Riconoscere un nuovo tassello della propria matrice identitaria in particolari destinati all’irrilevanza è un po’ come incontrare l’inaspettato che aspetti da sempre, lo stupefacente che però ha un non so che di famigliare. A me è successo con la regina Piedoca scolpita sul portale del priorato di Saint-Pourçain in Alvernia (oltre che in altre chiese medioevali francesi), dalla cui lunga veste spuntano i piedi palmati come zampe d’oca, o di cigno. Allo scultore piaceva scherzare? I frati avevano bevuto troppo, o sapevano più di quello che avrebbero dovuto sapere?
Terra montuosa un tempo ricca di miniere di oro, argento e altri metalli preziosi, l’Alvernia prende il nome dai celti Arverni e vanta un passato storico e culturale di tutto rispetto. Innumerevoli volte le sue montagne hanno protetto le cerimonie dei druidi e ascoltato i loro canti per attirare i cigni (richiami?), che andavano poi a posarsi sui menhir e aspettavano con i sacerdoti il sorgere del sole, come racconta Eliano il Sofista nella sua opera monumentale Sulla natura degli animali.
Questi incontri avvenivano per lo più nell’ambito di riti stagionali nati sulla base di un «passato stellare» risalente ad almeno 18mila anni fa, quando il cielo parve schiarirsi leggermente dopo il picco di massima estensione della glaciazione e i gruppi umani in uscita dagli antri sotterranei lungamente abitati al posto della Stella Polare trovarono ad attenderli soltanto oscurità.
Misteriosamente, la Stella del Nord era sparita e nessuno sapeva dire dove fosse andata a finire. Fino a quel momento il «punto immobile» aveva rappresentato la vetta del mondo, l’immutabile sede della divinità suprema che interagiva con le creature terrestri, la guida degli itineranti. Adesso, però, quel punto non c’era più.
Per fortuna brillavano nello spazio lasciato vacante alcune stelle circumpolari che giravano intorno al Polo Nord celeste (rimasto in prossimità della Via Lattea nel periodo 20.500-13.200 a.C.) e non venivano mai viste tramontare. Una circostanza ritenuta eccezionale, che fece guadagnare ai nuovi barlumi il titolo di «instancabili». Tra essi spiccava la Costellazione del Cigno, governata da Venere secondo la tradizione stellare classica, al cui interno si scorgeva una croce visibilissima, nonostante la luminosità della circostante Via Lattea.
Nell’area più scintillante di questo tracciato stellare c’era Deneb, che virtualmente baciava l’orizzonte settentrionale nel punto più basso del suo transito, sul meridiano nord-sud, la linea immaginaria con cui gli astronomi vedevano tagliare in due il cielo. Sessantamila volte più luminosa del sole, ormai era lei la più bella del reame. Il «punto» di riferimento. Motivo per cui col passare del tempo i popoli dell’emisfero settentrionale (in quello meridionale il Cigno non era circumpolare, la sua visibilità era scarsa) la identificarono con la Croce del Nord.
Più il buio glaciale arretrava, più quell’inconfutabile evidenza astronomica andava affermandosi come il simbolo della resurrezione spirituale e materiale. I costruttori megalitici la «pietrificarono» in molti siti sacri, perfettamente allineati con la costellazione in volo. Le popolazioni celtiche la consacrarono a Brigid, o Bride, figlia del dio solare Dagda e madrina di quasi tutti gli eroi che ebbero l’incarico di compiere imprese «magiche» altamente rischiose, ovvero che tentarono di entrare nelle oscure profondità dei Mondi Spirituali, uscendone talvolta indenni.
Resurrezione
Come molti sciamani del Neolitico la dea Brigid indossava mantelli fatti con le piume candide del cigno, un’usanza condivisa dai «colleghi» americani che si vestivano con mantelli di piume di cigno prima d’intraprendere i loro viaggi oltremondani. Le culture sciamaniche rievocavano così il passaggio vita-morte comprendente l’uscita e il rientro dell’anima da e nel «buco» formato da Deneb nel centro della Via Lattea, virtualmente considerato il nido dell’anima.
Le mani della dea parlavano per lei: in una risplendeva il fuoco giallo della Luce (l’Uovo dell’eternità), nell’altra c’era la fiamma rossa (Deneb, il riscatto) senza la quale la stirpe umana non si sarebbe emancipata. Come tutte le Grandi Madri della preistoria anche la divinità nordica era allo stesso tempo buona e cattiva, amava profondamente i suoi figli ma all’occorrenza sapeva punirli in modo esemplare. Per questo la si vede talvolta raffigurata con un volto per metà splendido e per metà orribile; probabilmente un retaggio culturale risalente all’epoca in cui vigeva in Eurasia un sistema sociale di matriarcato agricolo e rurale che conferiva alla donna compiti trasversali come lenire le sofferenze, mettere ordine nel disordine, amministrare la giustizia secondo un piano imperscrutabile ma supremo, e dunque giusto.
Emblema della fertilità e della rinascita, della famiglia e del focolare, Brigid veniva onorata dai popoli celtici durante la festa di Imbolc, o Festa della Luce, celebrata il 1° febbraio con un rito collettivo di purificazione. Se non ci fosse stata lei a volteggiare sopra le acque dei laghetti e delle fonti, portando ovunque l’annuncio della primavera imminente, la vita non si sarebbe risvegliata dopo il letargo invernale. Ma grazie al «tocco magico» del suo bastone sciamanico, già all’inizio di febbraio si poteva vedere la luce del sole aumentare lentamente. I bucaneve cominciavano ad apparire facendosi strada coraggiosamente attraverso la terra fredda e dura. Le pecore davano alla luce gli agnelli e il latte che inturgidiva le loro mammelle faceva ben sperare per la nuova stagione in arrivo.
Il richiamo
Nonostante la sovranità insita nel nome (Brigid significava «eccelsa», «altezza»), la candida dea di febbraio fu la prima divinità del nuovo corso post-glaciale a scendere dal piedistallo per intonare un lamento funebre dopo la morte del figlio Ruadan. L’allegoria potrebbe rappresentare l’ammissione storica di un sensibile accorciamento della vita media sul finire dell’Era Glaciale, un tema affrontato poeticamente anche nella saga del re sumero Gilgamesh, dove la morte viene indicata come «conseguenza del Diluvio» (Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, 1992). Non che prima di allora gli uomini non morissero, perché questo sarebbe stato impossibile, ma forse erano più longevi e resistenti delle generazioni nate in seguito.
Allo scopo di radunare il consesso degli dèi, invitato a piangere insieme a lei quella morte prematura, Brigid inventò l’arte del fischio (il richiamo sciamanico per attirare i cigni?) attraverso cui chiamò a raccolta la famiglia divina, che prontamente planò su di lei confortandola con la parola.
Il passaggio merita una riflessione. Gli dèi non seguono il richiamo di questa Grande Madre della preistoria per mero formalismo, né per generosità. Semplicemente sono consapevoli che attraverso il sostegno collettivo fornito dalla vicinanza e dalla parola qualsiasi comunità (umana o divina) sostiene se stessa, dandosi la ragione per esistere che altrimenti non avrebbe.
Come ha sottolineato il filosofo Jürgen Habermas la comunicazione è incontro. L’incontro è dialogo [dal lat. dialŏgus, composto da dià, «attraverso» e logos, «discorso»]. Il dialogo è parola. Qualcosa che si sposta nello spazio, avvicina interlocutori distanti e distinti tra loro, arricchisce le parti prospettando posizioni differenziate. A sua volta la parola è racconto. Il racconto è tradizione. La tradizione è identità. Ha senso rinunciare a formidabili strumenti come questi per calarsi nella realtà piatta e uniforme del Mondo Unico?
Vero è che alcune cose non si riescono a dire, perché non tutto il dicibile è contenuto nei pensieri, né nelle cose sensibili. Tuttavia l’impronunciabile può essere trasmesso dall’esperienza, spesso basata sull’esempio, una forma comunicativa non verbale incentrata sull’incontro. Alcuni traguardi non riguardano il cervello, essendo le loro tappe collocate nel mondo ignoto della subcoscienza, la sola capace di «non fare male al vento perché mostra di conoscere il dolore delle cose viventi», tanto per rispolverare una lode contenuta in un antico sutra indiano.
Illuminare il buio, spegnere la luce
Signora della Conoscenza, dea della poesia, della divinazione, dell’arte medica e della metallurgia, ispiratrice dei poeti e dei veggenti, Brigid non fu solo una figura poliedrica ma la testimone di un’importante sorellanza primordiale. Tra i nomi principali di questo sodalizio troviamo l’indiana Saraswati e l’egiziana Nut, che apriva la bocca ad ogni Prima Ora della notte per permettere alla barca solare di navigare nelle sue viscere, corrispondenti al Duat, il Regno dei Morti, legato direttamente sia alla Via Lattea che agli uccelli.
Virtualmente l’«oscurità uniforme» presente nel corpo di Nut rappresentava il buio (della notte glaciale?) dove tutto ebbe inizio. Anche i Celti credevano che la luce nascesse dal buio, proprio come nello spazio nero si erano materializzati i pianeti e le stelle, nell’oscuro utero materno prendevano forma gli animali, nelle tenebre del sottosuolo i semi attecchivano, nel cunicolo faringeo passava il respiro che dava la vita scandendo il ritmo necessario alla rigenerazione dello spirito.
Dal buio alla luce, dalla luce al buio. Il flusso perpetuo che lavava via ogni impurità, rigenerando i processi, garantiva il giusto equilibrio. Questa delicata alchimia veniva rievocata ogni anno dall’Europa celtica nel corso della festa di Imbolc, il «Tempo della Protezione», identificato nel calendario di Coligny con il nome di Anagantios. Similmente i Romani ebbero il loro momento purificatorio nei Lupercales, le cui fiaccolate rituali confluirono poi nella festività cristiana della Candelora, consacrata a un’altra divinità femminile, la Vergine Maria.
Per un tempo indefinito nel mese lunare di gennaio-febbraio le famiglie europee rispettarono la tradizione di disporre nelle case dei cerchi formati da tredici candele, il numero annuale delle lunazioni, affidandosi spiritualmente al simbolo della Corona di Luce capace di purificare, proteggere e confortare le persone che si radunavano attorno al focolare domestico.
Il suono degli strumenti musicali, del canto e della poesia associato alla proprietà altamente coagulante dell’elemento igneo affinava in ciascuno la capacità di richiamare dal buio gli esseri invisibili della Realtà Spirituale. La comunicazione linguistica faceva da collante e l’adesione tra gli esseri umani raggiungeva alti livelli all’interno della comunità.
Contro la paura: il linguaggio
Esce dal buio laringofaringeo anche la voce, e dunque la parola. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, esordisce così il vangelo secondo Giovanni, proseguendo sul cammino tracciato dalla candida dea di febbraio tra le montagne e gli altopiani dell’emisfero settentrionale.
E’ un peccato che l’uomo contemporaneo abbia rinunciato a un tale patrimonio di cultura per vivere nell’inconsapevolezza del suo passato, e purtroppo anche del presente. Ormai incapace di percepire il farsi e disfarsi dell’invisibile involucro spirituale che lo avvolge egli ha reso se stesso un essere inadatto a coltivare l’arte della parola, incapace di scovare sotto il velo delle apparenze il segreto della profondità delle cose.
Dopotutto siamo nel post-umanesimo, era prevedibile che le forme di umanesimo fino a qui conosciute cedessero sotto il peso delle forze disaggreganti messe in campo dal liberismo terminale, che addirittura ha messo sotto accusa la corporeità su scala globale. Un estremo mai toccato in precedenza.
Obiettivamente abbiamo avuto tempi migliori. Non è il massimo vivere sotto il fuoco incrociato di forze maligne decise a sbaragliare la comunicazione linguistica per accelerare il processo di atomizzazione della società. Stanno facendo cose inconcepibili per dividere e disperdere le persone, indebolire e impaurire i popoli, impedire qualsiasi contatto interpersonale che implichi l’uso del linguaggio, spezzare la catena di trasmissione della cultura identitaria. Attenderemo la fine senza fare nulla, o troveremo la forza di rifiutare le deviazioni anti-umane incluse in un disegno malato basato sul controllo?
In attesa di scoprire l’epilogo di questa brutta storia possiamo agire nel nostro piccolo non tanto per cambiare il mondo, atteso in tempi brevi al capolinea, quanto piuttosto per non consegnare noi stessi alla depressione e alla paura. Attraverso la trasmissione dell’esperienza piccoli gruppi di persone possono uscire in qualsiasi momento dall’«oscurità uniforme» e riprogettare una nuova vita attraverso il linguaggio, che è sempre un ottimo punto di partenza, come ha ampiamente argomentato la ricerca agambeniana.
Contro il confinamento: l’incontro
Mammiferi sociali per eccellenza gli esseri umani sono spugne intellettuali ed etiche, nel bene come nel male assorbono inconsciamente le influenze dell’ambiente circostante e hanno bisogno del contatto con i loro simili come dell’aria che respirano. Ne consegue che nonostante le proibizioni e i divieti ci sarà sempre nel mucchio qualcuno che non si rassegnerà all’imbozzolamento domestico, o alle misure di bio-tracciamento volte a privare la specie della sua pericolosa socialità.
Le narrazioni ufficiali riguardano la maggioranza, mai la totalità. Non si spiega altrimenti per quale motivo in taluni villaggi anglosassoni si continuino a celebrare tra gennaio e febbraio riti a base di quarzi e cristalli lattiginosi che ricordano l’incessante fluire della Via Lattea. Anche in una regione Nord-Occidentale del Pacifico, sede della tribù dei Yakima, si tiene annualmente la rituale «danza del cigno». Giovani danzatrici agitano sapientemente i loro candidi scialli imitando i movimenti delle mamme-cigno nello svezzamento dei loro piccoli. Dal momento che i cigni non si incontrano nel Pacifico, sembra evidente che il rito non si rifaccia a un soggetto ornitologico reale ma riveli le tracce di remote civilizzazioni.
Nella miscredente Europa continentale, troppo sfibrata per pensare e scarsa di memoria, il cosmogonico «mito del cigno» è sopravvissuto nella narrativa fantastica e in alcuni toponimi sparsi sulla carta geografica qua e là, a macchia di leopardo. Deve per esempio il suo nome al cigno bianco il lunghissimo fiume Elbe, che richiamando il disegno della Via Lattea attraversa per oltre mille chilometri l’Europa prima di sfociare nel Mare del Nord.
Guarda caso in quei territori si indicano ancora con il termine elb le Fate e gli Elfi, sebbene le parole per dire «cigno» e «fata» siano più o meno le stesse anche in Islanda e in certe zone sperdute della penisola scandinava. Può darsi che il telaio da cui è uscito questo pregevole tessuto sapienziale sia nascosto nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Fær Øer e Scandinavia, dove i primi civilizzatori dell’Eurasia occultarono in mondi primordiali attualmente inabissati alcune conoscenze ancestrali. Ma vallo a trovare.
Contro la fine: un nuovo inizio
Faremo anche parte di generazioni alienate dalla natura e dalla vita naturale, istupidite dalla competizione sociale e dalla tecnologia, terrorizzate dai contagi e da virus fantasmatici divenuti simboli di morte, ma non subiremo a lungo il furto con scasso dei rapporti sensibili, dell’amicizia e dell’amore, della mimica dei volti, della chimica dei corpi, degli odori che attraggono o respingono.
Non c’è vita senza incontro, e nessuno vuole recitare la parte del morto prima di morire. Come possono credere i nostri aguzzini che l’uomo si rassegnerà ad espiare un ergastolo incolpevole da consumarsi agli arresti domiciliari? Sono così stupidi da non considerare che la continua erosione della coesione sociale porterà al deterioramento della salute mentale degli individui? Oppure, sono così folli da pensare di poter sostituire gli uomini con i robot?
Possiamo capire che per loro il dialogo sia irrilevante, non contando in questa forma di scambio né il potere né il danaro, solo il logos, ovvero la capacità di dialogare. Ma la cosa in fondo non ci riguarda. Mentre febbraio tinge i germogli di sole e gli alberi si fanno poesia riteniamoci dunque liberi di seguire le orme dei predecessori ponendoci sotto l’ala protettrice di Brigid, promotrice della necessità indifferibile dell’incontro.
Nulla di male potrà capitarci se per qualche giorno dimentichiamo i rapporti da remoto e incontriamo gli amici che non vedevamo da tempo. Lontano dal bombardamento delle immagini sarà divertente ritagliare oasi di silenzio in cui radunare i messaggi universali provenienti dal mondo di sopra e poi trasmettere ad altri le nostre esperienze.
Prima ancora di essere membro di una comunità e cittadino di uno Stato, l’uomo ha dimora in una lingua, o almeno così è stato prima che le rivoluzioni industriali snaturassero la vita umana cambiando il mondo. Non c’è, né ci sarà in futuro, un aiuto migliore della parola per affrontare il viaggio dall’umidità del buio al tepore della luce. Andata e ritorno. Non serve il biglietto, né il lasciapassare.
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