“Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” è un verso della lirica 5 maggio del Manzoni, in morte di Napoleone. L’intellettuale si inchinava alla fine della tumultuosa avventura terrena dell’uomo di Ajaccio, riconoscendone la fosca grandezza dopo aver evitato di unirsi al coro di adulatori interessati e di nemichi vigliacchi. È lo stesso sentimento che ci anima alla morte di Silvio Berlusconi, uno che- segretamente- credevamo immortale. Si è arreso alla fredda sorella dopo averla combattuta, esorcizzata, negata con tutte le forze. Finito il percorso, di lui resta la storia.
E’ forse l’unico italiano che, negli ultimi decenni, abbia fatto la storia. Quaranta anni e più, se teniamo conto della sua straordinaria parabola imprenditoriale. Inventore della televisione commerciale in Italia, costruttore di città (Milano 2), geniale imprenditore sportivo, con il suo Milan vincitore di innumerevoli trofei, editore, finanziere. Ma soprattutto, l’uomo che, un giorno di fine 1993, decise di “scendere in campo” – la metafora sportiva entrata nel linguaggio comune- fondare dal nulla un partito, Forza Italia, un nome geniale, e pochi mesi dopo compiere il miracolo di vincere le elezioni con una strana coalizione a due gambe, una con la Lega di Bossi al Nord, l’altra con il Msi sulla strada di diventare Alleanza Nazionale nel resto d’Italia.
Fu – sembra incredibile parlare al passato di un uomo di tale vitalismo- l’uomo che spezzò l’egemonia politica della sinistra, ma non seppe – o non volle fino in fondo- combatterne l’egemonia culturale. Sbarrò la strada al trionfo – sarebbe probabilmente durato una generazione- della “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, comunista diventato ex solo dopo il crollo sovietico. Chi scrive non lo ha votato mai, e dopo il fatidico 1994 non votò più per il centrodestra. Poiché mai fu berlusconiano, ha la presunzione di scrivere “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”.
Non ci piaceva il suo atlantismo urlato, l’amore servile per gli Stati Uniti, il liberalismo rozzo dell’imprenditore che si è fatto da sé, insofferente alle regole, l’esibizionismo della ricchezza, la vita privata e intima ostentata, sopra le righe, incoerente con la proclamazione pubblica di principi familiari e spirituali tradizionali. Abbiamo detestato spesso le sue televisioni fatte di colonizzazione culturale consumistica, interminabili sequenze di “consigli per gli acquisti”, diffusione di modelli comportamentali ed esistenziali distruttivi. Poche altre entità come le TV berlusconiane hanno contribuito all’impoverimento culturale e all’americanizzazione della nostra gente.
Apprezzavamo invece il suo sforzo di rendere popolare l’impresa in un paese che, nel connubio della cultura comunista e di buona parte di quella cattolica, ha sempre ostacolato le migliori energie, costringendole all’esilio o al compromesso al ribasso. Divenimmo furiosi quando pubblicizzò (il verbo berlusconiano per eccellenza) l’idea delle tre “I” destinate a trasformare l’Italia: Internet, Impresa, Inglese. Tre mezzi, nessuno scopo, se non l’arricchimento e il successo personale a spese dell’identità – personale e nazionale- della cultura e di modelli di vita non orientati solo al denaro.
Tuttavia, non ci sentiamo di esprimere un giudizio totalmente negativo del ciclone Silvio. Per ripetere una battuta che abbiamo spesso rivolto polemicamente ai suoi nemici, non vedevamo granché di positivo in quell’uomo dal sorriso di venditore di auto usate pieno di eccessi, ma qualcosa di buono doveva esserci in lui, per scatenare l’odio forsennato che lo ha accompagnato per decenni. Un uomo si giudica dalle azioni – e Berlusconi lascia moltissimo – ma anche dai nemici che si fa. Non esitiamo ad affermare che i nemici del cavaliere di Arcore (ex, dopo la condanna penale che lo privò del titolo) sono stati e restano la parte peggiore dell’Italia, che essi chiamano “questo paese”. Conosciamo per esperienza diretta l’odio dei comunisti, dei cattolici sinistri e affini: non c’è nulla di più volgare, violento, incontenibile del loro rancore, nutrito di invidia sociale, incapacità di comprendere le ragioni dell’altro e di accettarne la stessa esistenza.
Berlusconi, dopo Mussolini (ma ci furono due guerre, una perduta e una civile) è stato l’uomo più odiato della nostra storia. Guarda caso, dopo altri politici invisi all’armata rossa della politica, della cultura, dell’editoria, dell’ordine giudiziario, della stampa, del popolo di sinistra orfano di tutto, fuorché del rancore. Mario Scelba negli anni Cinquanta, Amintore Fanfani negli anni Settanta e Bettino Craxi sino alla sua ingiusta morte in esilio – o in latitanza, scelga ciascuno il termine che preferisce- per una malattia probabilmente curabile in strutture mediche che la Tunisia in cui si ritirò non possedeva.
Ma l’odio contro Silvio è durato più a lungo, nutrito di una miscela indigeribile fatta di retorica ideologica, settarismo, invidia per il successo e la ricchezza, convinzione che si trattasse di un volgare malavitoso, un mascalzone di successo entrato in politica solo per “farsi i fatti suoi”. Possibile, ma gli sarebbe bastato offrire un canale televisivo alla propaganda di sinistra per vivere in pace e godersi denaro, ricchezza, il suo Milan, le donnine, le “cene eleganti”.
L’odio di milioni di persone è stato compensato dall’affetto di molti e dalla convinzione di altri, non berlusconiani, per i quali “meno male che Silvio c’è.” Senza di lui non avremmo avuto la rinascita politica di culture politiche riformiste, nazionali, liberali, autonomiste, conservatrici. Senza di lui, molti italiani non avrebbero verificato di che cosa sono capaci gli “amici del popolo” contro gli avversari. Silvio non era un angelo; saprà il Creatore giudicarlo per il bene e per il male. Certo, stupisce che la condanna in base alla legge Severino – assai dubbia per la sua retroattività, proibita sin dal diritto romano- per un caso di evasione fiscale non sia stata estesa a un italiano sopravvalutato e iper adulato, Giovanni Agnelli, che non sopportò mai il parvenu milanese. L’Avvocato poteva non sapere delle marachelle della Fiat, il Cavaliere conosceva a menadito ogni dettaglio contabile del suo gruppo. Teorema, come teoremi sono e spesso rispuntano nella narrazione avversa- gli innumerevoli reati attribuiti al cavaliere.
Pochi hanno subito l’accanimento giudiziario come lui: siamo convinti che il creatore sarà più indulgente dei procuratori milanesi. Lui, diciamolo, ci ha messo molto del suo a offrire il fianco ai nemici con una vita esagerata. Resta indelebile l’affronto di un avviso di garanzia – all’epoca una specie di condanna inappellabile da tribunale rivoluzionario – mentre presiedeva un vertice internazionale nel 1994. Così come fu un golpe bianco la manovra internazionale- condotta con la complicità di ampi settori dello Stato- nel 2011, per scalzarlo dal potere e sostituirlo con un governo del funzionario dei poteri finanziari Mario Monti, nominato senatore a vita in tempo reale. Restano i sorrisetti di Sarkozy – che vede oggi spalancarsi le porte del carcere per malversazione- e della Merkel, i concorrenti dell’Italia nello scacchiere europeo. Resta il ricordo della gioia selvaggia tutta italiana di chi fu felice di aver disarcionato il cavaliere con l’intervento straniero. Da quel fatidico 2011, peraltro, le cose non sono migliorate affatto, nonostante il bilancio dei governi berlusconiani sia stato tutt’altro che esaltante.
Pure, rimangono anche i tentativi – coronati da successo, non perdonato soprattutto dai cugini (nemici) francesi – di assicurare all’ Italia energia a buon prezzo, attraverso gli accordi con Gheddafi, poi assassinato per mano occidentale- e con l’innominabile di oggi, Vladimir Putin. Soprattutto, siamo convinti che, nonostante tutto, Silvio Berlusconi abbia amato l’Italia, come la amarono Craxi e un altro grande assassinato dagli interessi stranieri, Enrico Mattei. Non si può dire la stessa cosa di funzionari dell’oligarchia come Monti, Draghi, dello stesso Prodi, che sconfisse Berlusconi ma è ricordato soprattutto in quanto suo avversario, non certo per il suo contributo alla nazione.
Dovremmo anzi rammentare più spesso che accettò l’assurdo cambio lira-euro, svendette pezzi d’Italia al gruppo De Benedetti, l’arcinemico di Silvio cittadino svizzero, e consegnò una laurea honoris causa a George Soros, l’uomo che distrusse la lira nel 1992 per conto della finanza internazionale, con la complicità del gotha economico e bancario italiano.
Berlusconi non ha fatto molto, non ha salvato l’Italia e non ha realizzato la sua dubbia rivoluzione liberale, ma non ha venduto il suo paese, che, siamo certi, considerava Patria. Come molti uomini dall’ego ipertrofico, si è spesso circondato di inetti o adulatori, da donnette che ha elevato a cariche di Stato, gran parte dei e delle quali lo ha abbandonato come fanno i topi quando la nave è in pericolo.
Per questo e per la solidarietà che si proviamo verso chi è stato oggetto di un odio smisurato e di attacchi di inaudita bassezza, rendiamo l’onore delle armi a un italiano che è nella storia, che ha fatto la storia, nel bene e nel male. Parce sepulto, certo, rispetto per il mistero della morte che cancella l’uomo, non le sue opere, ma anche la memoria di uno dei pochi italiani che abbia contato qualcosa nell’ultimo mezzo secolo. Come sempre capita, avversato più per le sue ragioni – che erano spesso quelle della maggioranza del nostro popolo – che per i suoi torti, molti e qualcuno imperdonabile. Che la terra ti sia lieve, Silvio. Eri comunque migliore dei tuoi tanti nemici.
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