Rivolgendosi alla folla, ‘raccolta sul mercato’, in attesa ‘che un funambolo vi avrebbe dato spettacolo’, Zarathustra le si rivolge annunciando l’avvento del superuomo, di colui che sarà ‘il senso della terra’. Inascoltato incompreso deriso, decide di parlare ‘loro dunque di ciò che è più spregevole; cioè dell’ultimo uomo’. Dalla Prefazione del Così parlò Zarathustra (utilizzo l’edizione del 1937, casa editrice apuana). Colui che ci rappresenta nell’età del nichilismo. Vi è derisione e vergogna verso la scimmia, però, quanto l’uomo ancora è simile al suo progenitore. Ne siamo immersi, circondati, ne siamo prigionieri. Se ‘l’ultimo uomo’ è il qui e l’ora perché stupircene? Nietzsche ci aveva ammonito come ‘l’oggi appartiene alla plebe’. E il traduttore è stato accorto nell’utilizzare non il termine ‘popolo’ che rappresenta altro ed alto (ad esempio, per citare Josè Antonio, ‘una unità di destino nell’universale’). Volgo, volgarità…
Sorprendersi e perché?
Le idee e lo stile e le battaglie e la comunità e il patrimonio di sangue e di bastoni e barricate e poi sbarre chiavistelli latitanza – penso ai miei cinquanta anni ed oltre di ciò che si chiamava un tempo con orgogliosa vanteria ‘militanza’, umile e condivisa e sempre nella mente e nel cuore – ormai vittime di carnefici da tastiera squadristi da Predappio clown di moralisti beceri e arroganti – cerchietti rossi su nomi dei reprobi proscritti esuli, ‘ti cancello’, ‘escluso’ da…facebook –. Ancora Nietzsche: ‘Là dove c’è uno stile, là è passato un Capo’. Se questa, però, è la deriva, allora bisognerà volgere lo sguardo ai BL 18 al ‘santo’ manganello un po’ di olio di ricino il gagliardetto strade polverose case del popolo devastate ‘pugnal fra i denti, le bombe a mano’…
Anarco-fascismo.
Intorno a questo anniversario 28 ottobre 1922 – ormai prossimi al suo centenario – dove lo squadrismo vide il proprio (illusorio) trionfo sfilare per le vie di Roma e il suo declino (inevitabile?) sfilare sotto il Quirinale per omaggiare ‘sciaboletta’, il traditore futuro di quell’otto settembre del ’43, e i labari benedetti da compiacenti pingui vili prelati (altro erano stati molti cappellani militari). Ogni Rivoluzione – e, nonostante i molti malevoli storici d’accatto, la neghino, parlando di ‘colpo di stato’, pagliacciata e simili scempiaggini, la Marcia su Roma fu tale – porta in sé, maledetta la necessità del contingente del momento storico del compromesso, lo snodarsi di una catena a serrarne le spinte più estreme inquiete irriverenti.
(Al Terrore dei Giacobini protesi alla ricerca della felicità rousseauiana tramite la ghigliottina la reazione del Termidoro si contrappose con la ghigliottina borghese e poi Napoleone Imperatore. E Lenin e l’incrociatore Aurora e la conquista del Palazzo d’Inverno e i Soviet, operai e soldati in armi, finirono inutili icone a legittimare Stalin e le Grandi Purghe e il gulag e un apparato burocratico impietoso e opprimente. Si salvò, da questo declino, da questo marciume, il Nazionalsocialismo – dodici anni e tre mesi furono un tempo tanto intenso ma troppo breve per stabilire realizzazione o decadenza del Tausend-Jahr- Reich, il Reich millenario).
Paradossale, forse o forse no.
Italo mi suggerisce di guardare la Newsletter Libreria di Ar. Accanto all’intervista a Franco Freda e alla sua infanzia, vi hanno inserito, spontaneamente e in autonomia, ‘un bell’articolo di Mario Michele Merlino’ dal titolo Per una nuova Aurora. Già, me ne rendo conto, avendo in esso citato la recente ristampa de La conquista di Berlino di Joseph Goebbels, sempre per le Edizioni di Ar, e riferendomi alla presentazione da Raido a cura dell’amico Maurizio Rossi. Grazie, comunque, per quel ‘bello’… E’ stato il convegno, tenutosi a Benevento, fine agosto, in cui vi era (doveroso) omaggio al professore Goffredo Coppola – nativo di quei luoghi, fucilato a Dongo il 28 aprile ’45 con i fedelissimi del Duce – a determinare un breve incontro, poche parole, cultura e garbo, una stretta di mano tra Freda, editore di alcuni brevi saggi di Coppola, tra il pubblico, silente e attento, e il sottoscritto che, insieme a Rodolfo, relazionava sugli intellettuali nella R.S.I..
Così, direi del tutto casuale – ‘la ruota del tempo’ simile a quell’’eterno ritorno’ di cui Nietzsche ne La Gaia Scienza ne ricorda l’intuizione. Per diciassette anni – dal 12 dicembre del ’69 al gennaio dell’’86 – le nostre esistenze, le vicende processuali si sono intrecciate accavallate rincorse e mai si sono incontrate. Con pochi squarci di luce e persistenti nebbie. In questo successivo lungo trascorrere del tempo mai ho avvertito la necessità di colmare la lacuna, anzi, in qualche misura mi ero ripromesso il contrario. Grazie, dunque, all’invito dell’ass. Generoso Simeone che ha spezzato le prigioni – autentiche o fittizie – di cui sovente siamo noi stessi gli edificatori… Paradossale? Intanto coloro che tracimano la mia storia – non certo il suo senso, che richiede ben altra statura –, con i suoi simboli nobili le vicende che l’hanno resa un qualcosa d’altro e d’alto, si accontentano – o appartiene al limite strutturale del loro orizzonte – premere con anonimi ‘conoscenti’ affinché mi tolgano ‘l’amicizia’ su fb… Guitti da circo di periferia, tra dispregio inutile e voglia di tenerezza.
Paradossale, in questo alternarsi di luci e ombre, in cui immerso quando, prossimo il tramonto ogni immagine si deforma e trascolora, non ti curi del giorno a venire ma ti sforzi di fissare l’ultimo tratto di strada e il senso o il non senso della percorrenza. Mi è capitato in più d’una occasione di trovarmi sul ciglio del cammino – una notte, ad esempio, nel silenzio io solo e luna e stelle con il ‘mio’ canto libero verso Heidelberg dopo essermi attardato a bere birra e sognare bivacchi sul fronte dell’Est –, quando il buio impedisce proseguire con l’autostop. Cerchi un prato d’erba soffice srotoli il sacco a pelo fumi l’estrema sigaretta e pisci, getto robusto e sicuro, contro il tronco dalla corteccia antica.
Il ‘senso della terra’ – ecco rinnovarsi tramite lo Zarathustra l’esortazione con cui il filosofo e noi abbiamo iniziato queste riflessioni – si abbarbica e risale e domina, da radici profonde e lontanissime, il tuo corpo allora e giovane e ardito e fiero. Ecco il solstizio d’inverno, grazie ad Adriano Romualdi che ci educò ad amarlo, trascorso intorno al cerchio ‘magico’, con il canto a tenerti sveglio e rinnovare il patrimonio originario della comunità, ma anche scegliere di viverlo in solitudine, inerpicandosi per qualche sentiero ove ti sono unici compagni e il sibilare del vento e cime d’alberi ondeggianti e l’istinto atavico di diffidare dell’oscurità. Randagio è ormai l’eroe dei nostri giorni, proscritto ed esule…
Paradossale, forse o forse no.
Il salone ampio rumoroso affollato sui tavoli il vino e il pane volti di data immemore e di nuova generazione – 28 ottobre 2016 –. Troppe però le assenze, simili a cicatrici, il segno di lacerazioni recenti. Insanabili. Che ci faccio io, qui, mi chiedo? Mancano le rievocazioni – avrei potuto dire qualcosa, ma la voce dentro suona già in sé stonata –; mancano le canzoni, un po’ becere e retoriche e avvinazzate eppure per una volta, in questa sera cantate con cuore generoso e un po’ ipocrita; manca quella atmosfera in nero dove ognuno, ad occhi aperti e trasognati, torna ad essere vecchia fotografia immagine sfocata di un’Italia che non abbiamo conosciuto eppure c’è cara.
Cosa passò nella mente d’ogni squadrista, mentre percorreva le strade della Città, il sampietrino antico e sconnesso, all’ombra di storie raccolte dai libri di scuola, ed ora con la camicia nera il sogno – illusione inganno – d’una Italia redenta e rinnovata? Si rese consapevole subito o presto che sarebbe divenuto anonimo ‘soldato postumo’ di una rivoluzione che abbandonava la rissa la sfida lo sberleffo perché il governare altro richiede, compreso il compromesso? Eppure, con i tanti giovani e giovanissimi, i volontari dell’ora estrema, egli riprese lo spirito mai domo, custodito in un cassetto con la pistola il fez e il ‘santo’ manganello, gettò alle spalle le delusioni l’amarezza i troppi disinganni e accettò di farsi accoppare all’angolo della via in qualche androne sterrato viottolo di campagna all’ombra dei pioppi allineati.
Richiamo ineludibile. Eco di canti sudore bastonate adrenalina. Non apparteneva alla razza de ‘l’ultimo uomo’, di quella razza prossima a venire, egli fu sangue ossa e carne dove, in sinergia, coabitavano l’onore le idee e il prezzo da pagare… Cosa contano allora i nostri malumori insofferenze miserie – tutta la pochezza dell’ora – se ci furono cari gli uomini e le idee di quel tempo eroico? ‘Volere il nostro dovere’ o, in modo icastico e tutto mio, ‘faccia al sole e in culo al mondo!’…