Un mito antico
Pur non essendo risalente nel tempo quanto quello degli Argonauti o viepiù di Gilgamesh, il mito di Odisseo/Ulisse è senza dubbio antichissimo: «Molti elementi indicano che Odisseo rappresenta un’antichissima figura della mitologia greca. Anzitutto il nome, che come quello di Achille, non si può spiegare con etimologie greche e rinvia a strati più antichi. Poi anche le molteplici esperienze e situazioni con le quali l’eroe appare strettamente collegato: i suoi incontri con streghe e giganti, con mostri e mangiatori d’uomini, il suo viaggio agli Inferi, i suoi contatti con esseri demoniaci, tutto ciò giustifica la supposizione che le sue radici vadano cercate nel mondo dell’antica favola, e addirittura nel mondo di primitive concezioni magiche e sciamaniche ». (1)
Sull’etimologia del nome, in realtà, non è certa la sua origine pregreca. D’altra parte, nella stessa Odissea (2)Autolico (padre di Anticlea, madre di Odisseo), che deve scegliere un nome per il nipote, spiega che, essendo egli portatore di odio (in greco ὀδυσσάμενος), il neonato dovrà chiamarsi Odisseo (in greco ᾿Οδυσεὺς), così legando l’etimo del nome dell’eroe al verbo ὀδύσσομαι (odiare).
Per il resto, invece, si può concordare con l’affermazione sopra riportata.
L’origine sciamanica delle peregrinazioni di Odisseo risulta da molteplici punti di emersioni dell’Odissea (3); a mo’ di esempio potremo ricordare:
- Elena che mescola al vino delle erbe magiche che facevano dimenticare ogni dolore; (4)
- I mangiatori di loto, un’erba che dà l’oblio di tutto (casa, Patria, famiglia); (5)
- Athena che versa il sonno negli occhi di Odisseo; (6)
- tutto l’episodio di Circe, ma in particolare l’erba magica che Hermes fornisce a Odisseo per difendersi dagl’incantesimi della maga (7).
Anche per le lotte contro i mostri, l’archetipo è antico così come gli altri elementi citati da Heubeck, onde si può concordare con lui sulla datazione del mito di Odisseo.
Viceversa, altri tratti (non l’etimo del nome, come si è detto) potrebbero far pensare all’origine pregreca del mito.
Innanzitutto, l’impressionante somiglianza dell’Odissea con il Gilgamesh (8), che fa pensare ad un sostrato mitico comune alle due saghe (l’eroe mesopotamico non è greco e neanche indoeuropeo, essendo di stirpe semitica); poi la dissonanza tra il carattere di Odisseo e quello degli altri eroi omerici, dissonanza che appare già dai caratteri somatici: Odisseo è l’unico degli eroi achei sui quali non
si utilizzi l’appellativo ξανθός (biondo), mai utilizzato nell’Iliade, e raramente attribuitogli nell’Odissea (9), ma ancor più nella contrapposizione tra l’astuzia quale tratto precipuo di Odisseo e la forza, il valore, il coraggio, propri degli altri achei, contrapposizione che è già evidente nei poemi omerici, ma che diventerà un abisso nelle tragedie, come sarà trattato nel paragrafo successivo.
Odisseo Uno, Nessuno, Centomila
La tradizione ci ha tramandato varie sfaccettature della personalità di Odisseo.
Ci limiteremo ad esaminarne alcune.
Odisseo nell’Iliade
Nell’Iliade, Odisseo è un guerriero acheo che compie delle imprese guerresche, ma non ha una posizione preminente.
Tuttavia, emerge già nel poema più antico la sua caratteristica precipua: l’astuzia, (in greco μῆτις), la capacità di mediare, di risolvere con degli stratagemmi le soluzioni più intricate: è lui a portare Criseide dal padre dopo l’ira di Apollo (10); convince Dolone con l’inganno a rivelare la posizione dell’esercito nemico (11); emerge il suo legame con Athena, che sarà il filo conduttore dell’Odissea: è la dea ad apparirgli per convincere gli Achei a continuare nell’impresa nonostante il ritiro sdegnato di Achille nella sua tenda (12); è sempre ella ad aiutare Odisseo a battere Aiace nella corsa durante i giochi funebri in onore di Patroclo (13).
Odisseo nell’Odissea
È il protagonista assoluto.
Fin dal primo verso, viene presentato come tale. Nell’invocazione alla Musa, Omero (o chi per lui) chiede che gli venga ispirato il canto di quell’uomo , πολύτροπον. Il termine viene generalmente tradotto multiforme (Pindemonte dice dal multiforme ingegno), ma sarebbe meglio a nostro avviso lasciare il significato letterale greco dai molti viaggi (dai molti percorsi, suggerisce Franco Ferrari – 14), visto che il viaggio costituisce insieme mito e tema letterario dell’opera.
Al contrario di Gilgamesh e della sua continua ricerca, il peregrinare di Odisseo è un viaggio forzato, non cercato: sono gli dèi che per un motivo o per un altro non gli fanno compiere un semplice viaggio da reduce da una guerra vittoriosa, ma lo costringono a navigare in continuazione.
Tuttavia, è chiaro che il viaggio è comunque conoscenza: già dai primi versi del poema si pone l’accento su tale aspetto (il poeta dice del protagonista che conobbe molti popoli e la loro mente – 15).
Egli incarna tutte le caratteristiche dell’uomo moderno: passione militare, volontà di comando, astuzia politica e diplomatica, affabulazione e capacità di persuasione, licenza sessuale (i suoi rapporti con Circe, Nausicaa, Calipso), coraggio nell’affrontare le avventure, patriottismo e senso di superiorità etnica, di stirpe, di civiltà, spirito di sacrificio, curiosità intellettuale, rispetto della religione (sacrificio agli dèi, rispetto dei tabù, come il rispetto dei buoi di Iperione (16), del divieto di aprire gli otri di Eolo (17).
Riesce con la sua astuzia a sconfiggere le forze brute (Polifemo, i Lestrigoni), le forze ammaliatrici (Calipso, le Sirene) e la magia (Circe).
Contrariamente a Gilgamesh che cerca l’immortalità e non la trova, Odisseo rifiuta l’immortalità che gli viene offerta da Calipso (18)perché la contropartita di tale offerta è la rinunzia alla Patria, alla casa, alla famiglia ed egli preferisce tornare da mortale alla sua Itaca, anziché restare da immortale con Calipso (19).
Lo scontro con Polifemo è scontro di civiltà: il Ciclope rappresenta, sul piano simbolico, non tanto la contrapposizione con il mostro, quanto tra la civiltà e l’umanità bruta, che sfida gli dèi non per ὕβρις intellettuale, ma perché confida solo nella propria possanza fisica (20).
Sul piano storico, lo scontro con il ciclope richiama senza dubbio lo scontro tra due civiltà: i Ciclopi, per Esiodo, erano i costruttori delle fortificazioni di quelle città che Tucidide (21) chiama Pelasgiche, tanto che nella Grecia classica era ormai attestata la definizione di mura ciclopiche (22).
In conclusione, con ogni probabilità un eroe pregreco come Odisseo diventa con il tempo un eroe greco dello scontro con le popolazioni che avevano preceduto gl’indoeuropei nel bacino del Mediterraneo: i Pelasgi, appunto, sulla cui esistenza storica ormai nessuno pare dubitare (23)
Odisseo nelle tragedie ed in Filostrato
Nella produzione dei grandi tragici il nostro eroe è descritto come uomo privo di qualunque senso morale.
Convince con l’inganno Clitemnestra a consegnare Ifigenia per il sacrificio in Aulide, facendole credere che Achille vorrebbe sposarla (Ifigenia in Aulide di Euripide).
Escogita un piano diabolico per farsi consegnare l’arco da Filottete, che i compagni hanno abbandonato sull’isola di Lemno per una ferita puzzolente che gli aveva inferto il morso di una vipera (Filottete di Sofocle).
Ottiene con l’inganno le armi di Achille che sarebbero spettate per diritto ad Aiace (Aiace di Sofocle).
Convince i capi achei ad uccidere il piccolo Astianatte (figlio di Ettore) per impedire che un giorno possa vendicare il padre (Troiane di Euripide).
Fa sgozzare Polissena, giovane figlia di Priamo, sacrificandola sulla tomba di Achille (Ecuba di Euripide).
In realtà, nei grandi tragici, la figura di Odisseo è una figura simbolica in un periodo di grandi avvenimenti: le guerre persiane, che avevano sancito la vittoria del panellenismo; l’imperialismo ateniese che aveva soggiogato i popoli dell’Attica; la guerra del Peloponneso che ne aveva stroncato l’ascesa. In questo crogiuolo di avvenimenti, era normale la prevalenza della ragion di Stato quale supremo comando per ogni azione del cittadino ateniese.
La voce del poeta si levava dunque contro l’etica della ragion di Stato contrapposta al sentire comune, all’etica dell’onore e del rispetto per i principi che era ancora sentita nell’epoca in cui furono scritte le grandi tragedie del mondo attico. (24)
Si preferì – dunque – utilizzare una sorta di mito letterario negativo per incarnare la doppia morale di chi per raggiungere un obiettivo che si ritiene confacente alle esigenze della propria comunità (in questo caso i guerrieri achei) non esita a ricorrere all’inganno, alla frode, o a violare principi eterni come il rispetto, anche in guerra, di donne e bambini.
Il mito letterario fu portato alle estreme conseguenze da Filostrato, retore vissuto nel III sec. a.C.
Nel suo Eroico, Odisseo si finge pazzo per non partire per la guerra di Troia. Sbugiardato da Palamede, il più sapiente degli eroi Achei, si vendica facendolo lapidare e costruendo contro di lui false prove di furto e tradimento. E compie l’ultima nefandezza costringendo il suo aedo, Omero, a tacere sulle nefandezze da lui perpetrate e scoperte con un gioco letterario da Filostrato.
L’Ulisse di Dante
Inferno – XXVI canto – nell’ottava bolgia, delle dieci Malebolge dell’ottavo cerchio.
Dante condanna senza mezzi termini i consiglieri fraudolenti della sua Firenze. Li paragona a “lingue di fuoco”, perché ha voluto creare un contrappasso adeguato alla complessità della colpa di questi “ladroni”, che ingannarono le loro vittime (soprattutto con l’arte oratoria), nascondendo dietro false intenzioni il loro vero scopo, per cui adesso sono costretti a restare nascosti per sempre da un fuoco che li brucia dolorosamente, rubando l’immagine della loro forma fisica, così come nella loro vita essi furono ladri della buona fede altrui.
La fiamma che li avvolge assume addirittura i connotati fisici delle anime in pena, al punto d’assomigliare a una lingua che, guizzando, emette suoni articolati.
Ma quando viene a sapere che tra i dannati vi è pure Ulisse (in compagnia dell’amico Diomede), l’atteggiamento di Dante cambia completamente.
Al pari degli altri dannati, Ulisse viene presentato come un uomo chiuso in se stesso, anche se in quel momento è desideroso di parlare coi due inaspettati ospiti.
Di fronte alla grandezza d’un personaggio del genere, osannato da tutta la letteratura greca e latina, Dante si sente piccolo e avverte di dover fare molta attenzione a misurarsi con lui. Anzi, temendo troppo il confronto con un personaggio del genere, il poeta non s’arrischia neppure d’interrogarlo e lascia che al suo posto lo faccia Virgilio.
Ulisse pronunzia il famoso discorso: dopo il ritorno a Itaca, niente lo trattiene, deve soddisfare la sua sete di
divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore (25)
parte con i suoi compagni, che di fronte all’impresa impossibile di superare le colonne d’Ercole hanno paura, ma Ulisse li sprona ad andare oltre per la sete di conoscenza:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza (26)
Il viaggio prosegue quale folle volo (27), e la ybris viene punita: la nave viene travolta da un turbo.
Dante – dunque – non può fare a meno di condannare Ulisse per le sue colpe, per gli inganni sempre orditi, ma come sostiene Borges (28), certamente Ulisse ha intrapreso un viaggio folle, impossibile, ma l’angoscia, la partecipazione palese di Dante sono quasi troppo profonde e intime.
Dante non è l’anti-Ulisse, poiché fa un viaggio non meno “folle” di quello dell’eroe greco, che però egli intraprende in armonia con Dio.
È un’impresa che, dunque, può essere facilitata dall’approvazione divina, come nel caso appunto di Dante, che apprende i segreti delle cose attraverso il viaggio nell’aldilà; oppure, come nel caso di Ulisse, condannata in partenza al fallimento, proprio perché si pone come sfida alla virtù divina.
Ulisse è una specie di specchio negativo di Dante. Dal punto di vista della conoscenza, entrambi sono degli eroi, degli scopritori. Tuttavia Dante è in armonia con Dio, mentre Ulisse è un ribelle, un temerario che osa imporre la propria volontà agli dèi.
La presunzione umana rappresenta un inconcepibile sovvertimento dell’ordine dell’universo, e come tale è una forma di follia. Infatti, è l’aggettivo folle a definire la natura insana dell’impresa di Ulisse, come segnale preciso di questa volontà assurda per chi è sostenuto dalla fede e dalla grazia.
L’autore, dunque, sente vicina alla propria l’esperienza di Ulisse (che può rappresentare quella dei filosofi laici che – come lo stesso Dante giovane – si lasciarono tentare da una conoscenza che fosse dei tutto indipendente dal valore della fede religiosa).
Ma Dante, persosi nella Selva Oscura, si salva tornando alla fede ed intraprendendo il suo viaggio iniziatico alla ricerca della Grazia (29).
In questo senso, il personaggio di Ulisse lo rispecchia, ma solo per gli aspetti negativi che lo segnarono in passato e che al tempo in cui scrive la Commedia egli ha ormai superato.
Per Borges, Dante è un Ulisse cristianizzato: il folle volo del poeta toscano è la scrittura del libro stesso. Dante era un teologo che in base ai principi cristiani conosceva cos’era il bene e il male ai fini del giudizio per l’eternità.
In tal senso Ulisse, essendo precristiano, non può essere condannato per la mancata conoscenza del vero Dio.
Dante, infatti, colloca nel primo cerchio coloro che non hanno conosciuto Gesù Cristo, coloro che
non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi. (30)
Dunque se Ulisse si trova là, tra i consiglieri fraudolenti e non nel primo cerchio in compagnia di Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Cesare o dei suoi antichi nemici Ettore ed Enea, non lo deve al suo paganesimo, alla mancanza di fede nel vero Dio, ma a delle colpe morali universali (appunto, gli inganni e le frodi che ha ordito assieme a Diomede, compagno anche nella pena eterna).
L’Ulisse di Pascoli
L’interpretazione che Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali dà delle vicende di Ulisse, e in particolare quella dell’incontro col pastore nell’isola di Polifemo, rappresenta un unicum in tutta la storia della letteratura (31).
Al centro dell’ultimo viaggio di Giovanni Pascoli c’è l’universo dominato dal dolore e dal mistero per cui la vita è come un fiume che va a un mare ignoto che porta alla morte da un monte inteso come la nascita, e l’uomo di fronte all’immensità dell’universo diventa un granello insignificante e privo di stabilità spirituale. Con questa prospettiva si afferma il tema dominante dell’Ulisse di Pascoli ovvero la ricerca del senso dell’esistenza. La passione di Pascoli per l’epica, lo spinge a rivisitare l’Odissea Omerica in una chiave prettamente moderna basata sulla concezione della vita contemporanea.
Praticamente l’Ulisse che è incarnazione dell’uomo moderno, dopo aver fatto ritorno a Itaca dal suo lungo viaggio ripensa a quest’ultimo e gli sembra di avere un dilagante senso di incompletezza perché non è riuscito a fare luce sui suoi dubbi. Gli interrogativi tormentano l’eroe ormai stanco e maturo, che proiettato già verso la fine della sua vita si sente come l’uomo moderno, che non riuscendo a dare un’individualità al proprio essere si sente impotente, inerme, in balia del corso degli eventi. Incapace di restare fermo in questa posizione, Ulisse decide di riprendere il mare, ormai vecchio, per non abbandonarsi alle braccia dell’oblio. In fondo l’eroe decide solamente di non voler morire senza capire il significato della propria esistenza. Ulisse,
giudicando la sua vita passata insignificante, decide di percorrere tappa per tappa il viaggio del suo ritorno in modo da poter scorgere la verità che illumini la sua vita trascorsa e dare significato al proprio essere. L’eroe decide di ricomporre il suo equipaggio ormai vecchio come lui e di partire senza sapere il perché e cosa cercare, consapevolmente conscio che non trovando alcuna risposta all’interno del proprio io, non avrebbe dovuto abbattersi, essendo la vita una difficoltosa ricerca dell’essere. La prima tappa li riporta all’isola dei Ciclopi dove, dopo aver parlato con un’abitante dell’isola, ha il dubbio che quanto vissuto sia stata solo un’ illusione e con ciò tutta la sua vita. Pascoli con questo episodio esprime la propria certezza di vivere in un mondo di illusioni, nel quale l’uomo che cerca non troverà mai la verità poiché questa gli viene celata. Nel ricordare le sue esperienze, l’Ulisse ripensa alla maga Circe che gli aveva svelato che un motivo della sua esistenza era la conoscenza del mondo, cosa che però l’eroe al termine della sua vita giudica solo essere stata superficiale, non avendone penetrata l’essenza, parallelamente all’uomo moderno che ha solo una conoscenza altrettanto superficiale del proprio essere.
Dopo aver tanto viaggiato e conosciuto ogni segreto del mondo, l’eroe cerca allora di dare una risposta al dubbio che lo aveva spinto a partire: qual è lo scopo della mia vita e perché esisto? Come l’Ulisse, per Pascoli qualsiasi altro uomo giunto ad un certo momento della sua vita, si pone la stessa domanda e non trovando risposta, si abbandona al corso degli eventi giungendo passivamente alla morte, unica certezza della vita. Pascoli incarna in tal modo i motivi della poetica decadentista, ma questa sua tendenza nasce dal bisogno di un più approfondito esame del proprio essere non riuscendo nella maggior parte delle volte a trovare risposta.
È proprio da questa ricerca a vuoto che nasce l’insoddisfazione dilagante tra i poeti dell’inizio del ’900, compreso Pascoli, onde nella sua opera il viaggio diviene metafora di ricerca interiore, che mette in evidenza la volontà di trovare sé stessi e di darsi una personalità in un universo tanto vasto da rendere infinitesimali i problemi esistenziali degli uomini.
L’Ulisse di D’Annunzio
La crisi di valori tipica del decadentismo si manifesta in modo diverso nella poesia di D’Annunzio, in cui il modello del superuomo trova piena realizzazione nella figura di Ulisse (32).
In L’incontro di Ulisse, tratto da una delle Lodi, Maia, il poeta racconta di aver incontrato navigando nello Ionio insieme ai suoi compagni, a nord di Itaca, Ulisse, partito per l’ultima avventura. Lo stesso poeta e i suoi compagni si sentono dei superuomini ma l’incontro con Ulisse, “re delle tempeste”, cambia totalmente la loro vita e soprattutto quella del poeta.
Ulisse in silenzio, regge in mano la scotta e studia i venti: è l’emblema dell’uomo solitario, che non ha bisogno dell’aiuto di nessuno per andare avanti, attento a tutto, anche al più piccolo e impercettibile soffio di vento, niente deve sfuggire al suo sguardo. Dalla stessa descrizione della figura, Ulisse diventa sempre di più il simbolo del superuomo, l’eroe instancabile che, anche nella vecchiaia, sfida il mare da solo, sdegnoso di tutti, alla ricerca di nuove esperienze, tutto volto a realizzare la sua volontà di potenza.
Il poeta e i suoi compagni sono emozionati e sconvolti per l’incontro con Ulisse, si sentono infiammati da un grande coraggio; cercano di farsi notare chiamandolo ripetutamente con l’appellativo di Laertiade (figlio di Laerte), eversore di mura, piloto di tutte le sirti, ma egli li ignora con un’indifferenza che D’Annunzio accentua paragonando il loro invito, a prestar loro attenzione, ad uno schiamazzo di vani fanciulli.
L’attenzione del grande Ulisse viene attirata solamente dalla voce dello stesso poeta che con le proprie parole esprime tutto il suo orgoglio, la fiducia in se stesso tipica del Superuomo; difatti propone all’eroe di dargli l’opportunità di tendere il suo arco per dimostrargli la propria forza. Solamente a questa richiesta Ulisse si volta a guardare l’intrepido, poiché lo considera il più orgoglioso e quindi più degno di considerazione; Ulisse appare di conseguenza un uomo superiore, perché sprezzante la mediocrità, che coltiva solo il culto della forza e la volontà di affermazione e di dominio, il disprezzo del pericolo e l’amore per il rischio, la violenza e la guerra, per questo è ansioso di continui superamenti.
L’incontro con Ulisse, anche se durato solo un attimo, cambia comunque la vita del poeta: egli non è come i suoi compagni, che pure gli sono cari, ma si sente spinto a confidare solo in se stesso e destinato a realizzare imprese eccezionali, come quell’Ulisse di cui ha meritato il simbolico sguardo.
Ulisse diventa quindi un mito letterario non solo quale simbolo del “superuomo“, ma anche quale esempio ed incitamento a tutti gli uomini che, come il poeta, non si accontentano di una vita tranquilla ma vogliono affermare la loro volontà di potenza realizzando la dimensione eroica di sé stessi.
Note:
- Alfred Heubeck, Interpretazione dell’Odissea, prefazione all’Odissea pubblicata da Mondadori, Milano 2007, con ampie citazioni di rimando
- XIX, 406 ss.
- Studiati a fondo da Mircea Eliade, Arti del metallo e alchimia. Bollati Boringhieri, Torino, 1987 e da Karoly Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 1992
- I, 219
- IX, 84 ss.
- V, 491 ss.
- X, 300 ss.
- Martin Litchfield West, The East Face of Helicon: West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, Clarendon, Oxford 1997, pp. 407 ss
- Soltanto in Xlll, 397, 431, si utilizza il termine: Athena trasfigura Odisseo togliendogli dalla testa i capelli, che vengono definiti biondi
- I, 440 ss.
- X, 340 ss.
- II, 173 ss.
- XXIII, 770 ss.
- Odissea, UTET Torino 2005
- E’ preferibile rendere con mente la parola greca νόον utilizzata da Omero non solo per ragioni di corrispondenza linguistica, ma anche per il significato simbolico della parola no/oj (nel greco classico νοῦς), che corrisponde all’idea tripartita della natura umana – σῶμα, ψυχή e νοῦς, appunto: corpo, anima e spirito: non dimentichiamo che Kant chiama νούμενον (derivato da νοῦς) la “vera” sostanza delle cose, che per lui è inconoscibile, ma la cui “penetrazione” dell’essenza costituisce il fondamento delle dottrine gnostiche.
- XII, 260 ss.
- X, 19 ss.
- V, 203 ss.
- Anche Chirone rinuncia all’immortalità pur di salvare Prometeo dalla sua pena – passando alla letteratura moderna, la Sirenetta (Den lille Havfrue) di Andersen rinunzia all’immortalità per amore del principe e nella saga tolkeniana The Lord of the rings l’elfa Arwen rinunzia all’immortalità per amore di Aragorn
- IX, 275 ss.
- I, 7, 1
- Euripide, If. Au., 265, 534
- Una particolare angolazione del rapporto tra i Pelasgi e la mitologia greca può trovarsi in Robert Graves, I miti Greci, Longanesi, Milano 1983
- Per una lucida analisi, cfr. Vittorio Dini, Il mito dello stato moderno nella fortuna della ragion di Stato, in Revue de Synthèse, 2010, Vol. 130, pp. 447-464.
- Inf., XXVI, 98 s.
- Ibidem 118 ss.
- Ibidem, 125
- José Louis Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001, pp. 43-49
- cfr. infra, § 8.2
- Inf., IV, 35 s.
- Per una compiuta analisi dei Poemi conviviali, cfr. Giuseppe Nava, Il mito vuoto: L’ultimo viaggio, in Quaderni dell’Accademia pascoliana, n. 9 – 1997
- Lorenzo Braccesi, D’Annunzio e l’Ulisse etrusco – pelasgico, in Hesperìa: studi sulla grecità di Occidente, n. 4, pp. 187 – 190.
Nota bibliografica
Alfred Heubeck, Interpretazione dell’Odissea, prefazione all’Odissea Mondadori, Milano 2007
Mircea Eliade, Arti del metallo e alchimia. Bollati Boringhieri, Torino, 1987
Karoly Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 1992
Martin Litchfield West, The East Face of Helicon: West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, Clarendon, Oxford 1997
Odissea, UTET Torino 2005
Robert Graves, I miti Greci, Longanesi, Milano 1983
Vittorio Dini, Il mito dello stato moderno nella fortuna della ragion di Stato, in Revue de Synthèse, 2010, Vol. 130, pp. 447-464
José Louis Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano 2001
Giuseppe Nava, Il mito vuoto: L’ultimo viaggio, in Quaderni dell’Accademia pascoliana, n. 9 – 1997
Lorenzo Braccesi, D’Annunzio e l’Ulisse etrusco – pelasgico, in Hesperìa: studi sulla grecità di Occidente, n. 4, pp. 187 – 190