In tempi antichi i libri erano come oracoli religiosi; poi con il progredire della letteratura divennero venerabili precettori; scesero quindi al rango di amici istruttivi; e mentre il loro numero aumentava, precipitarono sempre più in basso fino a diventare compagni divertenti; e attualmente gli scrittori sembrano degradati al ruolo di imputati, che alzano la mano alla barra di ogni giudice, autoeletto ma non per questo meno perentorio, e che scelgono di scrivere per divertimento o per interesse, per animosità o per arroganza, in attesa del giudizio “di chi legge con malizia, o di chi legge dopo cena”(come scrive Jeremy Taylor).
(S.T.Coleridge, Biographia Literaria)
Le voci più pure, nel deserto dell’inautenticità, sono quelle che stentano a trovare una platea, ma al contempo riempono la cassa di risonanza più voluminosa, perché pneumatica: quella coppa di consonanza che giace nel profondo e fa attivare gli uomini “di buona volontà” verso la conoscenza dell’Io, o semplicemente dona spunti di ricerca vera. Nell’epoca di alfabetizzazione delle masse c’è una vera e propria rivolta, ci direbbe Ortega y Gasset: l’infangamento di ogni lucore tramandato pur in guisa popolare, il tradimento per mezzo della traduzione della tradizione orale. A tale proposito il quadro è quello di Coomaraswamy:
“L’alfabetismo è oggettivamente necessario alle società industriali, nelle quali rivestono massima importanza i numeri. In India invece – almeno finché non saranno imposti i metodi educativi occidentali – ogni istruzione anche di grado superiore è impartita oralmente, e aver “udito” è di gran lunga più importante dell’aver “letto”. Lo stesso contadino – che l’analfabetismo e la povertà preservano dai giornali e dalle riviste che in Occidente formano la lettura quotidiana e quasi unica della vasta maggioranza delle persone alfabetizzate -, così come i contadini beoti di Esiodo e ancor più i montanari scozzesi di lingua gaelica prima dell’èra delle scuole di Stato, hanno piena familiarità con una letteratura epica di profondo significato spirituale, con un complesso di poesia e musica di valore incalcolabile; e non si può fare a meno di rammaricarsi per la diffusione di una “istruzione” che comporta la distruzione di tutte queste realtà o le conserva soltanto come curiosità dentro le pagine dei libri. Ai fini della cultura non è imporante che le masse siano alfabetizzate, come non è necessario che ognuno sappia leggere; necessario è soltanto che in mezzo al popolo ci siano filosofi (non nel senso moderno ma in quello tradizionale) e che i profani mantengano per il vero apprendimento un rispetto profondo, che sta agli antipodi dell’atteggiamento americano verso il “professore”. Sotto questo aspetto tutto l’Oriente sopravanza di gran lunga l’Occidente, e perciò la cultura della vera élite esercita ancora globalmente sulla società un influsso molto più profondo di quello che qualunque “pensatore” occidentale specializzato potrebbe mai sperare.” (Dalla fondamentale raccolta di saggi Am I My Brother’s Keeper? del 1947, edita in Italia per Rusconi come Sapienza Orientale e Cultura Occidentale. La citazione è da un saggio che porta lo stesso nome del titolo italiano, pubblicato per la prima volta in Isis , 24, parteIV, 1943).
Ai nostri tempi dobbiamo considerare il moto delle lancette della dissoluzione sempre più veloce e, per quel che riguarda i rapporti e gli influssi della vera élite in Oriente, ci limitiamo ad un accenno in questa sede, visto che la problematica è enorme. Ci riferiamo comunque al lasciare andare, per inedia o per intendimento oscurante, l’enorme bagaglio di suggestioni e richiami ad un’Origine, ad una Fons Perennis. Alla società borghese interessa sterilizzare questo zampillare inesauribile dell’alba pur nel tramonto, ed il lascito delle campagne attende soltanto un’azione archeologica; nella migliore delle ipotesi un’opera di conservazione ove non si può più situare una spinta propulsiva (la differenza tra popoli giovani e popoli cadenti passa inesorabilmente dall’apporto che le campagne riescono a dare).
Una cultura sol in vista dell’utilizzazione, ha il caso emblematico dell’ “educazione inglese” in India, dalla colonizzazione dei popoli convertiti a questa religione dell’istruzione forzata: si è passati all’ossessione della certificazione della cultura, superiore o inferiore che sia, tramite attestati che alienano sempre più strati di popolo dalla forma lavoro base. Sempre con il Coomaraswamy de L’illusione dell’alfabetismo (in Sapienza orientale e cultura occidentale) noteremo:
“Non v’è studioso serio delle società umane che non concordi nell’affermare che l’agricoltura e l’artigianato sono le basi essenziali di ogni civilità, intendendo per civiltà essenzialmente lo sforzo di costruirsi un luogo in cui abitare”. Charles Johnson (un missionario tra gli Zulù), citato nel saggio, lo ammette espressamente: “l’idea centrale delle scuole missionarie era quello di selezionare gli individui allontanandoli dalla massa della vita nazionale”.
Per cui, masse inconsapevoli vengono instradate ad esser altro, non la base sociale e la forza lavoro a cui sarebbero chiamate dalla propria natura profonda; il fine “nobile” è accampare supposti titoli, da sbandierare egoicamente in una supposta volontà di “emancipazione” attraverso lavori da ufficio borghese. Se la base di tutto (agricoltura e appunto artigianato) si meccanizza, questo è l’orizzonte: formicaio umano senza coscienza di una socialità nazionale, brusìo interminabile dell’uomo massa, il cittadino consumatore che si impone sull’uomo. Poi prosegue:
“La vera e inconfessata spiegazione della nostra volontà di creare un meraviglioso mondo fatto di meccanici tutti provvisti di una identica patente di istruzione”…Interscambiabile! Livellata per tutti gli usi, i consumi e i costumi!”
Il trapasso nella “scuola per tutti” non può che essere quello che abbiamo sotto gli occhi: un divincolare sul nulla delle espressioni ciò che può o deve essere espresso, un continuare a confondere il nocciolo con le bucce, i semi piantati con criterio insieme agli alberi malsicuri della comunicazione globale, nella sfrenata manìa di in-formare i fatti di una direzione ministeriale o confacente alla buona norma aziendalistica. La cultura come deserto, la colonizzazione degli altrui spazi vitali, in nome di un tipo umano da civilizzare in modo coercitivo sui rudimenti, per poi muoverlo nel mondo della semiotica dei migliori prodotti. Ma non è tutto: l’alfabetizzazione di massa è il coinvolgimento finale delle classi sociali in un enorme calderone di ipocrisia.
Il meccanismo bovino per cui si è giunti alla dittatura della quantità, non può essere eluso con soluzioni di forza, né da mere prese di distanza, come refrattari.
Continuiamo con una serie di citazioni dal saggio L’illusione dell’alfabetismo: “Quando l’alfabetismo si riduce a un semplice saper fare, ‘la sapienza collettiva di un popolo alfabetizzato’ rischia di essere soltanto ignoranza collettiva, mentre ‘le comunità arretrate sono le biblioteche orali della antiche culture universali’ ”.Certamente l’alfabetizzazione delle razze imperialiste anglosassoni si riduce alla loro lingua, nell’uso della società dei contratti. Ci sarà chi si interrogherà molto, su quelli che considera nostri vaneggiamenti: “Come, non ritieni sia un diritto inalienabile quello all’istruzione? Ecc., ecc….”. Negando valore al popolo ridotto a mero ammasso proletario in senso marxista, certamente si comprenderanno queste altre parole di Coomaraswamy (sempre in L’illusione dell’alfabetismo):
“Le ragioni che spiegano questa mentalità hanno le loro radici nella distinzione tra popolo (folk) e proletariato, cioè tra organismo sociale e formicaio umano. Per il proletariato, l’afabetismo è una necessità pratica e culturale”.
Non si nega questo diritto, ma si guarda a ciò che porta un’inclusione forzata nel campo dell’alfabetizzazione, dal punto di vista della grande finanza e tecnocrazia: maggior forza lavoro addestrata alle regole. Non si ammanti la scuola con parole come cultura od educazione dell’individuo! La missione etica è terminata con l’inizio del processo livellatore. Se gli Stati non sono sovrani, non possono agire per una paideia (nemmeno al sapor di reminescenze sbiadite), se lo sono non è detto assolutamente che la impiantino, ma un minimo di afferenza con la normale consequenzialità nel cammino della vita si avrebbe. Solo enti speciali al di fuori dei dettami mondialisti (pensiamo ad alcune scuole steineriane come a quelle che si potrebbero ancora realizzare in Utopia) possono assumere una vera funzione educatrice, con al vertice una chiara e netta idea di come il libro non sostituisca la vita ma la compenetri, in una tripartizione che avrebbe da essere: ginnastica, filosofia, tragedia e poi – solo poi – i Misteri. Da lì si potrebbe ripartire (lasciateci scorrere come acqua riottosa a cader nella forra già tracciata tra le pareti…).
In una silenziosa vertigine, lì si muove il vero ricercatore; occorre però far comprendere che la settorialità in cui viene confinata la figura dell’intellettuale (in senso puro), non è altro che il giuoco alla conclusione. La volontà precisa di rendere innocua la proposta scardinante e di rendere mercato anche il più onesto atto fondativo e proiettivo. Per tornare al Quasimodo del Discorso al Premio Nobel: “La degradazione del concetto di cultura operata sulle masse, che credono cosi di affacciarsi ai paradisi del sapere, non è un fattore politico moderno, ma nuova e più rapida è la tecnica usata per la dispersione multipla degli interessi meditativi dell’uomo. L’ottimismo è divenuto tangibile, non è che un gioco della memoria, i miti e le favole (l’ansia degli eventi soprannaturali, diremo) scendono nel ‘giallo’, assumono metamorfosi visive nel cinema o nel racconto epico dei pionieri o del delitto.”
Chi riesce oggi a sorpassare gli steccati e divenire punto di riferimento senza sponsor, è il sacrificato massimo (chi agisce senza utilità concepisce di riversare nelle arti una chiamata, senza altro ritorno che il fattore energetico con cui la si esprime, la volontà di fissare l’Io attraverso i vari ministri del pensiero…In questo caso le operazioni combinatorie tramite parola…) e l’uomo più libero, artefice di un’azione rischiosa e contro tutto. Vorrei citare come esempio per le mie tesi un poeta amato per la sua grande indipendenza: Arturo Onofri. Perché pochissimi giovani riescono a mettere in pratica una vita a concreto rispecchiare le proprie ambizioni e la propria natura? Oggi siamo etichette e merce vivente declassificata da ogni principio di qualità, questa viene infine assegnata in base all’utile prodotto, ad un guadagno in cambio di qualche stretta di mano, ad un ornamento da apporre sul proprio scranno. La cultura vera sarà sempre incapace di produrre l’utile, va da sé che l’aristocratico disprezzo e il pathos della distanza nietzscheano dovranno in questo qui ed ora esser sostituiti dalla pretesa plebea di far lavorare tutti con le stesse dinamiche, incatenati alla dimensione orizzontale dell’esserci.
È ovviamente la poesia la macchia scolorita invisibile nella notte della modernità, per cui sempre il Coomaraswamy de L’Illusione dell’afabetismo induce ad inquadrare la totale inattualità di un poetare in senso originario: ”La letteratura orale è per sua natura essenzialmente poetica, in quanto i suoi contenuti sono essenzialmente mitici e i suoi interessi vertono specialmente sulle imprese spirituali degli eroi; la letteratura nata iscritta è invece per sua natura essenzialmente prosaica, in quanto i suoi contenuti sono concreti e i suoi interessi si rivolgono ad avvenimenti profani e ai particolari. Dicendo ‘poetico’ intendiamo includere il significato di ‘mantico’, sottintendendo che la ‘poeticità’ è una qualità letteraria e non soltanto uno scrivere in versi. La poesia contemporanea è essenzialmente e inevitabilmente dello stesso livello della prosa moderna; entrambe sono egualmente dogmatiche, ma il meglio che ognuna di esse ci può dare sono pochi ‘pensieri felici’, più che certezze”.
II
A Londra laureati lavano i piatti, a Milano, Torino o Roma sono operatori in un call center? Illusioni di un rapporto reale tra cultura ed alfabetizzazione, elargizione d’apparente prestigio dottorale acquisito sterilmente, mentre la corsa cieca della produzione ha già dichiarato la volontà di fagocitare tali polli d’allevamento, che non possono fare altro che prendere consapevolezza della situazione e tentare la via stoica, attualizzarla a più non posso, farsi forza in alt(r)o ritmo, perché è fondamentale mantenere una dimensione “centrata” non solo interiormente, anche nel comportamento abituale: sentire la pressione della società dei consumi è sintomo di una libertà mai esperita. Incremento della popolazione, predominio della tecnica, produttività come corsa cieca a mantenere in piedi l’impalcatura, sfaldamento della facciata con cui un potere politico organico poteva far da stantuffo. Sono cadute, macerate e bruciate le ideologie già marcescenti, in un periodo post-bellico incagliato su contrapposizioni del tutto contingenti e non sostanziali tra le parti democratiche in gioco. Ma ora che si è andati ancora oltre, si bada in maniera del tutto esplicita al bieco nuovo sistema valoriale: quello che spiega a piè sospinto Diego Fusaro è lapalissiano per chi ha un minimo d’occhi, naso e bocca liberi e non contaminati. Sono affiorati tutti gli indizi per la completa vittoria dell’uomo-massa odierno sull’uomo differenziato. Ma c’è chi non si arrende. E per questi Fusaro è giunto a megafonare un trasversale scontento; ciò non può esser nocivo, quanto invece la reiterazione mediatica del rossobrunismo rischia l’assorbimento, considerando che su questi argomenti si potranno convincere menti già lievemente in cammino, non quelle inermi con cui costruire uno zoccolo duro per la politica. Insomma l’azione di Fusaro è più che legittima, ma rischia di divenire divertissement intellettuale, risentimento, impotenza contro il muro di gomma. Oppure confluirà in una discesa in campo politica? Staremo a vedere.
Tutta la cultura è in preda ad una specialistica tensione: concrezioni egoiche, nevrosi espressiva, caos compresso che non riesce a percorrere una propria soluzione (cioè quello che porterebbe a scoprire la cultura come simulacro e appoggio – e non finita in sé!), non riesce a muovere passi sulla scacchiera del Labirinto. Potremmo citare Eraclito (frammento 45 Diels-Kranz):
“Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos“.
Questo deve fare l’uomo che ricerca, non proporre la sua mascheratura di fronte ai problemi ultimi, non lavorare come fanno tutti gli uomini automatizzati della società dei consumi. Se non comprende ciò, produce semplicemente un combustibile altamente infiammabile. Subito cenere. Nessuno si presta con la somma inquietudine, nessuno ha il coraggio delle grandi solitudini nietzscheane. Un Onofri, ad esempio, era unico perché visse su di sé, sacrificandosi ad una vita appartata, porgendo il calice in un fronte invisibile, in comunicazione nascosta e al contempo solare. Fino al definitivo risguardo e abbeveramento sul sovrasensibile. Vivere con sguardo libero e tentare un’espressione autentica si slega da ogni stretta verso cui imbriglia ciò che Walter Benjamin inquadrava alla perfezione: nell’epoca della riproducibilità dell’arte, essa perde giustappunto l’aura su cui tanto si riflette, e la cultura non permea più nessun alone fondativo, chiede di essere riposta come scaffale, al chiuso, senza promessa d’epifania. Le stesse nostre città sono musei (quando qualcosa perviene al livello museale è perché ha perso la spinta egemonica interna), spettri ingigantiti dal valore commerciale-turistico, mentre piccoli occhi multitasking lustrano le pupille su ciò che non è ancora spezzato dal progetto di un parcheggio, di un grattacielo, di un supermarket.
Quindi il discorso d’insieme è duplice: certamente queste riflessioni coinvolgono il dato resistente, per rimarcare la totale e conformistica volontà di creare anche nel campo dell’ in-utile artistico il consumo – la certificazione qualitativa tramite le vendite, e via dicendo. Questa forma di manipolazione era meno evidente quando il prodotto artistico (nel dopoguerra soprattutto i dischi ’60-’70) si rese fruibile in scala di massa, mentre vi erano esempi in cui si era trovata l’accordatura, nella ricezione trasversale di un pubblico alto e basso senza svendere la propria formula. Tutto ciò fu possibile o fu mera parentesi creativa delle forze che, nell’Occidente, conservavano educazione sufficiente a veicolare una qualche seria proposta, talvolta in suggestioni di un certo Ottocento indimenticato. Nella successiva presa di possesso (ad inizio ’80) dell’omologazione e dell’assunzione del marchio (il sigillo della società alla moda) come entità icastica e anti-metafisicamente metafisica, il canone della proposta artistica si allontana sia dai barlumi di una cultura europea ormai diradata, sia dai tessuti espressivi delle retro-avanguardie, sia dalle tradizioni genericamente intese. Verso il 2000 la tecnica spossessa le arti dell’ultima aura rintracciata da Benjamin. Un disco sottobraccio diviene un file da portare dentro una cartuccia.
Per farsi forza ed evitare le azioni suicide, sono d’utile servizio portali e comunità come queste (parlo ovviamente di EreticaMente), che traghettano in un presente e in un futuro ciò che in passato non avrebbe avuto il confinamento, ma avrebbe echeggiato come un polo vero di cultura. Tale è. Ma viene negato e misconosciuto dagli osservatori dell’ammansimento delle bestie da pascolo. La diffusione della scolarizzazione ha potuto il contrario di una maggiore diffusione del sapere, esso si cela e viene combattuto ancor più; nell’epoca della tecnica, lo scandalo massimo è l’art pour l’art, la speculazione filosofica, lo slancio vaticinante, la carica misterica ed erotica del farsi opera d’arte.
Prendiamo uno Chateaubriand, principe dei salotti francesi per un certo periodo (nei primi decenni dell’Ottocento), o Cocteau, piuttosto che D’Annunzio. Se è vero che sono stati più scaltri di altri nel ritagliarsi fama e spendibilità, è pur vero che la società abbisognava ancora di guide, di gesti in opere, fatti, idee come fulvidi fulgori a squarciare il velo e a donare di riflesso una scarica d’assoluto, di cui potevano godere financo alle periferie del corpo sociale. Il poeta, l’artista, l’intellettuale assurgevano riconosciuti portatori di quell’inutile tanto lussuoso da esser come il fuoco di Vesta, da custodire insieme con il privilegio di aver in seno alla società degli inviati extra. Ora si crea un tessuto di relazioni sociali (e meramente sociali!), per usufruire di ciò che viene rivestito in chiave pop, da meccanici zimbelli male assortiti, e su tutto uno spettacolo che gli intellettuali radical sono chiamati nella migliore delle ipotesi a certificare, mentre sono già superati da una categoria ove i riferimenti culturali non sono richiesti, bensì dannosi orpelli per le masse. I convitati della disgregazione hanno parole in codice, un preciso alfabeto e vigenti normative, in primis è più importante appropriarsi dell’ascoltatore, levigarlo a nome del pensiero dominante. Ogni pretesa fondativa va elusa, come ogni autentica peregrinazione nella scepsi, derisa. Vi sono due strade per sopravvivere: la creazione di nicchie autosufficienti per risorse ed energie interne e lo stento di autoderminarsi ogni giorno nella vocazione, soli. Noi sappiamo che è così per l’artista, pel poeta, è sempre stato così e sempre sarà così. Occorre però essere impietosi fino all’ultimo ed estrarre i campi di pertinenza: sospettare ogni organicità con i circoli culturali vigenti.
III
Un testo utile per le nostre trattazioni sarà Le illusioni del progresso di Georges Sorel, quivi si compie un viaggio alle origini dell’idea stessa di progresso, fino al suo compimento post-illuministico. Molto utile riportare una riflessione su Rousseau. Sorel nota come vi sia un “neologismo che colpisce Taine nel suo L’Ancien Regime: citoyen. Nel firmare i propri libri con il titolo ‘citoyen de Genève’…Credo si dovrebbe tradurre con: uomo avente diritto al rispetto di tutti a causa del lavoro produttivo di cui fa beneficiare il suo paese”. Poi ancora, in un altro passaggio: “con Rousseau i cittadini sono assimilabili nei principali atti della loro vita ad accorti mercanti” – l’identificazione è tale che bisognerebbe accavallare i due termini. Un cittadino della società ontologicamente fondata sui contratti, dovrà sempre avere qualcosa del mercante. La rivolta contro ciò che nella prospettiva orizzontale non si situa in ingranaggi di produttività materiale, qui è già pronta. Dove si piazzerà l’intellettuale vero (non quello che spalleggia l’andirivieni delle sole questioni sociali, ma quella pila carica che deve produrre nel silenzio, svincolato dai gravami materiali), in questa prospettiva?
Al mondo della sfera “politica” non interessa nemmeno dove possa situarsi, poiché il sistema di protezione capitalistico inghiotte nel rumore di fondo delle “opinioni”, del livellamento, nel gioco di specchi ove si può dir tutto, tranne le cose realmente spiacevoli e affilate. Il vero filosofo, il vero poeta, il vero erudito sono sempre state Torri, ma nell’oggi v’è anche l’alta marea. Proust diceva che “sulla terra tutto complotta contro noi artisti, bisogna fare presto ad andarsene”. Sulla prima parte ha certamente ragione, sulla seconda si può invertire la rotta solo rifondando la costituizione psichica dell’uomo, e non è materia d’una breve parentesi ideologica o di “movimento”. Sempre Sorel comprende al meglio la questione:
“Ora i politici non si rivolgono più al pubblico colto per il quale scrissero i padri della democrazia; si rivolgono a categorie di persone che sono state sottoposte a un allenamento speciale e che sono plasmate allo scopo di ammirare gli oracoli che escono dalle loro bocche“.
Da tutte queste illusioni del progresso siamo edotti sul corso degli eventi: i proletari come massa di consumatori, gli intellettuali in una casta sempre più anonima e “liquida”, addetti a formazione e contro-informazione sull’opinionismo, integrati in processi manageriali in cui il giuoco del ribelle socialista effettuato magari poco prima, opera magiche trasmutazioni. La manipolazione inizia nel conio d’etichette e finisce con l’utilizzo compulsivo delle medesime da parte dei parlanti-tubi digerenti. La democrazia degli “specialisti”: un passaggio che Sorel preconizzava, ma chissà se a vederlo oggi non accumulerebbe dati per nuove e brutali commistioni fagocitanti, tra caste e microcaste che costituiscono traino e ordinano i consumatori in colonne di autentici disvalori, nel volgare ciclopico. La classe intellettuale nel socialismo testimonia la pessimistica conclusione di un dato di fatto: non v’è redenzione utopistica agente a livello collettivo, per affrontare i problemi della Tecnica si pone l’urgenza d’un avamposto: solitari indagatori dell’Essere o ri-scopritori del “fare anima”originario. Un utopista bramante palingenesi appena la classe dominante vien spazzata da una rivoluzione, sarà tra i primi a fare blocco rivestendo il ruolo del programmatore a difesa del nuovo stadio della dimensione “politica”; mentre il silenzioso ricercatore, dovrà sempre esser disilluso sui cambiamenti, in nome di quelle domande radicali che escludono le illusioni del progresso.
Senza essere ovviamente nella direzione voluta dal socialismo riformatore dell’ingegnere-filosofo francese, riscontriamo Sorel come il ciclone che distrugge le prudenze cartesiane, ovvero ciò che viene propinato al pubblico, il quale “detesta soprattutto quelle opere che potrebbero turbare la sua pace abituale”. Si è passati oltre questo quietismo piccolo borghese: da un riferimento d’evidenza e chiarezza cartesiana (parametri di difesa contro il mistero e l’insorgenza dell’arcano), ad una pulsione dopolavoristica che sottende l'”entusiasmo come catena di montaggio” (ci direbbe Carmelo Bene), ovvero: dal bisogno di un necessario appiglio in rette e coordinate ad un adagiare le pulsioni dell’enorme classe media in poltiglia retorica, influenza di basso continuo, sulle parti del ventre umano. In ogni epoca sono esistite le forme bieche di approccio alla cultura (per Sorel l’intellettuale era comunque il buffone delle corti, prima di diventare il portavoce della borghesia dominante del suo tempo, ma la nostra ricerca non è sull’intellettuale che vive parassitario, quanto sul singolo ricercatore nell’ombra e nel silenzio), ma è inconcepibile quanto le iperspecializzazioni abbiano trionfato sulla drittura d’una visione universalistica. Oggi il sogno dell’Uomo Universale goethiano è all’opposto stato vinto dal conformismo, appiattito in un processo di ritorno alla natura di Rousseau, e ancora indietro. Non vi è un solo processo autentico di selezione che non sia figlio dell’inserimento dell’umanità a compartimenti stagni, nel luogo di competenza settoriale. Il mondo del commercio heideggeriano: l’Umgang, ovvero la modalità esistenziale con cui si scruta circospetti per utilizzare; ciò obnubila l’apertura, l’Erschlossenheit, la forma originaria della verità come disvelamento dell’Esserci a stesso.
Si giunse agli ultimi lapilli prima del Tramonto tra le macerie dell’Otto e Novecento, il periodo degli spleenetici, pur l’epoca del Martello nietzscheano. Si misero a rapporto con la storia i conti da fare col cristianesimo, si lanciarono i semi per una tabula rasa sopra l’enorme peso della decadenza. Nietzsche previde tutto il carico asfissiante del nichilismo, un veleno persistente che è ormai lo stato normale delle cose. La ricetta nietzscheana avrebbe potuto instillare in primis quel “pathos della distanza”, quella disillusione a diga concreta per l’avanzata post-illuministica, con tutto il suo corollario. Invece la più grande delle illusioni permea l’Occidente: che si dia soluzione all’ingiustiza del mondo donando a tutti gli stessi strumenti, in senso virtuale e consolatorio! La scuola (per non parlare delle scuole per scrittori!) è un pascolo dove si riduce e si comprime il meglio delle potenzialità dell’individuo. L’autenticità autoriale – ovvero il porsi in modo genuino e originario, farsi tramite scartando l’egotismo, è il contrario di ciò che sta avvenendo nei circoli ove si dice di far cultura al giorno d’oggi. Persino un liberale come Tocqueville comprese a sufficienza l’insanabilità tra il principio d’uguaglianza e quello di libertà…
Altro sintomo della funzionalità circolare dei valori occidentali nella spirale del pensiero debole è la corsa, l’ansia, la nevrosi per il commento ficcante sull’attualità. Da consegnare subito in pacco regalo. La storia, la vita, l’esperienza insegnano altro: il giornalismo è la storia del pre-giudizio, atto diveniente pre-formativo d’impulsi per antiriflessivi ripetitori. La differenza tra il ri-ferimento dei fatti e la scrittura come fattore di fissazione di “stati” e operazione artistica, non avrà bisogno di tante altre evidenze oltre a questa così ben tracciata da Sorel:
“Chi lavora con paziente minuzia i propri scritti si rivolge volontariamente a un pubblico ristretto; gli altri scrivono per i caffè-concerto e per i giornali; ci sono ora due clientele ben distinte e due generi di letteratura che non si confondono…Noi vogliamo che si sia un poeta che si preoccupa della propria arte o un arrangiatore di ritornelli popolari per l’Eldorado…”.
Il Quarto Stato è lasciato vagare senza senno tra gli spettri e le rimanenze delle caste superiori. Citeremo l’Evola di un articolo intitolato programmaticamente Sulla caduta dell’idea di Stato (Lo Stato, n.2, febbraio 1934):
“Il Quarto Stato è disanimato e il suo scopo è la disanimazione della vita, della società, della stessa interiorità umana: e tali, dopo lo standardismo e il taylorismo americano, sono i fini perseguiti dalla cosiddetta “purificazione proletaria» dai residui dell’Io borghese e dal cosiddetto messianismo tecnico sovietico. D’altronde, estraendo dalla forma mitica il contenuto reale, rivolgimenti del genere furono preveduti in più di un insegnamento tradizionale. Se l’Edda profetizza «giorni amari» in cui gli esseri della terra — gli Elementarwesen proromperanno a travolgere le forze divine e i «figli di Muspell» spezzeranno l’arco Bifròst che unisce cielo a terra (si ricordi l’anzidetto simbolismo della funzione pontificale della sovranità quale facitrice di ponti), un tema analogo si trova per esempio nella leggenda che, da tempi remoti, giunse nel Medioevo e vi costituì una specie di leitmotiv: la leggenda delle genti «demoniche» di Gog e Magog che, spezzando la simbolica muraglia di ferro con cui una figura imperiale aveva loro sbarrata la via (simbolo per i limiti tradizionali e per l’ideale dello Stato quale kosmos vittorioso su chaos), proromperanno per cercar di vincere l’ultima battaglia e impadronirsi di tutte le potenze della terra. D’altra parte, già accennammo che secondo la tradizione indoariana il Kali Yuga, o età oscura, sarebbe caratterizzato dal predominare della casta dei servi, dal prorompere di una razza di barbari senza fede, «intenti a apprezzare la terra solo per i tesori che essa contiene»(VishnuPurana)“.
Oggi la vita non è degna di esser vissuta gomito a gomito senza un preciso senso della differenza, della distanza e della gerarchia, oggi la parola aristocrazia perde appiglio con quel che risuona d’originario in essa, è figlia dell’irrisione che già svuotava il mondo delle corti. Il mondo è spellato vivo dal suo senso per questa schiavitù del ciclo delle nascite, proprio come definì Ortega y Gasset la cosa ne Il tema del nostro tempo: “ogni generazione è una specie di proiettile biologico lanciato nello spazio in un istante preciso, con una forza e una direzione determinante”. L’iniziazione somma dell’epoca è un contratto di lavoro, il tempo ridotto a lineare fuga di sé – e ciò che smalta il nulla delle valvole di sfogo settimanali (calcio, politica, tv) viene fatto circolare come il primo stupefacente. Conchiudiamo così ancora con Nietzsche, il quale definiva la storia dell’educazione (della cosiddetta educazione superiore) come la storia dei narcotici.
Stefano Eugenio Bona