rancore. Non vi era stato nessun “lago di sangue”. Mussolini – consapevole di dover “creare” dal nulla un nuovo tipo di Stato – aveva creduto di “navigare” con i risultati del suo buon Governo, facendo comprendere l’ineluttabilità della Rivoluzione fascista. Ma le opposizioni – sconfitte prima di tutto nella guerra civile che avevano fomentato nel 1919 – si ersero a “muro”, non concedendo nulla a Mussolini. Anzi, cercando appoggi all’estero, nello straniero, per mettere in difficoltà il Governo di unità nazionale voluto dall’Uomo di Predappio. Davanti a tutto ciò, Mussolini decise di dimostrare, democraticamente, quale tipo di consenso godeva il PNF e quanto false, tendenziose, criminali, fossero le accuse delle opposizioni. Ecco il senso delle votazioni del 1924, oltre quello della necessità della costituzione di un solido Governo schiettamente fascista: un plebiscito per dimostrare al mondo quanto credito aveva l’azione mussoliniana tra gli Italiani. E questo sarà anche il senso dei due incredibili Plebisciti del 1929 (affluenza: 89,86%; voti favorevoli: 98,34%) e del 1934 (affluenza: 96,46%; voti favorevoli: 99,85%), che annichilirono ogni opposizione straniera al Regime, evidenziando il consenso totalitario di cui godeva Mussolini.
La campagna elettorale
Fu così che dal 27 Febbraio 1924, dopo la presentazione delle liste del giorno prima, si entrò in campagna elettorale. Di là delle adunate fasciste sulle quali ci siamo soffermati in precedenza, gli osservatori notarono lo straordinario attivismo dei militanti del PCdI, altra vera novità della tornata. Dotati di una fede settaria con pochi precedenti e, soprattutto, di larghi mezzi finanziari provenienti dalla Russia bolscevica, allarmarono per il loro straordinario attivismo Questure e Prefetture di mezza Italia. Una campagna elettorale potenziata dall’entrata dei terzini espulsi dal PSI, di cui si evidenziava lo sgretolamento, con gli stessi comunisti che pubblicamente insistevano “sulla negazione di ogni ragione d’essere del Partito Socialista massimalista dal punto di vista programmatico e tattico”[19]. E questi attacchi furono elettoralmente più devastanti di quelli dello squadrismo fascista.
Non meglio andava all’altro partito antifascista di massa: il PPI. Dopo aver perduto l’ala destra, dovette incassare la traumatica circolare del Vaticano che vietava al clero di occuparsi di politica, perdendo quindi la principale cinghia di trasmissione del consenso elettorale fino ad allora utilizzata. Ovviamente, anche in questo caso, il risultato fu devastante, e lo squadrismo fascista nulla c’entrava.
Mentre il PSI e il PPI si “impaludavano”, il PNF riaffermava la sua straordinaria ascesa con una manifestazione a Roma il 23 Marzo 1924, in occasione del quinto anniversario della fondazione dei Fasci: già solo la presenza di 4.000 Sindaci evidenziò il successo e l’impatto della cerimonia.
E gli altri partiti? Provavano, senza convinzione e con tanti, troppi, timori a condurre la loro campagna elettorale che, soprattutto se paragonata alle due tornate precedenti, si svolse tranquillamente ed anche la censura sulla stampa – così fortemente denunciata – non ebbe riscontri oggettivi nella realtà dei fatti. Come ha documentato il Visani:
Al momento delle elezioni il controllo fascista sulla stampa non risultava essere ancora particolarmente pronunciato […]. I grandi giornali liberali italiani, come “Il Corriere della Sera” e “La Stampa”, seguitarono, ancora in questa occasione, nel loro consueto atteggiamento di sorda opposizione il primo e di esplicito attacco al Governo e al fascismo il secondo. Il noto Decreto sulla stampa – presentato nell’Estate 1923 e di fatto applicato solo un anno dopo – che tante perplessità e timori aveva suscitato negli ambienti giornalistici anche vicini allo stesso Governo, in pratica non aveva rappresentato che una inquietante ma sostanzialmente inefficace minaccia. Assai più concreta si era invece rivelata l’azione coercitiva diretta e indiretta del PNF, soprattutto nei piccoli centri di provincia, ai danni di quei piccoli e piccolissimi fogli di opposizione che certo non ebbero vita facile già a partire dal 1923[20].
Sia chiaro: la censura sulla stampa non era una invenzione fascista, i precedenti Governi liberali e democratici ne avevano sempre fatto ampio uso e, in quel 1923, ad essere soppressi furono anche numerosi giornali fascisti di provincia. A rendere “pesante” ogni ulteriore polemica su questo aspetto, fu anche la definitiva precisazione in Parlamento di un liberale del calibro di Antonio Salandra:
«A coloro che rimpiangono la libertà oppressa da nuovo regime io vorrei domandare: credete voi che gli Italiani godono adesso di minore libertà di quella che godevano ai tempi, che paiono ma non sono lontani, degli scioperi imposti, dei servizi pubblici interrotti, del dispotismo delle Leghe, delle terre invase, delle officine occupate, delle case malsicure? Sono codeste libertà elementari che i popoli desiderano e apprezzano molto più che non la illimitata facoltà di tener comizi e cortei, o di fare propaganda di sovversione ed ateismo, persino nei pubblici uffici e nelle scuole pagate dallo Stato. Chi non ha pregiudiziali di dottrina e di partito non giudica i Governi dai proclami o dai programmi, ma dalle opere e dai risultati. E dai risultati di diciassette mesi di Governo fascista il Paese deve essere soddisfatto»[21].
Crollata l’impostazione della vulgata antifascista sulla narrazione delle elezioni del 1924, rimarrebbe aperta la questione delle violenze fasciste, denunciate come abbiamo visto dal Matteotti, e che devono costituire la chiave di volta per comprendere la vittoria elettorale del PNF. Nulla di più falso.
Le violenze fasciste
Abbiamo già dimostrato in uno nostro studio come le violenze squadriste del 1921 non ebbero un reale impatto sulle elezioni del Maggio di quell’anno. Eppure in quelle settimane si raggiunse l’apice della guerra civile (a bassa intensità) che avviluppava l’Italia dal 1919. Pensare che nel 1924 le elezioni fossero state delegittimate da una violenza minore non può corrispondere alla realtà dei fatti, non solo perché lo squadrismo non riuscì a pilotare la votazione, ma prima di tutto perché tutte queste violenze che si denunciano vittimisticamente a destra e a sinistra non ci furono.
Precisiamo meglio. Non vogliamo dire che il tutto si svolse in un clima di festa paesana, con i candidati contrapposti che andarono a votare sotto braccio. Si era appena usciti da una guerra civile (a bassa intensità) con alcune migliaia di morti (da entrambi le parti sia chiaro), gli odi e le tensioni erano ancora forti, il clima era rovente. Ma il PNF non intese minimamente sfruttare la sua posizione di forza per pilotare la votazione scatenando la Milizia. Anzi, fece di tutto perché non si verificasse alcun incidente, con prese di posizione pubbliche e con circolari dettagliate ai Prefetti e ai Questori di tutta Italia. Che poi violenze ed intimidazioni vi furono è tutt’altro discorso, ma queste comunque furono marginali per l’esito generale della votazione.
Se si scorrono le cronache di quei giorni, infatti, non si notano assolutamente spedizioni punitive in grande stile, organizzate e programmate. Semmai semplici risse di paese, tra schieramenti contrapposti in campagna elettorale, come sempre c’erano state e sempre ci saranno in tutte le elezioni dove la passione prende il sopravvento. Risse da osteria, senza nessuna conseguenza, subito sedate dai Carabinieri Reali che non esitarono ad arrestare sovversivi e fascisti, senza nessuna tolleranza.
Ripetiamo: le violenze ci furono. Anche gravi. Bastonature di antifascisti e candidati d’opposizione non furono rare, in diversi centri i partiti per timore di rappresaglie decisero di non tenere comizi (determinando, quindi, la fine delle violenze stesse). Alcuni candidati giunsero anche a ritirare la propria candidatura per paura. Tutto questo riuscì a pilotare l’esito delle elezioni?
Non crediamo. Senza contare i luoghi ove effettivamente le opposizioni poterono fare propaganda e addirittura ospitare in contraddittorio i fascisti, come avvenne a Trieste il 7 Marzo 1924, alla manifestazione del PRI, conclusasi ovviamente senza incidenti di sorta[22]. E non fu l’unico caso, sia chiaro.
Rispetto al passato la violenza squadrista fu confinata solo in alcune regioni, non si verificarono le famose “stragi proletarie” che avevano costellato il Biennio Rosso (quando la guerra civile contrapponeva i sovversivi allo Stato liberale e democratico), né quegli episodi sanguinari diffusi che costellarono il biennio successivo, quando a scendere in campo in funzione antisovversiva furono i fascisti. Non a caso, uno dei fatti più gravi di cui si resero protagonisti gli squadristi in tutto il Centro Italia – e la stampa d’opposizione fu costretta a cavalcare e montare in mancanza di altro – si verificò a Gubbio (Perugia), il 10 Marzo 1924, quando due fascisti schiaffeggiarono il noto oppositore Don Origine Rogari, che in piazza aveva espresso la sua contrarietà al veglione pro poveri organizzato dal locale Fascio in periodo di Quaresima: “Il Canonico Rogari, già Segretario politico del PPI della zona di Gubbio, da tempo svolge a mezzo del giornale locale ‘Il Pensiero Popolare’ azione antifascista, denigrando in special modo tutti coloro che non seguono le direttive del Partito Popolare”. Il 19 Marzo seguente, il circolo giovanile cattolico di Gubbio veniva devastato dagli squadristi che furono prontamente arrestati e messi a disposizione dell’Autorità giudiziaria.
Questo fu “l’episodio più eclatante di tutta la campagna elettorale nell’intera circoscrizione umbro-laziale”![23]
“Nella Capitale, per unanime ammissione delle forze antifasciste, il periodo elettorale era trascorso nella assoluta tranquillità e la cronaca locale dei vari fogli romani segnalò quotidianamente le iniziative elettoralistiche attuate da tutti i partiti nelle settimane precedenti al voto”[24]. Ovviamente, non fu così in tutta Italia: intimidazioni vi furono eccome, ma non furono determinanti per l’esito del voto.
Il fatto che la violenza fascista fu un elemento marginale della competizione si evidenziò dal successo della chiamata alle urne. Era ovvio che più Italiani sarebbero andati a votare, più la lista vincente avrebbe ottenuto legittimità. E anche qui fu un successo. Di solito le elezioni – il famoso “diritto al voto”! – avevano scarsa presa tra le masse e, anche in tempi di grandi passioni, come nel 1919 e nel 1921, solo un Italiano su due votava. Il 6 Aprile 1924, andarono a votare 7.614.451 elettori, per un quoziente pari al 63,1%, con un aumento rispetto alle precedenti di 4,7 punti percentuali!
La vittoria fascista
Ma dove tutti rimasero basiti fu nell’apprendere l’esito di queste votazioni. La Lista Nazionale non vinse, stravinse: con 4.305.936 voti (pari al 60,1%) rese addirittura inutile la Legge Acerbo. Il PNF aveva conquistato la maggioranza assoluta senza nemmeno utilizzare il premio di maggioranza. Oltretutto, a questi voti si doveva sommare il 4,9% (357.552 voti) della Lista “bis” (Aquila con fascio).
Il Presidente del Consiglio uscente Benito Mussolini veniva premiato con 250.000 preferenze. Un vero e proprio plebiscito.
In diversi piccoli Comuni la Lista Nazionale sfiorò il 100% dei voti di preferenza, come – ad esempio – nelle Isole del Carnaro: con il loro 95,83% di schede favorevoli ai candidati del PNF, i Comuni di Lussinpiccolo, Nerezine, Ossero e Cherso vennero eletti ad “avanguardie dei fascismo istriano”[25].
I voti non validi saranno il 5,9% (448.949), con aumento evidente rispetto alle precedenti elezioni del 1921 quando erano stati solo l’1,39%. Ma non si creda che fossero tutti voti dell’opposizione cassati per compiacenza di qualche Presidente di Seggio, ma tale percentuale si raggiunse per il fatto che per la prima volta gli elettori dovevano votare in cabina compilando una scheda, mentre nelle precedenti si presentavano con una scheda già compilata distribuita dai partiti. Senza contare il fatto che molte schede vennero annullate perché tutti vollero scrivere il nome di Mussolini, anche in quelle circoscrizioni in cui non era candidato: nella sola Roma furono alcune centinaia le schede così rese nulle![26]
Non stupirà, quindi, il collasso degli altri partiti: PPI 9% (-11,4 punti); il PSU 5,9% (prima apparizione); il PSI 5% (-19,7 punti); il PCdI 3,7% (-0,9 punti). In totale, la sinistra socialista aveva perso 10,1 punti. In poche parole, i due grandi movimenti di massa di opposizione, quello cattolico e quello socialista, erano stati dimezzati dal voto popolare.
Ancora peggio andarono i difensori degli “immortali principi”: liberali (3,3%), le opposizioni costituzionali (2,3%), i repubblicani (1,9%), i demosociali (1,6%), ecc.
Tutti si erano presentati ed avevano preso i voti che rappresentavano nella realtà del Paese (il PSI e il PCdI non riuscirono a presentarsi per difficoltà nella raccolta firme dovute essenzialmente alla loro deficiente organizzazione in Abruzzo-Molise e in Sardegna, dove fu comunque presente il PSU).
L’analisi del voto dimostrava il plebiscito a favore del PNF nel Meridione (85,9% in Abbruzzo-Molise; 83,7% in Puglia; 76,5% in Sicilia; 76,3% in Campania); l’ottima affermazione in Toscana (77,3%) e in Lazio-Umbria (75,9%); una meno eclatante vittoria in Piemonte (45%), Veneto (45,6%) e Lombardia (49,2%). E, in quest’ultime regioni, avevano potuto condurre la propria battaglia antifascista i più importanti giornali italiani: “Il Corriere della Sera” di Milano e “La Stampa” di Torino. Quotidiani che, sia chiaro, ammisero la vittoria di Mussolini, arrivando a scrivere che “gli elettori avevano votato senza pressione in favore della Lista Nazionale”[27].
Così “La Voce Repubblicana” che chiosava all’indomani delle elezioni:
[…] Forse il fascismo non avrebbe conquistato, se si fosse mantenuto durante tutto il periodo elettorale ai limiti della legalità, la maggioranza relativa su tutti gli altri? Nemmeno per sogno, il nostro spirito di obiettività ci obbliga a pensare e a dichiarare che il Partito Fascista avrebbe raggiunto, anche senza brogli e senza violenze, il quorum[28].
Ma dove si comprende bene il quadro della situazione è nella posizione dell’“Avanti!”, il quotidiano del PSI si ricordi, che evidenziava come le violenze e le intimidazioni fasciste non erano riuscite ad “influenzare la libera manifestazione della volontà popolare”[29]. Il giornale socialista ammetteva che nelle città dell’Alta Italia vi era stata libertà di voto, mentre nel resto della Penisola si erano dovuti registrare assalti e bastonature che, però, non avevano inciso sulla “affermazione” dei partiti proletari[30].
Giacomo Acerbo, estensore della discussa legge elettorale, annoverò tra gli sconfitti di quella tornata elettorale anche la sua legge: «Anche con un sistema più elastico di votazione noi avremmo avuto una maggioranza schiacciante. […] Credo che pochissime volte si sia avuta in Italia una giornata elettorale più calma di quella di ieri»[31]. I fascisti avevano valutato nell’ordine del 27-28% la scontata affermazione della Lista Nazionale… si arrivò a più del doppio!
Mussolini si sentì in dovere di intervenire per ribadire cosa era avvenuto:
«È importante poi notare che la giornata dello scrutinio fu calmissima. Le violenze che furono esercitate, e che presero un carattere di una certa gravità in due soli posti, a Milano e a Pisa, sono post-elettorali. Ho dato degli ordini e tutto è finito. L’Italia è tranquilla. I due milioni di voti all’attivo degli oppositori dimostrano in modo cristallino che vi fu libertà di scrutinio. A Milano, per esempio, i socialisti votarono in massa, ma soltanto nel pomeriggio, quando constatarono la perfetta regolarità delle operazioni. Aggiungo che questa regolarità dipende anche dalla nuova legge elettorale, che toglie qualsiasi eccitamento coreografico, carnevalesco e tumultuoso, come nel passato, e dà uno stile severo»[32].
Nonostante ciò, molti oppositori non accettarono la sconfitta e tentarono di giustificarla inventando un clima di terrore e di violenza imposto in tutta Italia dagli squadristi che aveva condizionato in maniera determinante l’esito delle elezioni. Così Matteotti, come abbiamo ricordato all’inizio di questo articolo. Ma, non a caso, e su ciò si ironizzò anche, il Deputato socialista-unitario trovò da citare ben poche violenze commesse durante la campagna elettorale. Oltretutto, violenze senza nessuna reale conseguenza, tranne che nel drammatico caso di Antonio Piccinini, assassinato dai fascisti, forse nel contesto della rappresaglia per la notizia del grave ferimento di Nicola Bonservizi a Parigi (20 Febbraio 1924), che esulava dalla campagna elettorale in sé.
Quando la notizia del ferimento di Bonservizi giunse in Italia gli squadristi, già impegnati in diverse città nella lotta politica di strada contro i sovversivi, chiesero – ma non ottennero – “mano libera” per liquidare l’opposizione. Si era in campagna elettorale, Mussolini era al Governo, e si chiedeva “moderazione”. Ma in diverse lande, il rassismo ancora aveva un suo forte potere e non mancarono certamente scontri ed incidenti, feriti e morti, da entrambi le parti. È in questo quadro che va inquadrata l’uccisione, a Reggio Emilia, del candidato massimalista Antonio Piccinini (28 Febbraio 1924). Gli squadristi accusati del crimine – arrestati subito dalla Regia Questura per ordine della locale Federazione del PNF e in accordo con la Milizia – saranno assolti per insufficienza di prove nel processo del 1925 e, poi, anche il quello “politico” del dopoguerra (fu riconosciuto colpevole, in questa occasione, un fascista, Vittorio Calvi, ucciso dai partigiani nel Novembre 1944)[33].
Questo omicidio, ci si permetta, rimase avvolto nel mistero. Infatti, la dinamica fu particolarmente articolata. Piccinini venne attirato fuori casa da parte di individui sconosciuti con la scusa di una riunione socialista e, poi, freddato a revolverate. Un omicidio che non aveva una spiegazione logica, subito condannato dal Direttorio del Fascio di Reggio Emilia e non mancarono nemmeno voci – che trovarono addirittura spazio su “Il Resto del Carlino” – che volevano l’assassinio compiuto nell’ambito della sinistra, dove le frizioni e le polemiche erano all’ordine del giorno. Probabilmente, si trattò di un’azione delinquenziale condotta da elementi incontrollabili ai margini del PNF, si disse anche precedentemente espulsi per indisciplina, che sulla scia del ferimento di Bonservizi vollero sfogare la loro rabbia commettendo un ingiustificato delitto di sangue.
Successivamente, i sovversivi dissero di barbarie compiute sul corpo del povero Piccinini che non trovano però riscontro nei giornali dell’epoca, ma che ancora oggi fanno scorrere fiumi di inchiostro, creando indignazione, disgusto, ribrezzo e, naturalmente, rafforzano l’odio antifascista[34]…
I caduti e le vittime tra gli antifascisti
Antonio Piccinini è il Martire dell’opposizione delle elezioni del 1924. Purtroppo, però, non fu il solo a cadere in quelle giornate infuocate, dove gruppi di squadristi incontrollabili, nonostante le direttive del Governo, del PNF e della Milizia, si esibirono in una sequela di aggressioni, spesso conclusesi con la morte dell’oppositore di turno.
Data la necessaria brevità di questo saggio e il lungo tempo che richiederebbe una ricerca documentale dettagliata per singolo episodio – che dovrà pur essere fatta – abbiamo consultato le cronache dell’epoca (essenzialmente le pagine del quotidiano massimalista “Avanti!”, tanto per essere chiari) per avere un quadro di riferimento ed evidenziare ciò che avvenne nella realtà dei fatti.
Forse, vi saranno stati altri morti, mai ricordati da nessuno però – e questo la dice lunga sulla denuncia delle violenze fasciste e il suo strumentale uso – che la nostra ricerca sommaria non ha potuto rilevare, ma questo è comunque il primo elenco di riferimento fatto con cognizione di causa dal quale trarre le conseguenti analisi.
Quella che possiamo considerare la prima vittima è una donna di 65 anni che l’“Avanti!” denunciò essere morta dopo una bastonatura fascista a Grambugo (?) di Palazzago, in provincia di Bergamo, il 28 Febbraio, lo stesso giorno che a Reggio Emilia veniva assassinato il Martire-simbolo delle elezioni del 1924: Antonino Piccinini[35].
A Bassano in Teverina (Viterbo) l’11 Marzo seguente, durante alcuni incidenti, sarebbe morto un operaio non meglio specificato[36].
Il 19 Marzo, a Scicli (Siracusa), il contadino Angelo Giannone, durante una discussione con i fascisti, veniva bastonato mortalmente[37].
Il 26 Marzo, a Iesa di Monticiano (Siena), era assassinato il possidente di simpatie socialiste Giuseppe Balacanti[38].
Il 30 Marzo, a Monte S. Angelo (Foggia), i repubblicani assaltavano i fascisti. Al termine degli scontri rimasero senza vita due uomini, uno era un repubblicano[39].
Il 4 Aprile, a Pescia (Lucca), era ucciso a colpi di pistola il comunista Italo Spadoni[40]. Lo stesso giorno, un altro operaio era ucciso a Catania[41].
Il 5 Aprile, durante un litigio, a Osteria Nuova di Ponte Santo, nelle Marche, tale Bollucini – che aveva ferito un mussoliniano con un forcone – veniva ucciso da un fascista[42].
Il giorno successivo, giorno di elezione, a Tivoli (Roma) i fascisti ammazzavano il comunista Giuseppe Nardi[43]; mentre a Molinella (Bologna) veniva mortalmente bastonato il socialista Angelo Gaiani[44].
Quindi, in totale, tra i caduti/vittime “provocati” dai fascisti durante la campagna elettorale (27 Febbraio – 6 Aprile) sarebbero una decina: undici secondo i generici resoconti dell’“Avanti!”. Tutti episodi che, ripetiamo, devono essere verificati e soprattutto spiegati nelle dinamiche. Comunque, prendiamo – con tutte le cautele del caso – questo dato per le nostre analisi in questo saggio breve.
I caduti fascisti
La vulgata ha diffuso l’idea di un’opposizione inerme e disarmata, tutta legalità e democrazia, annichilita, terrorizzata e sconfitta dalla violenza squadrista: forse le cose non stanno propriamente così. Anche perché, sebbene in maniera minore, anche le opposizioni si esibirono – ove i rapporti di forza lo consentirono – in violenze contro i fascisti. Ne sono esempio i caduti in camicia nera di quella campagna elettorale.
Ad esempio, il 4 Marzo, a Martinengo (Bergamo) erano aggrediti a colpi di falcetto un gruppo di fascisti: rimasero feriti il Segretario del Fascio Bottazzoli e il cieco di guerra Sassi[45]. Lo stesso giorno, a Lugagnano (Piacenza), veniva ritrovato il cadavere di Faustino Guarnieri (?), Presidente dei Balilla di Montezago, ucciso da ignoti[46].
Il 6 Marzo, a Montella (Avellino), un gruppo di fascisti era assalito dai socialisti, ferito il mussoliniano Alberto Vernacchi che si salvava dal linciaggio sparando alcuni colpi di rivoltella[47].
Il 13 Marzo, a Firenze, si registrava il terzo attentato contro i fascisti: Corrado Pollini era stato oggetto di colpi di arma da fuoco sparati da un anfratto, fortunosamente andati a vuoto[48].
Il 15 Marzo, il fascista Nello Marangoni era ucciso da un possidente a Marina di Taglio di Po (Rovigo), durante un giro per riscuotere somme a favore dei Sindacati fascisti[49].
Il 17 Marzo, ad Adegliacco (Udine), veniva trovato senza vita, con il cranio fracassato, il corpo seviziato e la bocca piena di terra, il fascista Giuseppe Gentile, ammazzato la sera prima dai sovversivi al termine della sua prima giornata da Camicia Nera della Milizia. Poverissimo, padre di otto figli, si era potuto arruolare, nonostante le minacce subite dagli antifascisti, grazie alla solidarietà espressa da alcuni camerati (non aveva nemmeno i soldi per acquistare un vestito): “Poco lontano dal corpo giaceva un fazzoletto nero intriso di sangue; non avendo la camicia nera il Gentile se l’era avvolto al collo per simulare una divisa impeccabile”[50].
Lo stesso giorno, spirava a Bologna anche il fascista Abele Faccani, ferito il 7 Marzo precedente da un colpo d’arma da fuoco al collo sparato da un sovversivo con il quale era nato un diverbio per ragioni politiche.
Il 19 Marzo, a Carrara, esplodeva un ordigno contro l’auto del Comm. Ricci, candidato nella Lista Nazionale; mentre nella zona di Firenze, il fascista diciannovenne Dante Lanza cadeva in un’imboscata, trafitto da pallini di fucile da caccia, rimanendo ferito[51]. Nello stesso giorno, a Milano, un nuovo agguato:
Dobbiamo registrare nuovi fatti di violenza contro fascisti isolati, fatti che per il loro carattere di pure e semplice quanto vigliacche aggressioni e per il loro verificarsi in questo periodo elettorale non possono essere voluti che da avversione politica.
Mercoledì [19 Marzo], alle ore 22:30, nei pressi di Via Jenner [a Milano], il Milite fascista Zecchetti Enrico, abitante nella stessa Via Jenner al n. 16 e appartenente alla sezione Tonoli-Bovisa, veniva aggredito e percosso da sette individui. Gli aggressori strapparono di mano allo Zecchetti la rivoltella che questi, per difendersi, aveva potuto estrarre di tasca. Soddisfatti della loro opera, essi poi s’allontanarono a passo veloce presso la campagna. Il fascista è stato costretto in un letto di ospedale per alcuni giorni, avendo riportato contusioni e ferite al capo[52].
Il 20 Marzo, a Palazzola Acreide (Siracusa), un’auto di fascisti impegnati nella propaganda cadde in un agguato. Ne nacque una vera e propria battaglia a colpi di arma da fuoco, interrotta solo dall’intervento dei Carabinieri Reali: dodici i feriti della giornata[53].
Il 21 Marzo, a Precotto (Milano), veniva gravemente picchiato e ferito con un’arma da fuoco il mussoliniano Mario Banti, abbandonato sul selciato perché creduto morto[54].
Il 23 Marzo, nel quinto anniversario della Marcia su Roma, a Quartucciu (Cagliari), durante degli scontri tra squadristi ed antifascisti, rimase ucciso il Capomanipolo della Milizia Cesare Serra, decorato al valore. Un altro fascista, Antonio Nieddu, venne ferito in modo “gravissimo”, ma sopravvisse[55].
Il 25 Marzo, a Barlassina (Milano), il Caposquadra della MVSN Carlo Monguzzi era percosso violentemente da tre sovversivi, poi arrestati dai Carabinieri Reali[56]. Lo stesso giorno, nei pressi di Vergobbio (Varese), il Milite Alberto Torriggiotti era aggredito improvvisamente da due antifascisti a colpi di pugnale[57].
Il 26 Marzo, a Montalbano (Messina), un corteo di fascisti era attaccato da oppositori a colpi di pistola e fucile, facendo nascere uno scontro durante il quale morì una persona (non identificata, ma che utilizzeremo nella nostra statistica)[58]. Lo stesso giorno, nei pressi di Montegrosso (Alessandria), alcuni Militi al comando del Capomanipolo Alessandro Gonella vennero attaccati a colpi di pistola da militanti del Partito dei Contadini: i Carabinieri Reali arrestarono sette antifascisti[59].
Scriveva “Il Popolo d’Italia” il 26 Marzo, evidenziando la virulenza della propaganda antifascista, che si spingeva addirittura a chiedere aiuto allo straniero per la sua battaglia d’odio contro Mussolini:
Poiché il sedicente capo dell’opposizione, On. Amendola, e vari giornali insistono sul tema delle violenze, il “Nuovo Paese” elenca gli ultimi sette episodi, qualcuno cruento, avvenuti nelle ultime 48 ore in danno dei fascisti e scrive:
“Segnaliamo i sette (diciamo sette) episodi delittuosi o violenti contro fascisti registrati in questi giorni nelle cronache delle province, e siamo ansiosi di conoscere in quale modo li commenteranno i giornali dell’opposizione, anzi prettamente la ‘Giustizia’, l’‘Avanti!’, l’amendoliano ‘Il Mondo’ e lo sturziano ‘Popolo’, che ad ogni episodio di violenza più o meno fondatamente attribuito ai fascisti, anche se limitato a qualche manrovescio o randellata, danno fiato a tutte le trombe per accusare il Governo fascista come responsabile. Evidentemente, con lo stesso criterio, si dovrebbe riversare sui dirigenti dei partiti avversi al fascismo la responsabilità diretta dei delitti e delle violenze contro i fascisti, perché la logica ha le sue esigenze consequenziali. E la polemica dalla responsabilità è un coltello a due tagli.
Però dobbiamo rilevare che il bilancio per numero e per gravità di esse, da quando è cominciata la lotta elettorale, sta a dimostrare come il primato delle violenze, delittuoso in questo periodo, spetta agli antifascisti, non già per minore coraggio dei fascisti, poiché nella maggior parte dei casi la violenza contro i fascisti si esercita con imboscate notturne e colpi a tradimento e la violenza fascista con assalti in regola di fronte, ma perché i fascisti sono in certo modo frenati da ordini superiori molto energici: che se nella grande maggioranza dei fascisti, potremmo dire la quasi totalità, non fosse vigile la coscienza del dovere di non rendere difficile l’azione del Governo fascista, si scatenerebbe tale una rappresaglia in grande stile da lasciare il ricordo non nella cronaca ma nella storia”.
Il giornale aggiunge che dirigenti dei partiti antifascisti dovrebbero vigilare i loro aderenti, ma non lo fanno.
“Perché oggi la violenza è la loro ignobile speculazione contro il fascismo e contro il Governo fascista. Hanno bisogno di denunziare all’estero un regime di violenza, nell’illusione di nuocere in qualche modo al Governo fascista, rendendogli difficile il compito, specialmente nei rapporti internazionali, senza scrupolo del danno che potrebbe derivare all’interesse della Nazione, come provano gli appelli al Governo laburista. Per servire le proprie bramosie di rivincita nella politica interna si fanno servi dello straniero o per servire lo straniero appestano di odio l’atmosfera, acciocché produca gli episodi di violenza. Ma documentiamo, registriamo. Verrà il giorno di tirare le somme e di fare i conti”[60].
Lo stesso giorno, a Parigi, moriva dopo la lunga agonia, il fondatore di quel Fascio Nicola Bonservizi, intimo amico di Mussolini, provocando sconcerto e rabbia tra tutti i fascisti.
Il 27 Marzo, ad Azzanello (Cremona), il popolare Giuseppe Talonghi – immediatamente arrestato – feriva gravemente alla testa con una sassata il locale Segretario del Fascio Carlo Casarotti[61].
Nella notte del 29 Marzo, a Parma, attivisti comunisti avevano impedito ai fascisti di affiggere dei manifesti. Subito intervennero le Camicie Nere della Milizia che rintracciarono il gruppo di sovversivi con i quali nacque subito un diverbio. I bolscevichi, vista la mala parata, spararono contro i mussoliniani, colpendone due: i diciassettenni Amedeo Robuschi e Walter Ungherini. Il primo spirò dopo poche ore, il secondo il 2 Aprile seguente.
Il 30 Marzo, a Toritto (Bari), moriva il fascista Francesco Casamassima, ucciso dai comunisti durante un comizio elettorale. Lo stesso giorno, a Monte S. Angelo (Foggia) – come abbiamo accennato – i repubblicani assaltavano i fascisti. Al termine degli scontri rimasero senza vita due uomini, uno era il fascista Pasquale D’Apolito[62].
Il 31 Marzo, a Firenze, il Caposquadra della Milizia Edoardo Lucchesini veniva aggredito a bastonate da una decina di sovversivi, costringendolo al ricovero in ospedale[63].
Il 1° Aprile, a Napoli, esplodeva una bomba Thevenot incautamente finita in alcuni manifesti elettorali del PNF nella sede centrale di Via S. Maria degli Angeli, uccidendo il giovane fascista Giulio Grasso e ferendo gravemente il compagno Luigi Basile. Sulle prime si sparse la voce di un attentato, provocando la fibrillazione di tutti gli squadristi napoletani[64].
Il 3 Aprile, il Vescovo di Tortona (Alessandria) sospendeva a divinis il fascista, decorato di guerra, Padre Nazzareno, del convento dei Frati Minori dell’Annunziata di Novi Ligure, perché aveva tenuto comizi a sostegno della Lista Nazionale in provincia[65]. Lo stesso giorno, a Lizzano (Lecce), un gruppo di “seguaci” dell’Arciprete tornato in paese dopo un “esilio”, bastonava il locale Segretario del Fascio e il fascista Antonio Paparo, provocando la reazione degli squadristi che assalirono la casa del Parroco, venendo da quest’ultimo respinti a colpi di rivoltella, fino all’intervento dei Carabinieri Reali che arrestavano il Sacerdote[66]. Contemporaneamente, a Marcaria (Mantova), il Decurione della Milizia Mario Rosa, Segretario economico dei Sindacati fascisti, cadeva in un agguato: colpito da arma da fuoco stramazzava ferito al suolo e solo l’intervento di alcuni squadristi, che misero in fuga gli aggressori, salvò lo sventurato da più tragiche conseguenze[67].
Il 4 Aprile, a Palermo, dopo che un oratore nittiano aveva pesantemente offeso il Governo, provocando l’intervento dell’Ufficiale di PS, scoppiarono violenti scontri tra manifestanti e Forze dell’Ordine: il lancio di una bomba a mano contro i Carabinieri Reali provocava quattro feriti[68]. Lo stesso giorno, a Genzano, i comunisti assaltarono la sede del Fascio – deserta – ferendo a coltellate il Milite Antonio Di Malo che, con l’aiuto di un operaio fascista, riuscì comunque a respingere gli aggressori[69].
Il 5 Aprile, a Varese, era aggredito selvaggiamente dai sovversivi l’attivista del PNF Giuseppe Santostefano al quale fu sfondato il cranio. Morì dopo quattro ore di agonia in ospedale. Lo stesso giorno, nei pressi di Narni, alcuni fascisti impegnati in un volantinaggio vennero aggrediti a colpi di roncale e fucilati dai sovversivi, provocando il successivo intervento degli squadristi che arrestarono gli antifascisti consegnandoli ai Carabinieri Reali[70]. Lo stesso giorno, a Napoli, dei Militi vennero alle mani con degli oppositori che non esitarono a tirar fuori coltelli e rivoltelle, provocando il ferimento del Milite Capodanno prima dell’intervento dell’Arma che arrestava il sovversivo autore del tentato omicidio[71].
Sempre il 5 Aprile, a Greco (Milano), il Segretario del Fascio, Rag. Marengo, dopo essere stato invitato a un contraddittorio dai socialisti sfuggiva ad un agguato a colpi di fucile[72].
Nella notte tra il 5 e il 6 Aprile, a Gualtieri Sicaminò (Messina), dopo che un fascista era stato bastonato dai demosociali, si verificarono violenti scontri tra le due fazioni[73]. Contemporaneamente, a Palermo, una bomba esplodeva davanti alla casa dove era ospitato l’On. Orlando, candidato della Lista Nazionale[74].
Il 6 aprile, giorno delle votazioni, a Cureggio (Novara), in un conflitto con i comunisti venne colpito mortalmente il Milite della Milizia Modesto Tizzoni (che morirà il giorno successivo) ed altri mussoliniani furono feriti. A Tizzoni fu conferito un encomio solenne del Comando Generale della MVSN e una Medaglia di Bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione:
Di servizio coi Reali Carabinieri alla sezione elettorale, alle grida di soccorso di alcuni fascisti aggrediti dai comunisti usciva sulla piazza e, mentre prestava soccorso a un Milite che giaceva a terra gravemente colpito alla testa, veniva lui stesso colpito gravemente da una pallottola di rivoltella. Dopo poche ore moriva all’ospedale dove era stato prontamente ricoverato, esprimendo la sua gioia di dare la vita per la Patria[75].
Il 6 Aprile, a Crocetta (Rovigo), era gravemente ferito a colpi di fucile da comunisti, in un’imboscata, il fascista Carlo Mola[76]. Lo stesso giorno, a Crescenzago (Milano), tre fascisti furono oggetto di un’imboscata con colpi d’arma da fuoco fortunosamente andati a vuoto.
Sempre il 6 Aprile, a Greco (Milano), alcuni colpi di pistola furono esplosi da un sovversivo contro il fascista Angelo Ermarini[77].
Problematico ricostruire cosa avvenne nella giornata elettorale a Monteverde e San Sossio Baronia, in provincia di Avellino, località nelle quali l’“Avanti!” e “Il Popolo d’Italia” denunciavano l’uccisione di due fascisti, dei quali non è stata trovata documentazione[78]. Sempre il quotidiano socialista dava notizia di ferimenti di fascisti da parte di popolari (a Barbarino di Mugello e Urago Mella): anche in questo caso, citiamo i fatti solo per evidenziare che, ovunque fu possibile, anche gli antifascisti commisero delle violenze.
Quindi, durante la campagna elettorale del 1924 (27 Febbraio – 6 Aprile), i fascisti ebbero almeno dieci caduti, dei quali è stata possibile ritrovare una documentazione certa: Giuseppe Santostefano, Nello Marangoni, Giuseppe Gentile, Abele Faccani, Cesare Serra, Francesco Casamassima, Pasquale D’Apolito, Modesto Tizzoni, Amedeo Robuschi e Walter Ungherini
Degli altri non ci sono riscontri documentali e non li abbiamo considerati. Infatti, se nel caso dei caduti antifascisti abbiamo scelto di inserire “a prescindere” nella nostra statistica tutti quelli denunciati dall‘”Avanti!”, per quelli fascisti abbiamo fatto una scelta molto restrittiva. Ad esempio, sul fascista Vito Atzeli – citato da Mussolini come ucciso a San Vito (Cagliari) il 29 Marzo – nulla risulta agli atti (forse assassinato per cause successivamente classificate come non politiche). Così come sul fascista Leonardo Brescia – citato invece dall’“Avanti!” e da “Il Popolo d’Italia” – assassinato da un oppositore costituzionalista, il 6 Aprile a Montebardo (Monteverde?), in provincia di Avellino o de L’Aquila[79]. In questi dieci caduti fascisti, ovviamente, non sono stati inseriti neanche i due mussoliniani dati per morti a Monteverde e San Sossio Baronia (Avellino), mancando riscontri oggettivi nei documenti dai noi consultati; Faustino Guarnieri (?), del quale non si hanno ulteriori notizie; e Nicola Bonservizi, ucciso a Parigi in altro contesto politico.
Ripetiamo, almeno dieci caduti fascisti durante la sola campagna elettorale (sia chiaro: di mussoliniani ammazzati dai sovversivi, prima e dopo quella tornata, ve ne furono altri, anche se sono stati cancellati dai libri ed esulano lo spazio temporale che si prende in considerazione in questo saggio breve).
Le “faide” interne
Per comprendere le dinamiche della violenza della campagna elettorale del 1924 un discorso a parte meritano le frizioni che da tempo si registravano all’interno del “mondo fascista”, non solo con i Legionari dannunziani e l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia – che da tempo contestavano la connotazione reazionaria dello squadrismo, elevandosi a custodi dei valori del primo fascismo e schierandosi al comando di quello che consideravano il vero Duce: d’Annunzio –, ma anche con il magmatico mondo del dissidentismo: ras e squadristi che volevano conservare il loro potere locale e spingere sulla rivoluzione da tempo annunciata ma mai realizzata.
Durante la campagna elettorale vi fu un Ardito ucciso da parte degli squadristi. Si tratta dell’
Ardito Antioco [Corgiolu] dell’ANAI dannunziana, ucciso in uno scontro con gli squadristi della “Battisti” a Milano il 16 Marzo 1924, dopo un precedente screzio che si era verificato tra i due gruppi: l’episodio fu condannato dal PNF nella persona del Federale Mario Giampaoli e gli Arditi di Guerra fascisti, guidati da Albino Volpi, parteciparono commossi e addolorati al funerale del “compagno di trincea”, rendendo “il doveroso tributo di fratellanza e d’affetto di vecchi fratelli d’armi”[80].
Ovviamente, arruolare l’Ardito Corgiolu tra gli antifascisti è una forzatura, in quanto l’ANAI era antimussoliniana quanto antisocialista, sia chiaro[81]…
Il 17 Marzo, a Città di Castello (Perugia), il Segretario del Fascio Ezio Torrioli era ucciso da un Milite della Milizia durante un diverbio[82]; similmente a quanto era avvenuto a Villamarina (Avellino) il 9 Marzo precedente, dove un espulso dalla Milizia, tale Giuseppe Giello, era ucciso durante un diverbio dal Segretario fascista Antonio Maruzzo[83].
Il 24 Marzo, a S. Bartolomeo in Bosco (Ferrara), il Milite Antonio Zappaterra uccideva l’iscritto ai sindacati fascisti Gaetano Nanni[84].
Simile episodio si verificò anche a Baricetta di Adria (Rovigo) il 4 Aprile: a morire tale Pietro Rossi, poco prima espulso dal Fascio e dalla Milizia.
Il 6 Aprile, a Tromello (Pavia), veniva ucciso il fascista dissidente Vittorio Ottone[85].
In totale, quindi, altri sei morti registrati nel periodo della campagna elettorale, anche se solo nel caso di Vittorio Ottone si può trovare un collegamento diretto con la tornata.
Un bilancio per la storia
Il totale dei morti per cause inerenti alla campagna elettorale fu quindi di 23 individui, così identificati: 11 fascisti; 11 antifascisti; 1 un estraneo (Montalbano, 26 Marzo).
Di conseguenza, si può ben affermare che le “gravi violenze” denunciate da Matteotti e compagni – rispetto ai tempi e al clima con cui si erano svolte le precedenti consultazioni – non vi furono in quella estensione e, comunque, non poterono condizionare l’esito delle votazioni. E qui dobbiamo ritornare – per comprendere quanto abbiamo sostenuto fino ad adesso – su cosa era accaduto nei mesi precedenti e che si cerca sempre di dimenticare.
Nel 1920, il bilancio della guerra civile (a bassa intensità) che i massimalisti avevano provocato nell’attesa messianica dell’avvento della rivoluzione bolscevica assommava ad oltre 450 morti. Una lotta che aveva opposto i sovversivi allo Stato liberale e democratico. Assenti i fascisti, ancora pochi e in cerca di una dimensione politica[86]. Tutto ovviamente cambiò quando, nelle prime settimane del 1921, sorse come un travolgente fiume in piena lo squadrismo, naturale reazione alle barbare violenze del Biennio Rosso: fu “un anno terribile, contrassegnato dalla guerra civile (a bassa intensità) che aveva opposto i sovversivi ai fascisti, al fianco dei quali, sempre più spesso, erano scese le Forze dell’Ordine. Dai 450 caduti/vittime registrati nel 1920 si era passati a 764 morti. 234 erano i fascisti caduti nella lotta”[87].
E proprio nel 1921 vi erano state le ultime elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati. Solo tre anni prima, quindi. E cosa era successo?
“Quella fu una durissima Campagna elettorale (7 Aprile – 15 Maggio), tenendo conto della guerra civile (a bassa intensità) tra fascisti e sovversivi che si trascinava ormai da più di tre mesi. In quei quaranta giorni si contarono 161 caduti/vittime tra le opposte fazioni, comprese le Forze dell’Ordine”[88].
Se nella tornata del 1924 si erano registrati una ventina di morti – 23 se vogliamo essere “estensivi” –, nel 1921 i morti erano stati ben 161!
Parlare di “gravi violenze” per la campagna elettorale del 1924, dimenticando cosa era accaduto in quella del 1921 e, soprattutto, cancellare tutte le intimidazioni e le prevaricazioni compiute dai sovversivi nel Biennio Rosso 1919-1920 – durante il quale si erano svolte due votazioni a carattere nazionale – forse è una forzatura, se non proprio una mistificazione ideologica tipica della sinistra italiana, per la quale si ha libertà fin quando parla solo lei, si ha giustizia fin quando la decide lei, si ha una legittima vittoria elettorale solo quando vince lei.
Ripetiamo: violenze fasciste non mancarono in quel 1924, come non mancarono quelle di marca sovversiva, ma oltre ad essere marginali, non possono essere prese in considerazione per evidenziare l’illegittimità del risultato elettorale. Così come poco valse il “terrore preventivo” che molti antifascisti ebbero per la sola presenza della Milizia che “vegliava in armi” fuori ai seggi. Infatti, tutti poterono recarsi tranquillamente a votare e, nel segreto della cabina elettorale, votare per chi vollero. Il dato dell’affluenza smentisce anche questa speculazione politica della sinistra.
Vi furono, certamente, paesi ove ciò non fu possibile, dove gli oppositori non poterono votare o non si recarono alle urne per terrore, ma non si può certamente generalizzare a tutta Italia questi casi. E dobbiamo affermare anche un’altra cosa: che se anche vi fossero state violenze su vasta scala, organizzate e pianificate dal PNF, queste non avrebbero potuto alterare, se non marginalmente, l’esito della votazione. Infatti, le elezioni del 15 Maggio 1921 si svolsero in piena guerra civile, con sanguinosi scontri quotidiani, con spedizioni punitive a largo raggio, pestaggi, agguati sovversivi e rappresaglie fasciste come mai era avvenuto nella storia d’Italia. Ebbene, anche in quel clima, chi volle votare andò a votare e votò chi volle.
Sbaglia chi crede che la guerra civile (a bassa intensità) ebbe un riscontro oggettivo sul risultato delle elezioni [del 1921] falsandole. Anche perché nella cabina elettorale ognuno poté votare per chi volle. Anche se ovviamente non mancarono violenze ed intimidazioni. Tra i più titubanti, tra coloro che ben si guardavano per timore o viltà a schierarsi, il voto era certamente il gesto più semplice per dimostrare tutta la propria indignazione contro lo squadrismo. Ebbene, questa indignazione, sia detto per inciso, non ci fu. Le azioni squadriste furono applaudite ed ebbero la funzione di aumentare il consenso elettorale per questo o quel Ras locale.
Se i Blocchi Nazionali “vinsero”, non fu merito certamente della violenza antisocialista che impedì al PSI di fare campagna elettorale, fu esclusivamente perché, in quella Primavera [del 1921], tutti i partiti “costituzionalisti” si erano alleati su chiare parole d’ordine, non presentandosi divisi. Ma in realtà, non si verificò nessun travaso di voti, né un crollo di questo o quel partito come, per l’appunto, se fuori non divampasse la guerra civile. A meno che non si voglia sostenere che il PSI, senza la violenza fascista, avrebbe aumentato grandemente i suoi voti, cosa molto difficile da dimostrare.
Cominciamo nel dire che nel Maggio 1921 l’affluenza alle urne – sebbene molto bassa, come sempre, tanto per far capire quanto agli Italiani interessasse il diritto al voto – fu maggiore di quella registrata nel Novembre 1919, da 56,6% a 58,4%, ossia maggiore di 1,8 punti. E questo la dice lunga sul clima di terrore che si viveva. Il clima di terrore avrebbe dovuto tener lontano l’elettore dalle urne e, invece, così non fu.
Ma dove si vede meglio questa “astrazione” dalla guerra civile in corso fu nel risultato dei singoli partiti. Infatti, il PSI – che si dipinge come un “agnello sacrificale”, grondante di sangue sull’altare della violenza fascista – si riconfermò primo partito in Italia, con il 24,7% dei voti. Si dirà che rispetto alle precedenti elezioni dovette subire la perdita di 7,6 punti. Ma si deve considerate anche l’attacco subito ai fianchi dai comunisti, che presentarono una propria lista in forte opposizione al PSI, conquistando un 4,6%. Quindi, la perdita netta si riduce a solo 3 punti, che dovrebbero contenere non solo i delusi dalla fallimentare politica massimalista degli ultimi due anni, ma anche tutti gli astensionisti socialisti che decisero di non presentarsi alle elezioni: tra questi la fortissima Federazione di Reggio Emilia, che non partecipò alla competizione elettorale per protesta contro le violenze fasciste.
Possiamo quindi dire che lo squadrismo – in cinque mesi di durissima battaglia – non intaccò minimamente la potenza elettorale del PSI, forse ne fermò l’avanzata. Ma chi può dirlo?
Il PPI si riconfermò secondo partito in Italia conquistando il 20,4% dei voti, con una leggera flessione di 0,1 punti, ma conquistando più Deputati (+8).
Al terzo posto il Blocco Nazionale con il 19% e 105 seggi così suddivisi: liberali-giolittiani 59; fascisti 35 (+2 eletti in liste fasciste indipendenti); 12 nazionalisti. Benito Mussolini, venne eletto addirittura in due collegi, risultò il terzo candidato per numero di preferenze conquistate in tutta Italia (collegio Milano-Pavia: 124.918 voti; collegio Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 172.491 voti). E ciò la dice lunga sul consenso suscitato dall’azione squadrista in atto[89].
Davanti a tutto ciò anche il famoso discorso matteottiano con il quale abbiamo aperto questo nostro saggio breve risulta depotenziato in molti dei suoi aspetti. Del resto, ebbe modo di rispondere lo stesso Mussolini, nel suo (mai citato) intervento alla Camera del 7 Giugno 1924, tre giorni prima del nefasto sequestro di Matteotti e del suo accidentale assassinio da parte di una squadra di maldestri squadristi:
«Si sapeva benissimo che l’oratore comunista ci avrebbe recitato ancora una volta il suo rosario a base di dittatura proletaria, di dittatura degli operai e dei contadini, o, per meglio dire, di coloro che rappresentano gli operai ed i contadini, ed è giusto che sia così, e non potrebbe essere diversamente; che l’oratore massimalista avrebbe cercato di salvarsi dalla duplice pressione degli unitari e dei comunisti; che gli unitari avrebbero cercato di rinverniciare il loro sedicente patriottismo, perché è loro necessario in quest’ora; che l’oratore dei repubblicani, di cui non abbiamo mai disconosciuto lo spirito di sacrificio e di dedizione alla Patria, avrebbe cercato di mantenersi in oscillazione tra questi sentimenti, che sono patrimonio di quel partito, e gli ultimi avvenimenti che hanno spinto il Partito Repubblicano nell’Alleanza del Lavoro e accanto ai negatori della Nazione.
Sapevo benissimo che l’oratore dei popolari avrebbe tenuto un discorso acido nel quale fermentano tutti i rancori non ancora espulsi dall’organismo di un partito, che ha sempre fatto ottimi affari al Governo, e che da dodici mesi non ne fa più.
E mi aspettavo anche il discorso del rappresentante della democrazia sociale. Sapevo benissimo che era spuntato all’Onorevole Di Cesarò il dente del teatro, ma non sapevo, Onorevole Duca, che vi fosse spuntato il dente viperino della maldicenza meschina! Sapete a che cosa alludo!
[…] Veniamo alle elezioni italiane. Qui si è fatto il processo alle elezioni del 6 Aprile. Ebbene, guardate, io voglio ragionare per assurdo e mettermi sul vostro stesso terreno polemico. La Lista Nazionale ha riportato 5 milioni di voti, cioè 4 milioni e 800 mila. Ebbene, io sono disposto a regalarvi un milione e 800 mila voti; ma voi dovete sempre ammettere che tre milioni di cittadini coscienti e che, sommati, raggiungono i vostri voti messi insieme, hanno votato con piena coscienza per il Partito Nazionale Fascista. Non vorrete sofisticare, io spero, ad esempio, sui 250 mila voti di preferenza da me riportati in Lombardia.
Voi dite che non avete potuto tenere dei comizi. Voi credete che essi portino dei vantaggi? Credo che il partito, che non tiene affatto comizi elettorali, abbia un vantaggio sugli altri.
I comizi elettorali sono quella tal cosa in cui tutti intervengono, fuorché gli elettori. Nel 1919 io ero acclamato nei comizi che chiamerò travolgenti di Piazza Dante e di Piazza Belgioioso. In realtà non vi fu di travolgente che la mia disfatta elettorale.
Non vorrete meravigliarvi per le mie dichiarazioni circa la forza. Sono stato sincero. Una rivoluzione può essere convalidata dal responso del suffragio elettorale, ma può farne anche senza. In ciò è il carattere tipico di una rivoluzione.
Voi dite che sono state commesse orribili violenze. Non è vero. In fondo l’Onorevole Matteotti ha citato due casi, che sono discutibili, quelli di Melfi e di Iglesias, che non credo vogliate far passare nella storia mondiale.
[…] Documenterò per dimostrare come uguale sia l’atteggiamento dei partiti in ogni elezione, e cioè il partito vinto si scaglia sul partito vincitore e tenta di infirmare il responso delle elezioni. Ciò è avvenuto prima della guerra, ciò è avvenuto dopo la guerra. Sentite se non pare di leggere un discorso dell’Onorevole Matteotti!
“Il Lavoratore”, diretto da un signore che io non voglio nominare per non fargli della réclame, ma che l’Onorevole Amendola conosce, scriveva: “Hanno votato i morti, gli emigrati, le donne, i fanciulli e le stesse persone si sono recate a votare non si sa quante volte. I rappresentanti delle liste avversarie a quella governativa furono allontanati dai seggi e minacciati. In ogni sezione si votava alla presenza del pubblico e non in cabina. Ogni voce di protesta era tosto soppressa”.
E faccio grazia di tutto il resto. Io non ci credo a questo imbottimento di crani. Credo che si siano moltiplicati per mille, come negli specchi dei cinematografi, dei piccoli episodi inevitabili in ogni elezione. Ma voi potete fare la distinzione tra queste elezioni del dopoguerra e quelle di prima della guerra. Prima della guerra si faceva di peggio.
[…] Voi avete ricordato un vostro morto: l’Onorevole o non ancora Onorevole Piccinini. Io mi voglio associare sinceramente al vostro compianto e al vostro ricordo e vi debbo ricordare anche che se i colpevoli di quel delitto barbaro furono arrestati e sono dentro, lo si deve all’atteggiamento e alle ricerche degli stessi fascisti di Reggio Emilia. Ma io mi associo con animo, ripeto, schietto e sincero alla vostra deplorazione e al vostro rimpianto.
Ma voi mi permetterete altresì di leggervi un piccolo elenco, un modesto elenco di morti fascisti durante la campagna elettorale. Sono 18 i morti e 147 i feriti.
[…] E potrei continuare in questo elenco, ma credo di dispensarvi da questa rievocazione tristissima, fatta per dimostrare come qualmente siate in errore, in un errore che, se continuato, diviene colpa imperdonabile, quando fate ricadere tutti gli atti di violenza sul Fascismo. Quali sono le manifestazioni di questa opposizione? Siamo ancora alla disputa sul consenso e sulla forza. Ho già dimostrato che questa è una discussione perfettamente capziosa. Io nego ancora una volta che nella storia, così come ci è stata tramandata, si siano mai avuti dei regimi esclusivamente consensuali.
Accanto al consenso c’è sempre stata la forza, necessariamente, e non poteva essere che così. Voi negate questo consenso. Ebbene, questo consenso è pur tuttavia documentato. Documentato dalle manifestazioni del popolo. Esistono, queste manifestazioni; qualcuno di voi le ha viste certamente. Documentato dalla esistenza di settemila Fasci con settecentomila iscritti. Non si è mai visto da che l’Italia è Italia un movimento politico che avesse una così immensa diffusione in tutto il Paese.
[…] Si dice che in Italia non c’è libertà. Lasciamo stare adesso le discussioni sulla libertà. Non si è ancora definito il concetto di libertà, e forse non si definirà mai. Voi stessi, quando si tratta di libertà, non vi trovate d’accordo, perché evidentemente la libertà dei comunisti non ha nulla a che fare con quella dei democratici: anzi, i comunisti tengono a dichiarare (e fanno benissimo, e ci giova e ci giovano) che queste sono teorie dell’89 e che la rivoluzione dell’89 è andata benissimo per quel tempo, ma non è detto che debba costituire il vangelo eterno per la vita di tutti i popoli.
Ma io vi dimostro come qualmente la libertà in Italia sia sconfinata.
In Italia, dopo 20 mesi di Governo fascista, è permesso di stampare un giornale a Roma, in data 11 Maggio, che dice: “L’epoca delle barricate si profila imminente all’orizzonte politico, e noi dobbiamo lavorare a renderla più prossima possibile”.
Sono dei pietosi desideri, ma è evidente come questo si possa stampare a Roma, dove si stampa pure regolarmente un giornale anarchico.
Un altro giornale sindacalista comunista, nel numero speciale del 15 Maggio, dice: “Convinti che l’abbattimento della dittatura fascista sarà in Italia conseguenza di un periodo di aperta guerra civile, dobbiamo curare nel Partito e nella parte migliore delle masse l’allenamento necessario a guardare con freddezza a questa necessità e ad affrontarla con forze e mezzi adeguati”.
Un altro giornale, sempre di Roma, “L’Italia Libera”, n. 4, dice: “In realtà noi ci opponiamo, noi combattiamo contro una truffa organizzata ai danni del popolo italiano”.
Mi si accusa, fra l’altro, di aver fucilato nientemeno che sessantatremila operai italiani!
Contro questa campagna diffamatoria e velenosa, che purtroppo ha prodotto all’estero anche le sue vittime, il Governo è stato costretto a premunirsi per impedire che il contagio dilagasse fra le nostre popolazioni, prescrivendo il sequestro di numerosi giornali all’atto dell’entrata nel Regno, giusta la facoltà contenuta nelle disposizioni sul servizio della corrispondenza.
Ma cònsona a quella all’estero è l’attività calunniosa e colpevole che l’opposizione svolge nel nostro Paese e della quale abbiamo dato qualche esempio nella prosa dianzi citata.
Essa, per sviare le tracce dell’autorità, si camuffa, ricorre ai pseudonimi, si serve di cifrari per lo scambio di notizie, di appositi segnali per le riunioni, raccoglie e nasconde armi in luoghi insospettati, riorganizza le file delle scompaginate associazioni di classe, servendosi della costituzione delle così dette “cellule di officina” e “cellule d’azienda” per la campagna, le quali costituiscono la base ed il perno della riorganizzazione politica dei partiti sovversivi; si serve, insomma, di tutti gli espedienti e stratagemmi per tenere vivo lo spirito di avversione e di ribellione nelle masse e preparare la riscossa.
E, quel che è notevole, i partiti sovversivi in Italia dimostrano di possedere larghi mezzi di misteriosa provenienza, come rilevasi dal lusso di stampa che si permettono con la pubblicazione e diffusione di numerosi giornali ed opuscoli.
È risaputo che in occasione dell’arresto di Bordiga – avvenuto nel Febbraio 1923 – fu scoperto a Genova la sede clandestina dell’Esecutivo comunista ed in tale circostanza si addivenne al sequestro di un importante e voluminoso materiale, in base al quale emerse:
-
- che i fondi del movimento comunista provenivano dal Rote Hilfe di Mosca pel tramite della Sezione di Berlino. Nella corrispondenza sequestrata si ha traccia di 25.000 Sterline, di cui però buona parte, nel 1922, non raggiunse la destinazione;
- che il territorio italiano era stato diviso in zone;
- che erano stati sottratti vari fascicoli dall’ufficio riservato della Questura di Milano;
- che erano stati sottratti alcuni documenti, di natura riservata, al Comando della Divisione Militare di Ravenna;
- che erano state diramate istruzioni ai “fiduciari” per lo spionaggio e la propaganda nell’Esercito e nella Marina;
- che moltissime armi e munizioni furono distribuite e parecchie somme furono inviate ai fiduciari per acquistarne.
E i partiti sovversivi continuano ancora a dire che sono vittime, che in Italia non c’è libertà, che il popolo geme sotto questa pesante catena.
[…] Si parla ancora di illegalismo. Ma è finito da tempo: e quando mi hanno detto che a Pisa erano avvenute cose gravi, non solo io ho destituito il Prefetto, ma ho dato l’ordine di mettere in carcere tutti i colpevoli.
Lo stesso è avvenuto in altre località, e voi lo sapete; quindi io non faccio che ripetere.
L’illegalismo è in evidente diminuzione. Gli stessi socialisti, che una volta occupavano le pagine dei loro giornali per raccontare come in quasi ciascuno degli ottomila villaggi d’Italia erano avvenuti scioperi e violenze, oggi tacciono! Ed è bene che sia così! Ne sono contentissimo!
Quanto poi alla normalizzazione, bruttissima parola venuta dal gergo dell’industria dove significa standardizzazione, che cosa significa?
Parliamoci chiaro! Significa tornare come prima? Significa vedere una Camera che esautora il potere esecutivo, significa vedere una Camera irrequieta, insofferente, che dà l’assalto alle famose diligenze di cui si parla nelle cronache vecchie del tempo?
Significa riprendere il ritmo di una vita che la Rivoluzione ha evidentemente spezzato?
Se tutto ciò significa, dichiaro che sono contro questa normalizzazione […].
L’opposizione ci deve essere! Se non fosse a sinistra sarebbe tra noi; quindi è preferibile che sia su quei banchi piuttosto che dividere le nostre file. L’opposizione è necessaria; non solo, ma vado più in là e dico: può essere educativa e formativa.
[…] Non è l’opposizione che ci irrita. È il modo della opposizione.
Qualche volta l’opposizione è opposizione piena di rancori, che si mette in un angolo: ha perduto il treno e sta allo spigolo della stazione ad aspettare il successivo!
[…] Se voi escludete dalle vostre possibilità di domani il conato insurrezionale, e non avete avuto mai l’animo di blanquisti – ve ne ho dato io un po’ di blanquismo nel 1912 e nel 1913 – voi dovete certamente fare l’esame di coscienza e dire: “Che cosa succede di noi?”. Perché non si può essere assenti, non si può rimanere sempre estranei; qualche cosa, bene o male, bisogna dire o fare, una collaborazione positiva o negativa deve esserci, nel vostro stesso interesse; perché il giorno in cui restate assenti, indifferenti, come gli stiliti che stanno sulle colonne ad aspettare il miracolo, voi vi sarete condannati all’esilio perpetuo dalla storia […]».
Alla vigilia della gravissima crisi che seguirà al sequestro e all’assassinio di Matteotti – che ebbe l’unico risultato di accelerare il processo rivoluzionario fascista – Mussolini liquidava tutte le accuse mossegli contro dalla rancorosa opposizione ideologica della sinistra italiana, lasciando aperta la porta a quegli uomini che, preso atto della realtà e delle necessità del Paese, fossero pronti a collaborare per la soluzione della questione sociale; quell’apertura a sinistra che, sempre, fin dall’Estate 1919, l’Uomo di Predappio aveva nella sua agenda politica. Ma questa è tutta un’altra storia che si concluse, per l’appunto, con il delitto Matteotti.
Possiamo così terminare questa nostra riflessione sul trionfo elettorale fascista del 1924, premessa per la creazione di un primo vero Governo fascista ma, soprattutto, simbolo del consenso di massa – senza precedenti nella storia d’Italia – che Mussolini seppe consolidare sulla sua persona. Un plebiscito, certamente. Democratico.
Pietro Cappellari
(Direttore della Biblioteca di
Storia Contemporanea “Goffredo Coppola”)
NOTE
[1] Cfr. i fondamentali E. Tiozzo, Matteotti senza aureola. Il politico, Aracne, Roma 2005; e E. Tiozzo, Matteotti senza aureola. Il delitto, BastogiLibri, 2017.
[2] Cfr. Perentorie disposizioni del Duce, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 70, 21 Marzo 1924.
[3] Cfr. La clamorosa disfatta di Amendola a Sarno, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[4] Cfr. A. Visani, La conquista della maggioranza. Mussolini, il PNF e le elezioni del 1924, Fratelli Frilli Editori, Genova 2004.
[5] Cfr. “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 64, 14 Marzo 1924.
[6] Ibidem, pag. 39.
[7] Cfr. A. Scianca, Quando il fascismo concesse il voto alle donne, IlPrimatoNazionale.it, 3 Febbraio 2018.
[8] A. Visani, La conquista della maggioranza, cit., pag. 41.
[9] Cit. in Ibidem, pag. 43.
[10] Ibidem, pag. 64.
[11] Cfr. “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 57, 6 Marzo 1924.
[12] Cfr. A. Visani, La conquista della maggioranza, cit., pag. 49.
[13] A. Landuyt, Le elezioni del 1924. Le sinistre dall’astensionismo alla partecipazione, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, a. XXI, n. 95, Aprile-Giugno 1969, pag. 46.
[14] Cfr. A. Visani, La conquista della maggioranza, cit., pag. 63.
[15] Ibidem, pag. 66.
[16] Ibidem, pag. 74.
[17] Ibidem, pagg. 76-77.
[18] Cit. in Ibidem, pag. 89.
[19] Ibidem, pag. 97 nota 20.
[20] Ibidem, pagg. 118-119.
[21] Cit. in Ibidem, pagg. 122-123.
[22] Cfr. Comizio repubblicano, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 59, 8 Marzo 1924.
[23] A. Visani, La conquista della maggioranza, cit., pag. 143.
[24] Ibidem, pag. 165.
[25] Cfr. Nelle Isole del Carnaro 4.439 voti su 4.632 votanti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 86, 9 Aprile 1924.
[26] Cfr. Centinaia di schede annullate a Roma, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[27] Cit. in A. Visani, La conquista della maggioranza, cit., pag. 167 (corsivo nostro).
[28] Cit. in Ibidem, pag. 169.
[29] Cit. in Ibidem, pag. 170.
[30] Cfr. Noi, i morti, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 85, 8 Aprile 1924.
[31] Cit. in A. Visani, La conquista della maggioranza, cit., pag. 171 nota 48.
[32] Cit. in Ibidem, pag. 181.
[33] P. Cappellari e L. Bonanno, Nicola Bonservizi. Fondatore del Fascio di Parigi, vittima dell’antifascismo (1890-1924), Herald Editore, Roma 2024, pagg. 26-27.
[34] Cfr. “Avanti!”, a. XXVIII, n. 53, 1° Marzo 1924; “Avanti!”, a. XXVIII, n. 54, 2 Marzo 1924; “Avanti!”, n. 55, 4 Marzo 1924.
[35] Cfr. Altre violenze fasciste nella Bergamasca, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 52, 29 Febbraio 1924.
[36] Cfr. Un compagno assassinato, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 62, 12 Marzo 1924.
[37] Cfr. Contadino assassinato a Scicli, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 69, 20 Marzo 1924.
[38] Cfr. Il possidente assassinato dai fascisti è un vecchio compagno, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 75, 27 Marzo 1924.
[39] Cfr. Grave conflitto in provincia di Foggia, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 80, 2 Aprile 1924.
[40] Cfr. Operaio ucciso a Pescia, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 83, 5 Aprile 1924.
[41] Cfr. Operaio assassinato in Sicilia, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 83, 5 Aprile 1924.
[42] Cfr. Un contadino ucciso da un fascista, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 83, 5 Aprile 1924.
[43] Cfr. Un comunista assassinato a Tivoli, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 85, 8 Aprile 1924.
[44] Cfr. L’astensione dei socialisti a Molinella, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 85, 8 Aprile 1924.
[45] Cfr. Mutilato e fascista feriti da ignoti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 58, 7 Marzo 1924.
[46] Cfr. Fascista settantasettenne assassinato, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 58, 7 Marzo 1924.
[47] Cfr. Incidenti tra fascisti e socialisti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 58, 7 Marzo 1924.
[48] Cfr. Attentato contro un fascista a Firenze, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 64, 14 Marzo 1924.
[49] Cfr. Un omicidio che mette in luce i sistemi dei sindacati fascisti nel Polesine, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 67, 18 Marzo 1924.
[50] M. Zannoni (a cura di), Per l’Italia. I Caduti per la Causa nazionale (1919-1932), Edizioni Campo dei Marte, Parma 2002, pag. 86; L’orribile massacro di un fascista, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 68, 18 Marzo 1924; L’aresto degli assassini del fascista Giuseppe Gentili, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 70, 21 Marzo 1924.
[51] Cfr. Una ripresa degli attentati antifascisti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 69, 20 Marzo 1924.
[52] Cfr. Vile aggressione contro un fascista, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 72, 23 Marzo 1924.
[53] Cfr. Una vile imboscata di socialisti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 70, 21 Marzo 1924.
[54] Cfr. Fascista aggredito e percosso a Precotto, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 71, 22 Marzo 1924.
[55] Cfr. Fascisti aggrediti presso Cagliari, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 74, 26 Marzo 1924.
[56] Cfr. Caposquadra della Milizia nazionale percosso da sovversivi a Barlassina, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 74, 26 Marzo 1924.
[57] Cfr. Milite pugnalato presso Vergobbio, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 74, 26 Marzo 1924.
[58] Cfr. Conflitto tra fascisti e combattenti, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 75, 27 Marzo 1920; Imboscata contro un corte fascista in Sicilia, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 75, 27 Marzo 1924.
[59] Cfr. Militi aggrediti a Montegrosso, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 75, 27 Marzo 1924.
[60] Il primato delle violenze, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 75, 27 Marzo 1924.
[61] Cfr. Fascista ferito da un popolare, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 76, 28 Marzo 1924.
[62] Cfr. Grave conflitto in provincia di Foggia, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 80, 2 Aprile 1924.
[63] Cfr. Un Caposquadra della Milizia Nazionale vigliaccamente aggredito a Firenze, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 79, 1° Aprile 1924.
[64] Cfr. Orribile sciagura, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 80, 2 Aprile 1924.
[65] Cfr. Frate fascista sospeso “a divinis”, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 82, 4 Aprile 1924.
[66] Cfr. Un paese in fermento per il ritorno di un Prete, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 82, 4 Aprile 1924.
[67] Cfr. Agguato contro un fascista presso Mantova, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 82, 4 Aprile 1924.
[68] Cfr. Una bomba durante un comizio, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 83, 5 Aprile 1924.
[69] Cfr. Tentativo comunista contro una sezione fascista, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 83, 5 Aprile 1924.
[70] Cfr. Aggressioni e violenze contro i fascisti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 84, 6 Aprile 1924; A proposito di libertà, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 84, 6 Aprile 1924.
[71] Cfr. Aggressioni e violenze contro i fascisti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 84, 6 Aprile 1924.
[72] Cfr. Un agguato contro i fascisti di Greco, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 84, 6 Aprile 1924.
[73] Cfr. Incidenti in provincia di Messina, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[74] Cfr. Una bomba contro l’abitazione dell’On. Orlando, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[75] Cfr. M. Zannoni (a cura di), Per l’Italia, cit., pag. 172; Un fascista assassinato nel Novarese, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 84, 6 Aprile 1924.
[76] Cfr. Fascista gravemente ferito, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 84, 6 Aprile 1924.
[77] Cfr. Violenze contro fascisti, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[78] Cfr. Brigantaggio social-comunista, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[79] Cfr. “Avanti!”, a. XXVIII, n. 85, 8 Aprile 1924; Brigantaggio social-comunista, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 85, 8 Aprile 1924.
[80] Cfr. Un ex Ardito ucciso in Via Bonvesin della Riva, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 67, 18 Marzo 1924; Ardito assassinato con quattro colpi di rivoltella, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 67, 18 Marzo 1924.
[81] Cfr. Ricercando uno dei presunti autori dell’uccisione, “Il Popolo d’Italia”, a. XI, n. 69, 20 Marzo 1924.
[82] Cfr. Il Segretario del Fascio di Città di Castello ucciso da un Milite nazionale, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 67, 18 Marzo 1924.
[83] Cfr. Un espulso dalla Milizia ucciso da un fiduciario fascista, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 73, 25 Marzo 1924.
[84] Cfr. Fascista ucciso da un Milite volontario nel Ferrarese, “Avanti!”, a. XXVIII, n. 74, 26 Marzo 1924.
[85] Cfr. “Avanti!”, a. XXVIII, n. 85, 8 Aprile 1924 (pag. 2).
[86] Cfr. P. Cappellari, Il Biennio Rosso, parte II: aspettando la rivoluzione, in P. Cappellari, (a cura di), Da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma. Il Centenario della Rivoluzione fascista (1920), Passaggio al Bosco, Firenze 2021, vol. II.
[87]P. Cappellari, Il 1921: l’anno fascista, in P. Cappellari (a cura di), Da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma. Il Centenario della Rivoluzione fascista (1921), Passaggio al Bosco, Firenze 2022, vol. III, pag. 100.
[88]Ibidem, pag. 64.
[89]P. Cappellari, Il 1921: l’anno fascista, cit., pagg. 75-77.
L’Autore
Pietro Cappellari è nato a Latina nel 1975, risiede a Nettuno (Roma). Dottore in Scienze Politiche, Master dell’Istituto “Enrico Mattei” di Alti Studi sul Vicino e Medio Oriente, Dottore Magistrale in Storia e Società, Socio onorario della Fameia Capodistriana della Libera Provincia dell’Istria in Esilio, è Ufficiale dell’Esercito Italiano. Direttore della Biblioteca di Storia Contemporanea “Goffredo Coppola” di Paderno (Forlì), membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Francesco Parrini”, collabora con la Fondazione della RSI – Istituto Storico ed è Direttore del periodico “L’Ultima Crociata”. É autore di numerosi saggi storici.
2 Comments