Come gli anni scorsi, anche nel 2020 e nel 2021 ho preparato una conferenza da tenere al festival celtico tiestino, il Triskell. Con questa, dell’edizione 2020, la quinta dedicata a questa tematica, concludo il discorso sul femomeno megalitico. Al riguardo, vale sempre la stessa avvertenza degli anni scorsi: rivolgendosi a un pubblico generalista e non politicamente orientato, queste conferenze non possono trattare una tematica apertamente politica, tuttavia noi sappiamo bene che riscoprire la nostra eredità ancestrale, soprattutto a fronte di una “cultura” mondialista che tende a cancellare tradizioni, popoli ed etnie, è un fatto politico, eccome! Come per quelle tenute gli anni precedenti, a causa della lunghezza, il testo di questa conferenza è suddiviso in più articoli.
Questo è l’appuntamento conclusivo, l’ultima tappa di un percorso iniziato nel 2016. Dopo aver parlato al Triskell di quell’anno del complesso megalitico di Stonehenge, aver esteso l’anno successivo il discorso alle Isole Britanniche nel loro insieme, aver esplorato nel 2018 il ricchissimo quanto perlopiù ignorato dalla storia e dall’archeologia ufficiali, patrimonio megalitico dell’Europa continentale, avere l’anno scorso esplorato quella realtà letteralmente ignota che è il fenomeno megalitico in Italia, eccoci qui a parlare delle Tre Venezie.
L’anno scorso abbiamo visto l’ampio e sconosciuto tema del megalitismo in Italia, omettendo però l’area triveneta. Questo non perché per quanto riguarda queste tre regioni, compresa la nostra, non vi fosse nulla da dire, ma proprio nella prospettiva di farne l’oggetto di una trattazione a parte, e ora il momento è venuto.
Sarebbe bene, però, dire in premessa alcune cose, in particolare soffermarsi sulla composizione etnico-antropologica delle nostre tre regioni.
Noi abbiamo visto negli incontri precedenti, che ci si è presentato costantemente un problema: “megaliti”, lo sappiamo, vuol dire semplicemente “grandi pietre”, ma perlopiù con questo termine ci si riferisce a una specifica cultura caratterizzata dall’erezione di monumenti di forma particolare, menhir ossia pietre erette, dolmen cioè triliti formati da due pietre erette e una orizzontale sovrapposta a mo’ di architrave, cromlech, cioè circoli di triliti, di cui Stonehenge è probabilmente l’esempio più noto. Questa cultura era diffusa in età neolitica in una vasta area che copre le Isole Britanniche e la fascia atlantica del nostro continente, la stessa dove troviamo in età storica la presenza dei Celti. Finora gli archeologi non hanno ancora emesso un parere definitivo sulla questione se la cultura megalitica si debba ritenere proto-celtica o pre-celtica, cioè se i costruttori di megaliti erano gli antenati dei Celti che conosciamo in età storica, o appartenessero a una cultura diversa che i Celti hanno poi soppiantato.
Lasciando impregiudicato questo aspetto sia pure fondamentale della questione, abbiamo visto che parlando delle varie forme di megalitismo presenti sul continente europeo e nella nostra Penisola, non è sempre facile distinguere ciò che appartiene a questa specifica cultura megalitica, e ciò che invece è proprio di forme diverse di megalitismo.
Pur essendo il Triveneto, il nord-est della nostra Penisola un ambito relativamente ristretto, il problema si presenta da noi accentuato, perché questa parte della nostra Penisola è stato già nell’antichità preromana un vero e proprio mosaico di popoli e culture.
Prima dell’arrivo dei Celti, c’erano ovviamente i Veneti, ma i Veneti stessi rappresentano una realtà interessante e poco conosciuta. I Veneti non appartenevano al ceppo italico vero e proprio, ossia latino-osco-umbro, ma erano una diversa popolazione di ceppo indoeuropeo. Ancora oggi i loro discendenti presentano caratteristiche antropologiche che li distinguono dagli altri italiani e li avvicinano all’Europa del nord-est, fra queste la maggiore tendenza alle nascite gemellari.
Le sedi originarie dei Veneti pare si debbano collocare nell’attuale Polonia, da dove i Veneti si spostarono verso l’ovest e il sud, dividendosi in due rami, stabilendosi una parte nel nord-est italiano e un’altra parte nel settentrione di quella che è oggi la Francia, dove diedero il nome alla regione francese della Vandea (in francese Vendee, e Vendi è appunto una variante del nome di questi Veneti antichi). Ancora oggi si notano le somiglianze fra i toponimi di queste aree della Francia settentrionale e delle zone est-europee di cui erano originari, ad esempio Brest e Brest-Litovsk.
Cesare li incontrò, e nel De bello gallico li descrive come ottimi marinai.
Nelle loro sedi originarie, il loro nome passò agli Slavi che li soppiantarono, e che infatti i Tedeschi chiamavano Wenden.
L’importanza storica dei Veneti nell’ambito della storia mondiale è certamente sottovalutata. Basta pensare a un fatto: Dopo Canne Annibale non riuscì a espugnare Roma soprattutto perché abbandonato dai suoi alleati Galli cisalpini che temevano che i Veneti alleati di Roma approfittassero del fatto che le loro truppe si erano spinte al seguito del generale cartaginese, per invadere le loro terre. Se Roma fosse caduta e al posto dell’impero romano si fosse instaurata un’egemonia cartaginese, la storia del mondo, non solo mediterraneo, sarebbe potuta essere molto diversa. Io vi consiglierei la lettura del libro di Piero Favero La dea veneta che è forse la storia più completa dei Veneti antichi (il libro prende il titolo dal fatto che la divinità più importante del pantheon venetico era una dea: Reitia).
Gli Istri che hanno dato il nome all’Istria, erano una popolazione venetica relativamente distinta dalle altre, probabilmente in parte mescolata con i vicini Illiri. Come i Liburni della Dalmazia, erano marinai e pirati, e come questi ultimi opposero una dura resistenza alla conquista romana. I Romani li considerarono abbastanza importanti da chiamare la decima regione dell’Italia istituita dalla riforma amministrativa augustea Venetia et Histria. Trieste in età antica era territorio degli Istri.
Sull’arco alpino, troviamo attestata la popolazione dei Reti. Alcune iscrizioni retiche fanno pensare a un’analogia con la lingua etrusca. Si pensa che i Reti potrebbero essere un ramo settentrionale degli Etruschi rimasto separato dagli altri Rasna in conseguenza dell’invasione venetica e poi di quella celtica della Valle Padana. I Romani, dopo averli assoggettati, istituirono la provincia della Rezia. Qui sarebbe necessario introdurre un discorso complesso che di necessità dovrò sintetizzare molto in breve: le differenze fra le varie lingue neolatine, ma anche, ad esempio fra i vari dialetti italiani, sono ricondotte dai linguisti ai sostrati, cioè alle tracce delle parlate delle popolazioni romanizzate quali erano anteriormente alla conquista romana, supponendo che, soprattutto per quanto riguarda i ceti popolari, il latino non sia stato parlato in maniera uniforme in ogni angolo dell’impero circum-mediterraneo, ma sia stato influenzato dalle parlate preesistenti delle popolazioni locali, assumendo delle forme che oggi diremmo dialettali. Un gruppo di linguaggi parlati nell’arco alpino è classificato dai linguisti come reto-romanzo, essi sono il ladino, il romancio e il friulano che hanno forse la loro più lontana origine in tempi che precedono la dominazione romana.
Noi non abbiamo il tempo di approfondire quest’aspetto della questione, ma la cultura ladina conserva un folclore interessantissimo che risale certamente a epoche molto remote: la leggenda di re Laurino e i fanes, sorta di elfi cisalpini. Per chi voglia approfondire l’argomento, consiglierei il libro Il regno dei fanes di Adriano Vanin.
Sempre alle popolazioni retiche sono ascritti da taluni autori anche i Liburni della Dalmazia, abili marinai e feroci pirati che, al pari degli Istri, Roma sottomise con grande difficoltà, e dai quali copiò il modello della nave da guerra, la liburna che andò a sostituire la più pesante e meno maneggevole trireme. Oggi si ritiene però perlopiù che si trattasse di una popolazione di ceppo illirico, e di certo non si può escludere che avessero origini miste retiche-venetiche-illiriche.
Un altro popolo pochissimo conosciuto, ma che si ritiene di origine indoeuropea, che si insediò nelle zone interne dell’Istria e della Dalmazia, fu quello dei Giapidi (o Iapodi, o Japodi), e come gli Illiri e i Liburni, opposero una fiera resistenza alla conquista romana.
Silvano Lorenzoni, ricercatore indipendente e anticonformista e vicentino DOC, ipotizza la presenza di un forte sostrato pre-indoeuropeo anche per quanto riguarda la Lessinia, ossia la zona dei monti Lessini (che sono un massiccio delle Prealpi venete) compresa fra le province di Verona, Vicenza e in parte anche quella di Trento, a motivo della sopravvivenza nella zona fino a pochi decenni fa, di leggende e tradizioni antichissime. Egli individua negli abitanti di quest’area qualità caratteriali che la tipologia antropologica di anteguerra riferiva al gruppo alpino: laboriosità, parsimonia, attaccamento alle tradizioni, forte senso della famiglia, ma a dire il vero, queste mi sembrano piuttosto le qualità che in altre epoche, quando la vita era più dura di oggi, le necessità della sopravvivenza hanno indotto a sviluppare presso ogni comunità rurale povera.
Paleoveneti-atestini, Euganei, Reti, Ladini, Liburni. Queste popolazioni cominciano a essere un po’ troppe per una zona di mondo tutto sommato non grandissima come la nostra triplice regione: io mi sentirei di avanzare l’ipotesi che si trattasse della stessa popolazione, sommersa prima dall’invasione dei Veneti, poi dall’arrivo dei Celti e infine dalla conquista romana, della quale alcune parti emergono come isole quelle che un tempo erano le alture maggiori di una pianura allagata.
In ogni caso, sarà bene ricordare che a Bostel, frazione del comune di Rotzo sull’altopiano di Asiago che oggi fa parte della provincia di Vicenza, nel XVIII secolo furono rinvenuti i resti di un insediamento che si suppone fosse retico, poi distrutto – sembrerebbe dai Celti – Qui l’antico villaggio è stato ricostruito ed è diventato una sorta di museo vivente che permette di sperimentare dal vivo quale fosse lo stile di vita di questi nostri remoti antenati.
Per completare il quadro sarà opportuno un breve accenno agli Illiri che confinavano con le popolazioni del nord-est italico e con cui sembra, come abbiamo visto, Istri e Liburni si fossero mescolati. Si trattava di un popolo o forse una serie di popolazioni di ceppo indoeuropeo a quanto sembra dai pochi toponimi superstiti loro attribuiti, che abitava un’area compresa tra l’arco alpino orientale, il Danubio, l’Epiro, la Tracia e la Macedonia verso sud, un’area grosso modo corrispondente alla ex Jugoslavia.
Se ricordate, abbiamo già parlato di loro l’anno scorso, perché alcune popolazioni pugliesi, in particolare i Messapi, erano di origine illirica, provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico. A mio parere, è un’ipotesi ragionevole far risalire le somiglianze tra il folclore pugliese e le tradizioni celtiche, si pensi ai riti identici del giorno dei morti, di samain, già ben prima che essi si diffondessero a livello planetario nella forma caricaturale americanizzata di halloween, a questa impronta illirica. Gli Illiri erano forse parenti abbastanza stretti dei Celti, o hanno avuto modo di essere influenzati da loro venendo a contatto nella regione pannonica. In Puglia, a ogni modo, come abbiamo visto l’anno scorso, si trova la più alta concentrazione di megaliti, dolmen e menhir d’Italia.
Si trattava di una popolazione di rudi pastori e montanari che dopo la conquista romana, fornì a Roma ottimi soldati. Una serie di imperatori di origine illirica provenienti dai ranghi dell’esercito, che non costituirono una dinastia, si affermarono nel periodo della cosiddetta anarchia militare, ponendovi fine e salvando la continuità dello stato romano. Il più importante di loro fu Diocleziano.
Da parte di autori della ex Jugoslavia si è preteso varie volte che gli odierni slavi meridionali siano discendenti degli Illiri, ma si tratta di una pretesa che non trova riscontro storicamente: gli Slavi discesero nella Penisola balcanica attorno al sesto secolo dopo Cristo, dopo che i Balcani erano rimasti spopolati in seguito alla spaventosa epidemia di peste nota come peste di Giustiniano.
Tra l’insediamento dei Veneti e la conquista romana si situa temporalmente l’espansione celtica nella Valle Padana che coinvolge anche la nostra triplice regione, che sembra essere destinata da sempre a essere un luogo d’incontro e di scontro tra popoli diversi. Questa espansione avvenne a macchia di leopardo, con effetti diversi da luogo a luogo. Il Veneto rimase sostanzialmente veneto, eppure è qui che si trovano le più importanti tracce archeologiche della presenza celtica, cosa che si spiega perché qui i Celti, i Cenomani si insediarono pacificamente, furono perlopiù alleati dei Romani e si fusero gradualmente con la popolazione veneta. Quella che è oggi la nostra regione divenne la Carnia, la terra dei Galli Carni. Oggi il termine Carnia si riferisce alla parte montana di essa, al di sopra della linea delle risorgive, ma nell’antichità essa era tutta Carnia, fino ad Aquileia e oltre.
Tuttavia, basta osservare una carta geografica dell’Italia preromana per rendersi conto di una stranezza sulla quale raramente ci si sofferma: la presenza dei Galli Carni in quello che poi è diventato il Friuli forma una specie di “isola celtica” circondata a ovest da popolazioni venetiche, istro-venete a est e retiche a nord. E’ probabile che i Carni non facessero parte del gruppo principale dei Galli cisalpini che si erano espansi nella nostra Penisola provenendo da nord-ovest, ma fossero scesi in Friuli da nord, scavalcando l’arco alpino. Comunque, i Romani che, come vedremo dettagliatamente più avanti, intervennero nella nostra regione nel 115 avanti Cristo per impedire l’insediamento ulteriore di Galli transalpini, considerarono i Carni come cisalpini in ragione della loro lunga permanenza nel nostro territorio.
Sicuramente oggi la pianura friulana non ha mantenuto le caratteristiche antropologiche dei Galli Carni in essa insediati in epoca preromana, mentre una traccia consistente di esse si è verosimilmente mantenuta fino a tempi recenti nella parte montana della nostra regione, quella che ancora oggi si chiama Carnia, e a questo riguardo si può citare una testimonianza importante:
Il termine “Carnia” ossia “la terra dei Galli Carni” indicava fino al II secolo avanti Cristo, fino ai tempi della fondazione della colonia romana di Aquileia un territorio grosso modo corrispondente all’attuale Friuli. La sua accezione si è poi ristretta come la popolazione cui esso si riferisce, alla parte montana, più isolata e povera della nostra regione, man mano che nella più florida pianura si succedevano la romanizzazione, la conquista longobarda, il feudalesimo franco, il dominio veneziano con le commistioni portate dai commerci, l’età moderna e l’industrializzazione. I Carni sono rimasti a lungo, fino alle soglie della nostra epoca fra le popolazioni della Gallia cisalpina forse quelli che hanno preservato più a lungo intatta la loro identità.
NOTA: Nell’illustrazione, il Sass di San Belin (masso di San Beleno) in provincia di Gorizia, fotografato, purtroppo da un’angolatura che non permette di coglierne la forma approssimativamente simile a una testa umana, che la tradizione locale vorrebbe essere un monumento al dio celtico Belenus, immagine usata come locandina della mia conferenza al Triskell 2020.