L’ERA DEL SOGNO DEL PICCOLO HANS.
Se ci fosse chiesto di raffigurare l’uomo faustiano, campione dell’azione, ricorreremmo all’immagine di qualcuno affannato attorno ad un globo con in mano un metro, un compasso ed un computer. Il punto è che dopo aver misurato ogni cosa, descritto, definito e classificato qualunque creatura presente sulla terra, a partire da se stesso, aver intrapreso viaggi, organizzato imprese, realizzato innumerevoli scoperte a scopo di dominio, sviscerato i meccanismi di funzionamento delle forze naturali, aver preteso di fare esperienza di qualunque possibilità materiale, Faust è insoddisfatto, inappagato quanto all’inizio della sua avventura. Anzi, è preda dell’angoscia di chi sa che, di fatto, non padroneggia davvero alcuna forza, e il filo di cui brandisce orgoglioso un capo si spezza e si divide in troppe parti.
Nell’invenzione poetica, Heinrich Faust promise di cedere l’anima a Mefistofele, daemon ex machina, allorché, finalmente felice, avesse pronunciato la fatidica frase rivolta all’attimo: “Fermati, dunque, tu sei così bello!” Comprese tuttavia che l’attimo, nell’azione, non si può fermare e neppure idealizzare. Dopo quell’attimo, mille altri se ne pretendono più belli, tanto che perfino Mefistofele sembra avere pietà della sua disfatta: “nessun piacere lo sazia, e non gli basta felicità alcuna e così continua ad inseguire forme mutevoli.” Nella realtà, siamo arrivati a scavare nel profondo di noi stessi, negli angoli più bui dell’umanità, convincendoci che lì c’è la verità e la motivazione dei nostri guai di creatura che rifiuta di essere tale.
Sigmund Freud, nella Vienna ribollente della finis Austriae, lavorava alla nuova scienza della psicologia e, insoddisfatto, studiando un bimbo di cinque anni, il piccolo Hans che aveva terrore dei cavalli dai quali veniva morso nei sogni, pervenne ad una conclusione che ha segnato l’ultimo secolo della vicenda dell’uomo occidentale. Secondo il medico ebreo viennese, il bimbo, che dopo la nascita della sorellina aveva notato in lei l’assenza del pene, era entrato in competizione sessuale con il padre per il “possesso” e l’amore della madre. Di qui il sogno di Hans, in cui i cavalli simboleggiano il padre deciso a colpire e punire il figlioletto rivale. In un mondo privato dei simboli, ma ansioso di segni, ridotto ai calibri del geometra ed alla rigorosa determinazione delle quantità, l’unico simbolo ammesso divenne quello freudiano dei sogni interpretati secondo la nuova teoria, chiamata psicanalisi.
L’uomo fu ridotto al suo inconscio in lotta con i principi del mondo esterno (Super Io), l’etica stessa ed i sentimenti morali definiti sublimazione di istinti erotici sotterranei, il principio non fu più l’azione, ma, giù in basso, la libido, il principio di piacere. Nacque un Faust nuovo, sotterraneo, abitatore delle fognature dell’animo, privo di una vera coscienza, posto in grado di sfuggire al principio di responsabilità, giacché ogni sua azione era diventata, coattivamente ed inevitabilmente, la risposta a spinte o pulsioni incontrollabili in quanto inconsce. L’arma finale, la bomba definitiva che rendeva superflua l’azione stessa di Mefistofele, il delitto perfetto contro il Bene ed il Male. La stessa Azione diventava ciò che è ancora: inerzia, riflesso condizionato, istinto da sublimare attraverso la potenza della Tecnica.
Nel frattempo, l’ideologia della crisi pervadeva tutti i domini della cultura e dell’arte. Solo la Scienza sembrava trionfare. Un paio di eventi hanno cambiato la prospettiva, ma non ancora mutato in profondità il paradigma. Se nella scienza Paul Feyerabend ha celebrato l’assenza di metodo e la fisica ha in parte superato Newton attraverso la teoria dei quanti e lo studio dell’infinitamente piccolo, il positivismo è ancora padrone del campo nella biologia di Darwin, posta a fondamento dell’ideologia liberalcapitalistica nella sua pretesa del mercato libero, a prevalenza del più forte ed adattivo. L’arte continua a ritrarre sogni malati, talora autentiche follie ed a negare all’uomo lo statuto di creatura: o è il Dio di se stesso o è l’incarnazione del male e delle forze infere.
Ci sono ormai due Faust, uno che prosegue superbo il suo cammino di dominatore sino a teorizzare non l’Olteruomo, ma il Transumano, e il suo gemello che si parla addosso, e osserva con disperazione non più il suo ombelico, ma la propria oscurità disperante dal lettino dello psicoanalista. Al primo, occorre ricordare almeno i teoremi di Goedel, il grande logico amico di Einstein. Con il primo dimostrò per via matematica, dunque perfettamente galileiana, interna al paradigma vigente, l’incompletezza delle grandi teorie formali, che sono sì vere, ma dimostrabili solo attraverso formule o linguaggi non dimostrabili che all’interno del sistema stesso. Esse non sono dunque in grado di fornire una descrizione esaustiva di ciò che è vero. L’altra grande scoperta del matematico moravo fu che nessuna teoria può autofondarsi, ma ognuna deve ricorrere ai fondamenti di una teoria più potente.
Al secondo Faust, erede del piccolo Hans, prigioniero del fango di una stranita umanità notturna totalmente priva di ordine, speranza e responsabilità, dobbiamo far presente che la ragione umana è in grado di riconoscere il bene ed il male, ed ha il potere di scegliere. L’albero del bene e del male esiste e, comunque la si pensi in materia spirituale o religiosa, è il luogo in cui vive la scintilla di grandezza e di nobiltà dell’uomo. Basta dunque con la corsa forsennata verso gli istinti, a quel misero carpe diem che non ha più alcunché della dignità di Orazio, ma è quell’attimo che non si può fermare e che, con buona pace di Faust, non è poi tanto bello. A ben guardare, non vi è nulla di più pessimistico del cogliere l’attimo, niente che esprima maggiore sfiducia nell’essere umano, minore speranza nelle virtù che possiede, da scoprire nella riflessione ed esercitare nell’azione, ma solo se si convince che in principio non era la semplice parola, o l’equivoca azione, ma il Verbo, ossia che esiste qualcosa di superiore, di Altro, per alcuni immanente, per molti altri trascendente, che orienta, dà senso e direzione.
A questo richiamava Johann Wolfgang Goethe, ed è incredibile che un artista di tale spessore e dagli interessi tanto vasti sia così poco letto da noi, se non per I dolori del giovane Werther e per gli echi del suo Viaggio in Italia.
FERMATI, FAUST!
Nessun pensatore meglio di Friedrich Nietzsche ha riassunto la corsa dell’Azione. La volontà di potenza – wille zur macht– è l’immagine di Faust. Ciò che il solitario di Sils Maria capì nell’ultimo scorcio del XIX secolo è che l’uomo europeo moderno è realmente una corda tesa tra la bestia e l’Oltreuomo. Per motivi opposti, a mo’ di polarità che si respingono ed attraggono nel medesimo attimo, è wille zur macht tanto il delirio di onnipotenza che spinge “avanti”, che il “cupio dissolvi” verso il basso dell’uomo psicanalitico. Sempre lo stesso titanico correre a perdifiato; da un lato per conseguire sempre nuovi obiettivi di dominio e conoscenza, il compulsivo porre nuove bandierine sulle vette di potenza dell’Uomo-Dio, dall’altro per togliere da sé le responsabilità e le conseguenze dell’Azione. E’ colpa delle pulsioni, sono gli istinti, non è riuscita la proiezione, non è avvenuta la sublimazione, l’Es ha vinto ancora.
Per fortuna negli ultimi vent’anni la psicanalisi (e soprattutto l’idea di uomo che esprime) ha subito sconfitte ed altolà da parte di una scienza più rigorosa, ma il danno è fatto, specie negli Stati Uniti, dove il regno freudiano si è imposto sin dalla fine degli anni Trenta del Novecento per poi propagarsi e dilagare nell’Europa occidentale. Persino il diritto penale è stato attraversato da un ciclone: come si possono perseguire i delitti se gli autori si sono convertiti in semplici agenti esecutori dell’ inconscio, privo, ovviamente, di personalità giuridica? Con una torsione parareligiosa, anche il peccato cristiano, per essere tale, necessita di “piena vertenza e deliberato consenso”. Ma il giudice è un altro, l’Altro per eccellenza.
Il relativismo etico qui sconfina nel nichilismo, ed ancora una volta il primo a comprenderlo fu il figlio del pastore protestante Nietzsche, che sperimentò su di sé la drammatica solitudine dell’uomo lasciato solo di fronte ad un Dio lontano e sostanzialmente inutile. E’ l’Azione come scopo a sfociare inevitabilmente nel nulla. Ezra Pound scrisse di amare le idee che diventano azioni, e non saremo noi a screditare la volontà che cambia il mondo in nome della responsabilità e della speranza. Se tuttavia l’azione non è preceduta dalle idee, non è altro che frastuono, vagabondaggio, gara di velocità.
L’altro Faust cerca di sfuggirvi esiliandosi dalla realtà. Fautore più o meno consapevole di una isterica volontà d’impotenza, agisce nel senso di distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino. Di qui la negazione di ogni principio ricevuto, l’orrore per l’autorità, la corsa forsennata a negare le identità. Quella del popolo cui appartiene e dei valori in cui esso si è riconosciuto, all’inizio, ma poi, sempre più in basso, fino al disconoscimento dell’identità sessuale. Dio li fece maschio e femmina, ma si sbagliava, adesso siamo arrivati noi a mettere le cose a posto, e comunque Dio non esiste. Anzi, poiché Dio esiste e sono io, deciderò da me chi sono, e la mia scelta vale solo per oggi. Domani si vedrà. Non ho voluto padri, li detesto perché mi hanno generato a loro immagine, mi hanno imposto un nome e attribuito un sesso, o forse un genere, mi hanno cresciuto in una certa cultura senza chiedere il mio permesso. Ergo, non voglio figli, o, se proprio l’istinto, o l’orologio biologico premono su di me (ma quale “me”, l’Ego, l’Es, il Super Io o che altro?) me li posso procurare sul mercato, pagando, scegliendo, agendo.
Una corsa verso il basso che non sembra conoscere, in Occidente, alcuno stop. La stessa eugenetica è una vergogna se viene dai nazisti, ma una moderna opportunità se rivestita dall’aura del progresso scientifico e dell’apertura al nuovo che avanza a passo di corsa. Due nichilismi si incontrano nell’Azione e, prosaicamente, nella Tecnica dominata dal Mercato. Sullo sfondo, l’ io minimo del narcisismo di massa, della sazietà di chi, come il Trimalcione del Satyricon, terminate le gozzoviglie, si provoca il vomito per poter ricominciare. Lasciateci in pace, invocano i narcisisti “agiti”, vogliamo, dobbiamo, ricominciare ogni giorno. Del resto, che faremmo, se accettassimo l’angoscia, il timore e tremore di chi si guarda attorno, si sofferma, riflette, e, orrore massimo, contempla e si ferisce gli occhi con il Nulla?
Il Faust letterario è salvato dalla Cura. La scena relativa, potentissima ed evocatrice fu scritta forse nel 1825, da un Goethe ormai vecchio (nacque nel 1749 a Francoforte sul Meno, oggi patria dei banchieri centrali europei, ed aveva dunque superato i 75 anni) rammenta il Macbeth scespiriano che incontra le tre streghe nella brughiera scozzese (“Bello è il brutto, e brutto il bello”, il rovesciamento dei valori per brama di potere) e l’ Eneide virgiliana, allorché Enea scende all’inferno e vi incontra le figure del dolore, della cura, della vecchiaia ed altre.
Solo la Cura può entrare nella casa di Faust. Egli sta infatti rinunciando alla Magia (oggi diremmo alla Tecnica ed alla Ragione scientifica) e rientra in ciò che è semplicemente umano. La sua ansia lancinante di libertà si rivolge ora contro ciò che ha evocato e preteso da Mefistofele; d’ora in poi crederà solo nella sua qualità di uomo, e nella corrispondente volontà, natura e Cura. E’ curioso che il vocabolo tedesco “sorge”, cura, contenga una potenza descrittiva ed un significato che si perdono nella nostra lingua. Ci aiuta, al di là delle acrobazie verbali di cui fu criptico maestro, Martin Heidegger. Anche per lui la Cura ha un profondo significato: essa è, addirittura, ciò che determina “l’essere dell’esserci”. Lontano dalle oscurità tanto amate dal pensatore di Messkirch, la cura è la chiave del nostro concreto stare al mondo. Potremmo, con semplicità, chiamarla l’apertura agli altri, l’umiltà dinanzi al nostro limite ed insieme la speranza e la volontà. Principio speranza e principio responsabilità, con un salto che ci fa incontrare i mondi diversi e contrapposti di Ernst Bloch e Hans Jonas.
Nel 1937, il materialismo nazionalsocialista fu affrontato da Papa Pio XI con l’unica enciclica scritta in tedesco, “Mit Brennenden Sorge”, con bruciante preoccupazione, cura. Oltre le distinte posizioni esistenziali o religiose, davvero la cura descrive un’attitudine che contrasta e sconfigge sia i diversi materialismi sia l’orgoglio, la protervia, la superbia dell’uomo –Dio, quello che definiamo faustiano sulle tracce della cultura del tramonto.
Il problema del nostro tempo è che, a differenza dell’epoca di Goethe, la strada è divenuta deserto, e non c’è più bisogno della scommessa di Mefistofele con Dio per acquisire le anime. Sono anime morte gli uomini di questa triste stagione della storia, non come i poveri contadini servi delle gleba del romanzo di Gogol, ma atomi rinchiusi nella volontà di potenza condannati ad un moto perpetuo, impauriti dalla sosta per prendere fiato, prigionieri di desideri che diventano pulsioni che non sanno o vogliono davvero padroneggiare dopo l’abolizione del bene, del male, del limite e l’esaltazione dell’Es. Il ruolo di chi vuol prendersi cura diventa allora quello di conservare ciò che è permanente, in ossequio ad un’intuizione di Nikolaj Berdjaev, per il quale il conservatore non è colui che guarda all’indietro, ma chi preserva dallo scendere in basso.
Persino Heidegger, tutt’altro che religioso, concluse che “solo un Dio ci può salvare”. Forse può essere sufficiente, almeno sul piano individuale e personale, fermarsi, e finalmente avere Cura: innanzitutto di se stessi, per ricostruire dalle macerie. Ma per ricostruire, occorre un progetto, una mappa, una nuova cartografia. Anche su questo piano, il Goethe sconfitto può offrire molto, a volerlo ascoltare. Del resto, solo la bellezza, quindi l’arte, l’armonia, la sinfonia organica, la ragione aperta al trascendente potrà, forse, salvare il mondo. Era la convinzione dell’Idiota, quel principe Myshkin attraverso il quale, nel dialogo con il nichilista e materialista Ippolit, parlava a chi sapesse ascoltare un altro grandissimo dell’Ottocento, Fedor Dostoevskij.