9 Ottobre 2024
Società

In Molle Carne Vermes Nascentur. La devotio latina e la “crisi” dei valori

Alla luce dell’attuale crisi economica sarebbe giusto lavorare anche sullo spirito degli italiani, che appare rammollito da parecchi decenni. Una crisi che, seppure con le dovute responsabilità sul piano economico, è certamente anche fisiologica; non si può desiderare con ingordigia di arricchirsi sempre di più, ed anzi è una pretesa che sfocia nella malattia, secondo il mio punto di vista.

Ho conosciuto bene il popolo peruviano. Nelle Ande, dove mi trovavo, non c’era nemmeno l’illuminazione elettrica. Per le urgenze sanitarie, l’ospedale più vicino era a circa cinque ore di automobile. Le strade nelle Ande sono fatte dai peruviani, chè il governo non se ne cura. Ogni stagione delle piogge è un gran problema, le comunicazioni si bloccano per giorni e giorni.

Questa mattina vi scrivo dal sud est asiatico, nelle Filippine, dove giornalmente ho pieni gli occhi di miseria nera, quella vera:  nelle Filippine ci sono approssimativamente un milione e mezzo di bambini, anche piccolissimi, che vivono – come pure molti adulti – abbandonati nelle strade; da solo, quest’ultimo dato può dare  l’idea delle differenze tra un’ Italia ricca ma colpita dalla recessione e gran parte del resto del mondo.

Ho sempre stimato chi si suicida, ma gli imprenditori che si danno allo sport del tiro al cervello, lasciando famiglie allo sbaraglio, più che povere vittime del sistema, li considero conseguenza di quello che dicevo sopra: un rammollimento degli animi. Suvvia, gli italiani di cento anni fa sapevano sopportare la povertà e l’indigenza assai meglio di questi italioti arricchiti, che dall’“avvento” degli Alleati inseguono solo il valore del benessere. Chi vi parla, a scanso di equivoci, è uno che ha buttato il sangue in una attività commerciale per quasi quattro anni, vessato dallo stato in ogni modo, tasse, burocrazie folli, richieste di denaro da parte della polizia municipale con il ricatto ecc.  A tutt’oggi devo ad Equitalia circa 30 mila euro. Certo, c’é chi deve cedere la casa;  certo, non avendo famiglia mi viene più difficile la comprensione, tuttavia non credo di provare molta compassione per chi si suicida a causa della crisi economica. Questo non contraddice affatto la mia stima per il suicida, la quale si fonda sulle mie letture di classici, di filosofi stoici, di eroi romani. Non mi sento un erudito, ma è con quelle letture che ho formato parte del mio pensiero.

Nell’antica Roma, come si sa, il suicidio non era affatto disdegnato – i Romani non erano un popolo cristiano. Seneca (e in generale gli stoici) è ritenuto per certi versi un precursore di tanti ideali cristiani. Su un tema però bisogna riscontrare una sensibile differenza tra il filosofo e la dottrina cristiana: il suicidio. Così si esprime in una lettera a Lucilio:

«Quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim vivere bonum est, sed bene vivere.
Itaque sapiens vivet quantum debet, non quantum potest. Videbit ubi victurus sit, cum quibus, quomodo, quid acturus. Cogitat semper qualia vita, non quanta sit. [sit] Si multa occurrunt molesta et tranquillitatem turbantia, emittit se; nec hoc tantum in necessitate ultima facit, sed cum primum illi coepit suspecta esse fortuna, diligenter circumspicit numquid illic desinendum sit
»

[«Non è opportuno, lo sai, conservare la vita in ogni caso; essa infatti non è di per sé un bene; lo è, invece, vivere come si devePertanto il saggio vivrà quanto a lungo gli compete, non quanto più può; osserverà dove gli toccherà di vivere, con chi, in che modo e quale sarà la sua attività. Si preoccupa sempre della qualità, e non della quantità della vita: se gli capitano molte cose spiacevoli, e tali da turbare la tranquillità del suo animo, egli si mette senz’altro in libertà. E non lo fa soltanto in casi di estrema necessità, ma appena la Fortuna comincia a diventare sospetta, considera attentamente sotto ogni punto di vista se non sia quello il momento di porre fine all’esistenza »]

Questo non significa che Seneca avrebbe giustificato un imprenditore fallito che si leva la vita;  per gli stoici la felicità coincideva con la virtù, dunque per essere felice l’uomo deve innanzitutto essere virtuoso. É evidente che la forza d’animo è una delle virtù stoiche, ed attraverso questa l’imprenditore troverebbe la via della felicità, piuttosto che imboccare il tunnel della disperazione.

Sempre in una lettera a Lucilio, così si esprime Seneca:

«Nuper in ludo bestiariorum unus e Germanis, cum ad matutina spectacula pararetur, secessit ad exonerandum corpus – nullum aliud illi dabatur sine custode secretum; ibi lignum id quod ad emundanda obscena adhaerente spongia positum est totum in gulam farsit et interclusis faucibus spiritum elisit. […] O virum fortem, o dignum cui fati daretur electio! Quam fortiter ille gladio usus esset, quam animose in profundam se altitudinem maris aut abscisae rupis immisisset! »

[«Recentemente, nel corso di un addestramento di gladiatori per il combattimento di fiere, un germano, mentre si allenava per lo spettacolo del mattino, si allontanò per scaricare l’intestino – non gli era infatti consentito di ritirarsi senza sorveglianza in alcun altro luogo appartato – e si conficcò per intero nella gola quel legno che con una spugna attaccata è posto in quel luogo per la pulizia delle parti intime. Così, ostruitosi l’esofago, esalò l’ultimo respiro[…] Che uomo coraggioso! Come meritava che gli fosse data la possibilità di scegliere il proprio destino! Con quanta forza d’animo d’animo si sarebbe servito della spada, con quanta audacia si sarebbe gettato in un punto profondo del mare o nella scarpata di una rupe a picco! »]

Ed ancora scriveva:

«Is aeger animo et suo vitio miser est, cui miserias finire secum licet. 4. Dicam et illi qui in regem incidit sagittis pectora amicorum petentem et illi cuius dominus liberorum uisceribus patres saturat: ‘quid gemis, demens? Quid expectas ut te aut hostis aliquis per exitium gentis tuae uindicet aut rex a longinquo potens aduolet? quocumque respexeris, ibi malorum finis est. Vides illum praecipitem locum? illac ad libertatem descenditur. Vides illud mare, illud flumen, illum puteum? libertas illic in imo sedet. Vides illam arborem breuem retorridam infelicem? pendet inde libertas. Vides iugulum tuum, guttur tuum, cor tuum? effugia seruitutis sunt. Nimis tibi operosos exitus monstro et multum animi ac roboris exigentes? Quaeris quod sit ad libertatem iter? quaelibet in corpore tuo vena »

[«Se l’animo è malato e miserabile, a causa della sua sofferenza, gli è possibile farla finita con se stesso e il suo dolore. Dirò, sia a colui che si è imbattuto in un re che prendeva di mira con le sue frecce i petti degli amici, sia a colui il cui padrone sazia i padri con i visceri dei suoi figli: ‘Di che gemi, pazzo? Perché aspetti che qualche nemico venga a liberarti, distruggendo il tuo popolo, o che un re potente accorra da terre lontane? Da qualunque parte guardi, c’è la fine dei tuoi mali. Vedi quel precipizio? Da quello, si scende alla libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? La libertà siede là, sul fondo. Vedi quell’albero basso, rinsecchito, malaugurato? La libertà è appesa a quello. Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di scampo alla servitù. Ti mostro forse uscite troppo laboriose e che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Chiedi qual è il sentiero della libertà? Qualunque vena del tuo corpo »]

In quest’ultimo pensiero, io ci leggo un invito a combattere, piuttosto che a lamentarsi. La via di uscita è ovunque, se la si cerca bene.

É tuttavia Seneca stesso in altri frangenti, come spesso gli accadeva e come spesso hanno sottolinealto i suoi nemici, a contraddirsi. Ad esempio egli fu sul punto di suicidarsi in una circostanza, ma cambiò idea in nome del riguardo per i propri cari, che ne avrebbero sofferto.

«Più volte presi di slancio la decisione di spezzare la mia vita, ma ne fui distolto dal pensiero della vecchiezza del mio tenerissimo padre […]. Talvolta anche il vivere è un atto di coraggio  »

Sappiamo poi come egli si aprì le vene immerso in una vasca d’acqua calda, la quale fu però una scelta quasi obbligata, un consiglio che sarcasticamente l’imperatore gli mandò assieme ai sicari. Imperatore il quale pure morì suicida, con l’aiuto della mano di uno schiavo. E tanti, tanti altri suicidi nell’ antichità, ma più che da rovesci dalla fortuna, furono causati da ragioni d’onore, così come pure accadeva tra i nobili samurai del Giappone.

Insomma, il suicidio resta ovviamente una scelta personalissima e non giudicabile. Non giudico il suicidio di quegli sfortunati imprenditori. Ma certo rappresenta l’effetto di un indebolimento dello spirito del popolo, un popolo che come quello statunitense considera logica la frequentazione degli psicoanalisti, un popolo ormai sull’orlo della depressione ad ogni minima difficoltà, e poco propenso al combattimento in senso lato. Ciò che traspare anche dai media, poi, è che in questa cultura alla debolezza egli viene “educato”. Non è meglio la ribellione?

Altro esempio classico di suicidio tra i romani fu la devotio, il rito romano nel quale l’officiante ed offerente era al tempo stesso l’offerta agli dei: un patto nel quale l’uomo, chiedendo una grazia, dava in cambio la propria vita come offerta; ovvero il console, responsabile del rapporto tra esercito e divinità, che si consacrava  agli dei (solitamente in situazioni di estremo pericolo per l’esercito) chiedendo in cambio la vittoria per Roma. Quindi, armato, si lanciava tra le schiere nemiche a cavallo, alla ricerca della morte che avrebbe suggellato il patto con le divinità, ristabilendo la  pax deorum e placando la collera degli dei. Un atto religioso, un rito, le cui più importanti ripercussioni erano di ordine psicologico ed emotivo sui soldati, come è facilmente immaginabile. Ed è anche quello che accadde tra i kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale, quando l’ammiraglio Masafumi Arima si gettò d’impeto con il suo aereo contro una nave americana, seguìto poi, nei giorni, da moltissimi altri giovani giapponesi che si immolarono per la patria. Arima console di Roma: ripeto, la devotio romana era un rito religioso più che un semplice atto d’eroismo. Ma gli effetti sono i medesimi:  simili esempi di spirito di sacrificio, infatti, provocano una vera scarica di adrenalina, che amplificata dalla folla genera un impulso unanime in tutto l’esercito; questi gesti di estremo, sprezzante coraggio stimolano fortemente  lo spirito d’emulazione ed amplificano il senso dell’onore.

Ma questi suicidi rituali causati dai criminali di Equitalia in una società ormai marcita sotto i colpi del consumismo e del capitalismo, marcita nell’assenza di valori veri ed ancestrali, questi poveri imprenditori che “non ce la fanno piu”, rappresentano degli stimoli positivi  per il popolo o andrebbero fermamente condannati? Io credo che il popolo italiano, proprio adesso, vada educato alla forza dello spirito, la quale non può certo essere coltivata nei momenti di fortuna e serenità. Tuttavia non vedo questo interesse da parte di nessuno, giacché anzi in Italia oggi non si fa che piangere e lamentarsi, senza per altro agire in nessuna direzione. Allora, nell’immobilità, sarebbe forse più onorevole la silenziosa sopportazione.

340 a.C.: il console romano Publio Decio Mure combattendo contro I Latini, indossata una toga praetexta e velatosi il capo chiedeva agli dei la distruzione dell’esercito nemico in cambio dalla propria vita:

«Oh GianoGioveMarte padreQuirinoBellonaLari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici. »

Espletate queste formalità religiose, il console si lanciò a cavallo tra le file nemiche. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra in modo eroico, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Questo gesto diede ai suoi una tale fiducia e un tale vigore che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga dell’armata romana, rincuorata dal sacrificio del proprio comandante. La vittoria, alla fine, arrise ai Romani.

Ubi ordo, ibi pax et decor. Ubi pax et decor, ibi laetitia.

Andres Marzio Molise

2 Comments

  • Andres Marzio Molise 15 Dicembre 2014

    SULLA DEVOTIO, DA “ETICA ARIA” DI EVOLA

    “Qui viene anzi da sottolineare che, se all’Occidente moderno è proprio il riconoscimento dei valori della persona, ad esso peraltro è propria anche una accentuazione quasi superstiziosa dell’importanza della vita terrena, che poi, democratizzandosi, doveva dar luogo ai famosi «diritti dell’uomo» e ad una serie di superstizioni sociali, democratiche ed umanitarie. Come controparte di questo aspetto non certo positivo, si è avuta una eguale accentuazione della concezione “tragica”, per non dire «prometeica», cosa che egualmente equivale ad una caduta di livello. Dobbiamo, di contro a ciò, ricordare gli ideali «olimpici» delle nostre più antiche e schiette tradizioni; e per tal via potremo allora comprendere come cosa parimenti nostra un eroismo aristocratico, libero da passione, proprio ad esseri, il centro della vita dei quali sta veramente su di un piano superiore, dal quale si lanciano, di là da ogni tragedia, da ogni vincolo, da ogni angoscia, come forze irresistibili. Qui ci vien da fare una breve rievocazione storica. Benché a pochi sia noto, le antiche tradizioni nostre romane, presentano motivi affini a quelli del dono eroico a fondo perduto della propria persona in nome dello Stato e ai flni della vittoria, che abbiamo visti apparire anche nella mistica giapponese del combattere. Alludiamo alla cosiddetta devotio. I presupposti di essa sono parimenti sacrali. Vi agisce anzi la persuasione generale dell’uomo tradizionale, che forze invisibili sono in atto dietro a quelle visibili e che all’uomo, a sua volta, è possibile influire su di esse. Secondo l’antico rito romano della devotio, quale noi l’abbiamo in vista, un guerriero e soprattutto un Capo può facilitare la vittoria mediante un misterioso scatenamento di forze determinato dal sacrificio deliberato della sua persona, da attuarsi con la volontà di non uscire vivo dalla mischia. Si ricorda l’esecuzione di questo rito da parte del console Decio nella guerra contro i Latini (340 a.C.), come pure la ripetizione di esso — esaltata da Cicerone (Fin. Il 19, 61; Tusc. I. 37, 39)- da parte di altri due rappresentanti della stessa famiglia. Il rito aveva perfino un suo preciso cerimoniale, testimoniante la perfetta consapevolezza e lucidità di questa offerta eroico-sacrificale. Secondo l’ordine gerarchico, venivano anzitutto invocate le divinità olimpiche dello Stato romano, Giano, Giove, Quirino, subito dopo il dio della guerra, Pater Mars, poi gli dèi indigeti, «dèi — è detto — che avete potenza sugli eroi e sui nemici»; in nome del sacrificio che ci si propone di compiere, si invocava di «conceder forza e vittoria al popolo romano dei Quiriti e di travolgere con terrore, spavento e morte i nemici del nostro popolo» (cfr. Livio, VIII, 9). Proposte dal pontifex, le parole di questa formula vengono pronunciate dal guerriero, rivestito dalla praetesta, con un piede su di un giavellotto. Dopo di che, egli si lancia nella mischia, per morire. Di passaggio, sia qui notata la trasformazione del senso della parola devotio. Applicata originariamente a quest’ordine di idee, cioè ad una azione eroica, sacrifìcale ed evocatoria, essa nel basso Impero andò a significare la semplice fedeltà del cittadino e perfino la scrupolosità nel pagamento del fisco (devotio rei annonariae). Secondo le parole del Bouché Lequerq, alla fine, ~sostituitosi al Cesare il Dio cristiano, la devotio significa semplice religiosità, la fede pronta a tutti i sacrifici e poi, per una ulteriore degenerescenza dell’espressione, la devozione nel senso abituale della parola, cioè una preoccupazione costante per la salvezza, affermata in una pratica minuziosa e timorata del culto». Ciò a parte, nell’antica devotio romana abbiamo dunque segni ben precisi di una mistica consapevole dell’eroismo e del sacrificio, presso ad una stretta connessione fra il sentimento di una realtà sovrannaturale e super-umana e la lotta e la dedizione in nome del proprio Capo, del proprio Stato e della propria razza. Né mancano testimonianze circa un sentimento «olimpico» del combattere e del vincere proprio alle nostre antiche tradizioni. Di ciò, ci siamo occupati estesamente altrove. Ricordiamo solo che nella cerimonia del trionfo il duce vittorioso assumeva a Roma appunto le insegne del dio olimpico, ad esprimere la vera forza che in lui aveva determinato la vittoria; ricorderemo ancora che di là dal Cesare mortale la romanità venerò il Cesare come un «vincitore perenne», cioè come una specie di forza superpersonale dei destini romani. Così, se i tempi successivi hanno fatto prevalere altre vedute, pure le tradizioni più antiche ci dimostrano che l’ideale di un eroismo «olimpico» è stato anche un nostro ideale, che anche la nostra gente ha conosciuto l’offerta assoluta, la consumazione di tutta una esistenza in una forza scagliata contro il nemico fino al limite di evocazione di forze abissali; una vittoria, infine, che trasfigura e propizia partecipazioni a potenze superpersonali e «fatali». Così anche sulla base di un retaggio nostro si delineano punti di riferimento in radicale opposizione all’eroismo subpersonale e collettivistico in principio indicato, non solo, ma anche ad ogni visione tragica ed irrazionalistica, che ignora quel che è più forte di fuoco e ferro, di morte e di vita.”

    Julius Evola

  • Andres Marzio Molise 15 Dicembre 2014

    SULLA DEVOTIO, DA “ETICA ARIA” DI EVOLA

    “Qui viene anzi da sottolineare che, se all’Occidente moderno è proprio il riconoscimento dei valori della persona, ad esso peraltro è propria anche una accentuazione quasi superstiziosa dell’importanza della vita terrena, che poi, democratizzandosi, doveva dar luogo ai famosi «diritti dell’uomo» e ad una serie di superstizioni sociali, democratiche ed umanitarie. Come controparte di questo aspetto non certo positivo, si è avuta una eguale accentuazione della concezione “tragica”, per non dire «prometeica», cosa che egualmente equivale ad una caduta di livello. Dobbiamo, di contro a ciò, ricordare gli ideali «olimpici» delle nostre più antiche e schiette tradizioni; e per tal via potremo allora comprendere come cosa parimenti nostra un eroismo aristocratico, libero da passione, proprio ad esseri, il centro della vita dei quali sta veramente su di un piano superiore, dal quale si lanciano, di là da ogni tragedia, da ogni vincolo, da ogni angoscia, come forze irresistibili. Qui ci vien da fare una breve rievocazione storica. Benché a pochi sia noto, le antiche tradizioni nostre romane, presentano motivi affini a quelli del dono eroico a fondo perduto della propria persona in nome dello Stato e ai flni della vittoria, che abbiamo visti apparire anche nella mistica giapponese del combattere. Alludiamo alla cosiddetta devotio. I presupposti di essa sono parimenti sacrali. Vi agisce anzi la persuasione generale dell’uomo tradizionale, che forze invisibili sono in atto dietro a quelle visibili e che all’uomo, a sua volta, è possibile influire su di esse. Secondo l’antico rito romano della devotio, quale noi l’abbiamo in vista, un guerriero e soprattutto un Capo può facilitare la vittoria mediante un misterioso scatenamento di forze determinato dal sacrificio deliberato della sua persona, da attuarsi con la volontà di non uscire vivo dalla mischia. Si ricorda l’esecuzione di questo rito da parte del console Decio nella guerra contro i Latini (340 a.C.), come pure la ripetizione di esso — esaltata da Cicerone (Fin. Il 19, 61; Tusc. I. 37, 39)- da parte di altri due rappresentanti della stessa famiglia. Il rito aveva perfino un suo preciso cerimoniale, testimoniante la perfetta consapevolezza e lucidità di questa offerta eroico-sacrificale. Secondo l’ordine gerarchico, venivano anzitutto invocate le divinità olimpiche dello Stato romano, Giano, Giove, Quirino, subito dopo il dio della guerra, Pater Mars, poi gli dèi indigeti, «dèi — è detto — che avete potenza sugli eroi e sui nemici»; in nome del sacrificio che ci si propone di compiere, si invocava di «conceder forza e vittoria al popolo romano dei Quiriti e di travolgere con terrore, spavento e morte i nemici del nostro popolo» (cfr. Livio, VIII, 9). Proposte dal pontifex, le parole di questa formula vengono pronunciate dal guerriero, rivestito dalla praetesta, con un piede su di un giavellotto. Dopo di che, egli si lancia nella mischia, per morire. Di passaggio, sia qui notata la trasformazione del senso della parola devotio. Applicata originariamente a quest’ordine di idee, cioè ad una azione eroica, sacrifìcale ed evocatoria, essa nel basso Impero andò a significare la semplice fedeltà del cittadino e perfino la scrupolosità nel pagamento del fisco (devotio rei annonariae). Secondo le parole del Bouché Lequerq, alla fine, ~sostituitosi al Cesare il Dio cristiano, la devotio significa semplice religiosità, la fede pronta a tutti i sacrifici e poi, per una ulteriore degenerescenza dell’espressione, la devozione nel senso abituale della parola, cioè una preoccupazione costante per la salvezza, affermata in una pratica minuziosa e timorata del culto». Ciò a parte, nell’antica devotio romana abbiamo dunque segni ben precisi di una mistica consapevole dell’eroismo e del sacrificio, presso ad una stretta connessione fra il sentimento di una realtà sovrannaturale e super-umana e la lotta e la dedizione in nome del proprio Capo, del proprio Stato e della propria razza. Né mancano testimonianze circa un sentimento «olimpico» del combattere e del vincere proprio alle nostre antiche tradizioni. Di ciò, ci siamo occupati estesamente altrove. Ricordiamo solo che nella cerimonia del trionfo il duce vittorioso assumeva a Roma appunto le insegne del dio olimpico, ad esprimere la vera forza che in lui aveva determinato la vittoria; ricorderemo ancora che di là dal Cesare mortale la romanità venerò il Cesare come un «vincitore perenne», cioè come una specie di forza superpersonale dei destini romani. Così, se i tempi successivi hanno fatto prevalere altre vedute, pure le tradizioni più antiche ci dimostrano che l’ideale di un eroismo «olimpico» è stato anche un nostro ideale, che anche la nostra gente ha conosciuto l’offerta assoluta, la consumazione di tutta una esistenza in una forza scagliata contro il nemico fino al limite di evocazione di forze abissali; una vittoria, infine, che trasfigura e propizia partecipazioni a potenze superpersonali e «fatali». Così anche sulla base di un retaggio nostro si delineano punti di riferimento in radicale opposizione all’eroismo subpersonale e collettivistico in principio indicato, non solo, ma anche ad ogni visione tragica ed irrazionalistica, che ignora quel che è più forte di fuoco e ferro, di morte e di vita.”

    Julius Evola

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