10 Ottobre 2024
Jus

Individualismo, Capitalismo e Diritto Romano – Giandomenico Casalino

L’argomento che ci accingiamo ad affrontare è talmente pregno di valenze politiche e sociali, nel significato classico di tali termini, nonché tanto rilevante per i tempi attuali che necessita di una esposizione quanto più esplicita possibile tale da renderlo immediatamente fruibile. Entriamo, senza indugio, nel tema e chiediamoci, quale relazione può mai esserci tra, da una parte, l’individualismo, l’ideologia liberale e la conseguenziale prassi capitalistica della produzione dei beni e, dall’altra, il Diritto (privato) Romano? Se è vero, come è vero, che l’individualismo, quale svolta epocale che dà inizio alla modernità, è talmente assente tanto nell’Antichità Greco-Romana quanto nell’evo medio, quale collegamento, quale nesso, anche eziologico, può mai esistere tra tale fenomenologia prettamente moderna e il Diritto Romano? È esistito un “capitalismo” nel mondo antico? Oppure, rammentando l’acuta osservazione di Marx allorché dice: “il capitale è la forma economica della società borghese che domina tutto“, il capitalismo, come ideologia politico-economica, espressione pertanto della sola classe borghese che conquista il primato sociale e culturale tra il XVI ed il XVII secolo, è solo e soltanto un fenomeno del mondo moderno? Non sembrino tali domande una semplice tecnica retorica per introdurre la “quaestio”. Si tratta, invece, a nostro avviso, di tentare di porre correttamente la problematica nell’ ambito suo proprio, sicché dalle risposte a quelle domande dipenderà la legittimità o meno non solo del titolo dato a questo nostro scritto, ma anche la possibilità di abbattere un “mito” (in senso negativo), di dissipare un grosso equivoco e di liberare lo stesso Diritto Romano, sia nella sua autentica storicità che nella sua valenza scientifica e archetipale, da un ingiusto ed infondato pregiudizio che tanta letteratura gli ha edificato intorno. Strano destino, infatti, ha contrassegnato la storia delle idee intorno al Diritto Romano che si è formata, e non a caso, dall’avvento della modernità in poi.

In un estremo linguaggio esemplificativo, possiamo dire che la cultura giuridica romana, la sua “forma mentis”, il suo concetto di Diritto e quindi “tout court” il Diritto Romano, inteso come insieme di Istituti, Riti giuridico-religiosi, normative, regole di misura e proporzione dei diritti e degli obblighi da riconoscere o da costituire in testa ai componenti la società politica, è stato certamente “riscoperto” nel tardo medio evo, amato e studiato come il modello da imitare. In seguito, però, con l’avvento degli stati nazionali, dell’assolutismo, della incipiente codificazione e della concezione moderna non solo del Diritto Privato, sul piano sostanziale, ma anche e soprattutto sul piano processuale (leggi la estrapolazione del soggetto dalla realtà giuridica intesa in senso comunitario e la nascita della teoria dell’ “azione” di tale soggetto per la tutela giurisdizionale dei suoi diritti), il Diritto Romano, nella sua concreta prassi di uso in quelle società come diritto comune Europeo, ha subito una lenta interpretazione intimamente mistificatrice della sua originaria natura, tanto da divenire “instrumentum regni” della nascente struttura dello Stato moderno, tale in quanto figlio della cultura e delle idee sia di Machiavelli che di Suarez, come di Hobbes, Locke, Grozio, Mill e di tutta la corrente del giusnaturalismo razionalista.

L’età moderna, pertanto, estrapolava il Diritto Romano, i suoi istituti, ed ormai solo il Diritto Romano privato (dal momento che i principi e gli ordinamenti di quello pubblico erano scomparsi con la fine dell’Ecumene Imperiale…) dal suo antico contesto storico e spirituale lo inseriva in una realtà culturale, economico-sociale e giudiziaria (pratica dei tribunali) assolutamente e radicalmente altra nei confronti di quella in cui si era consolidato, sarebbe a dire la società dell’Età Classica. Ci corre obbligo evidenziare, a questo punto, che il discorso che stiamo avviando e che fa riferimento ad esplicite questioni di storia delle idee filosofiche e giuridiche (vedi i concetti di individualismo, modernità, giusnaturalismo, assolutismo ed altri a cui faremo riferimento) non ci è dato di esplicitarlo in termini estensivi, per la semplice ragione che questo non è l’oggetto della presente indagine. Pertanto in ordine alle problematiche e ai significati, che noi (e non solo noi) riconosciamo ai concetti che veniamo ad evidenziare, non possiamo che fare riferimento, per il dovuto approfondimento ermeneutico, a quanto già abbiamo esposto sulle colonne di questa Rivista in tutti i nostri precedenti scritti apparsi negli ultimi anni nonché nei nostri libri dedicati alla Tradizione romana. Così è anche per la ragione della collocazione, da noi operata, del termine “privato” tra parentesi, in riferimento al Diritto Romano, stante il fatto che i Romani, come crediamo di aver già dimostrato su basi documentali, ignoravano la separazione conflittuale, tutta moderna, tra diritto pubblico da una parte e diritto privato dall’altra, concependo il jus civile, il jus honorarium e quello che i moderni chiamano diritto pubblico, come un tutto organico. La sola distinzione si manifestò unicamente con Ulpiano, ma restò essenzialmente di natura tecnico-pedagogica, e quindi di scuola, non essendo stata mai avvertita dalla coscienza comune. Nonostante di “romano”, nell’età moderna, quel diritto avesse conservato solo il nome, esso purtroppo come tale era conosciuto e considerato e così, lentamente, si avviò a divenire, sempre come diritto “romano” privato, la legittimazione sul piano sia sostanziale che processuale dei nuovi diritti dell’individuo, del suo nuovo concetto di proprietà e di responsabilità nelle obbligazioni, come della rivoluzionaria e quindi nuova prassi di produzione economica dei beni a livello industriale. Su tali basi veniva creato ex nihilo ed utilizzato, in quanto ente non reale ma di pensiero, il concetto di persona giuridica sia sul piano privatistico (vedi società di capitali) che sul piano pubblicistico con la teorizzazione del concetto moderno di Stato, quale ordinamento astratto e lontano dalla Comunità intesa non più come tale, ma bensì come società, geneticamente contrattuale e composta da individui-atomi, i cui interessi sono considerati come superiori ontologicamente a quelli della stessa società perché pensati come logicamente anteriori a quest’ultima (vedi il contrattualismo di Rousseau). Queste sono le ragioni che hanno causato la nascita e lo sviluppo di quella letteratura e di quella convinzione diffuse, a cui facevamo riferimento a proposito dello strano destino subito dal Diritto Romano e dall’intera scienza romanistica nell’età moderna. Letteratura e convinzioni che hanno indotto, tra i tanti, storici della levatura di un Michael Rostovzev o pensatori come Max Weber a parlare dì “capitalismo in Roma antica” o di “capitalismo antico” e da qui a sostenere la utilizzabilità del Diritto Romano per la regolamentazione della società e dell’ economia moderne e che, anzi, il solo Diritto Romano, a differenza del diritto germanico fondato sull’istituto del feudo, tuteli l’individuo (leggi individualismo), la proprietà (leggi il concetto liberale e moderno di proprietà) garantisca i diritti e gli oneri relativi al tema delle obbligazioni (leggi la concezione moderna del rapporto obbligatorio) e che, quindi, il capitalismo e l’individualismo moderni abbiano un legame anche eziologico di causa-effetto, con il Diritto privato romano. Tale passo fu talmente breve da divenire, sul piano logico, indubitamente scontato. Quindi, l’intera cultura del giusnaturalismo razionalista concludeva, in senso pacifico e non contestato (se non nel secolo XIX dal grande Mommsen!) che il Diritto Romano era ed è il diritto per eccellenza del capitalismo! All’origine, pertanto, degli istituti giuridici del capitalismo moderno. A tal proposito valga ad esempio quanto è accaduto nella storia culturale tedesca che è, come è noto, attraversata dal filo rosso della spiritualità luterana, ispirata dalla volontà tesa alla riconversione verso le origini ebraiche del cristianesimo, con il suo conseguenziale rifiuto radicale di tutta la cultura filosofica e giuridica Greco-Romana e, particolarmente, dello spirito universale della Romanità, storicamente presente in guisa residuale nella e per mezzo della chiesa cattolica; ebbene in tale cultura tutto ciò è riemerso spesso in guisa emblematica: pensiamo, per esempio, alla purtroppo totale incomprensione e quindi al rifiuto della Romanità da parte tanto di un Hegel quanto di un Martin Heidegger che è il più grande filosofo del ‘900; pensiamo alla condanna da parte del movimento Nazionalsocialista (contemplata addirittura nel punto 19 del suo programma…!) del Diritto Romano, giudicato responsabile e padre dell’ideologia capitalista e al progetto di estirparlo non solo dal diritto positivo vigente ma dalla stessa coscienza giuridica sia degli avvocati che dei magistrati tedeschi. Tale progetto era concretamente finalizzato al ritorno ad un nebuloso e mai precisato originario diritto germanico.

Lo strano destino del Diritto Romano, a cui facevamo cenno innanzi, lo ha condotto infatti ad essere processato “da sinistra”, negli anni `30-’40 del XX secolo, come presunto responsabile dell’avvento del capitalismo e dell’individualismo, da parte di ampi settori della cultura nazionalista tedesca; come, sempre quello strano destino, lo ha condotto nel secondo dopoguerra ad essere lentamente ed inesorabilmente processato e quindi emarginato “da destra”, cioè dalla cultura liberale, perché giudicato solo un inutile e dannoso ostacolo alla ulteriore modernizzazione del diritto privato nonché un’anticaglia impeditiva della totale e definitiva anglizzazione della cultura giuridica Europea. Quest’ultima, infatti, per nostra rovina, si sta allontanando dalla sua antica e tradizionale base filosofica continentale, che è platonico-aristotelica, per avviarsi verso i lidi di quella che, nel mondo anglosassone, viene definita filosofia analitica. È bene, a tal proposito, che si sappia, ed il Weber lo aveva intelligentemente evidenziato, che l’Inghilterra, la patria del capitalismo, non ha mai recepito il Diritto Romano, perché in essa sempre esistito un potente ceto di avvocati che non ha mai tollerato manomissioni degli istituti giuridici nazionali ed ha sempre impedito che nelle università inglesi si studiasse il Diritto Romano al fine di evitare che i giudici potessero essere persone dotate di una formazione culturale romanistica e quindi non provenienti dalle sue file. Questo fatto storico, di enorme rilevanza culturale, fornisce ampie ed esaurienti motivazioni alle ragioni per cui la cultura inglese, sempre impermeabile alla penetrazione di quella Europea, abbia non solo prodotto correnti di pensiero come l’utilitarismo, il pragmatismo e quindi il liberalismo classico con le sue ricadute economiche liberiste, ma sia contraddistinta solo da tali specificità filosofico-politiche e quindi giuridiche, che, in seguito, assunte come cultura fondamentale nelle colonie Inglesi del Nord America sono divenute, insieme alla spiritualità calvinista che ne è la matrice, la sostanza del sistema di vita e di pensiero vigente negli Stati Uniti d’America ed odiernamente in diffusione sull’intero pianeta, mediante la globalizzazione del sistema mercato centrico. Se la problematica che stiamo evidenziando pone la questione in tali termini, vi è una palese contraddizione nel fatto che il Diritto Romano sia stato sottoposto ad una severa critica, per non dire processato, sia dalle correnti politico-culturali di “sinistra”, come presunto padre del capitalismo, che da quelle di “destra”, come ostacolo alla modernizzazione del diritto privato, in quanto complesso, esso Diritto Romano, non solo di Istituti e di Principii, ma principalmente in quanto Scienza dello Spirito con una sua precipua Visione della vita sociale e politica, evidentemente ritenute incompatibili con il progetto attualmente portato avanti dalle influenti correnti culturali del neoliberismo di matrice anglosassone. La contraddizione è evidente e non è difficile spiegarne le ragioni! Essa non è presente assolutamente nell’autentico Diritto Romano, cioè nella sua specificità storica, quindi la aporia logica è solo frutto della cultura giuridica moderna la quale, come abbiamo accennato, mentre e proprio a causa dell’introduzione degli istituti di quel Diritto in un contesto sociale ed economico radicalmente diverso da quello del mondo Antico, ne snaturava l’essenza facendolo divenire qualcosa di assolutamente diverso dal Diritto Romano (privato) classico. In buona sostanza la cultura giuridica moderna utilizzava pertanto il Diritto Romano come supporto giuridico degli istituti della nascente economia capitalistica. Queste sono le ragioni che inducevano, in seguito, le correnti filosofiche nazionaliste tedesche a confondere quel diritto “romano” privato (che di autenticamente romano .non aveva conservato nulla se non la vuota crisalide dei suoi antichi istituti) con quello storicamente vero perché espressione della cultura e della spiritualità del Popolo Romano nella sua millenaria vicenda politico-sociale. Pertanto, quelle correnti nazionaliste tedesche commettevano purtroppo un gravissimo errore di prospettiva storica che ha impedito a quel mondo culturale, pur mosso da nobili motivazioni, quali la liberazione del diritto privato moderno dall’ipoteca dell’ideologia individualista, e dalla schiavitù economicistica dell’interesse, di affrontare tale immane lotta per un nuovo diritto, privandosi dell’unica Tradizione dell’Europa: la cultura indoeuropea del mondo giuridico-religioso Romano, tanto intrinsecamente antindividualista che avrebbe consentito loro la possibilità di realizzare un’autentica Rivoluzione Conservatrice anche e soprattutto nel campo del diritto, sia privato che pubblico! Non sbagliano, invece, le correnti filosofiche analitiche e la ideologia liberale e kelseniana anglo-americana nel perseguire, allo stato attuale, il disegno teso alla cancellazione dalle coscienze giuridiche europee della presenza di qualsiasi elemento, anche residuale, riconducibile al Diritto Romano (e cioè la base filosofica sostanzialistica, ragione dei nostri codici continentali, fondati, come sappiamo, sulla dialettica genus-species genuinamente figlia della Giurisprudenza romana [che ragionava platonicamente anche prima di aver letto gli scritti del Divino Ateniese] e sulla conseguenziale categoria della fattispecie astratta quale criterio generale della scienza ermeneutica giuridica europea. Fattispecie astratta, storicizzata e codicizzata nel diritto positivo e, pertanto, autentico modello e Idea-Forma platonico-aristotelica degli stessi istituti giuridici, tanto nel Diritto privato che in quello pubblico in tutte le loro moderne diramazioni…). Il progetto analitico, relativistico e neoliberista, nella sua lucidità, pertanto, individua, proprio in quella base filosofica platonica del Diritto Romano, seppur svuotato dai suoi principi generali storicamente attuatisi nella Res Publica Romana in tema di difesa dell’interesse della Comunità prima che di quello del singolo, l’ultimo autentico ostacolo alla definitiva diffusione in Europa della “forma mentis” individualista, utilitarista e pragmatica tipica del modello calvinista anglo-americano di regime giuridico del capitalismo. É noto, infatti, che anche e soprattutto in tema di macroeconomia e di politica economica, la cultura europea ha interpretato ed istituzionalizzato il concetto di economia industriale moderna in termini di economia sociale ed organica. Essa, in estrema sintesi, vuol significare certamente la tutela della libera iniziativa privata in campo economico, attuando però un’attenta politica non solo e non tanto finalizzata all’immediato profitto, quanto alla ricaduta sociale della stessa produzione, la quale dev’essere indirizzata alla qualità del prodotto, alla creazione di professionalità costanti nel mondo del lavoro e della tecnica, nonché alla complessiva ricchezza prodotta dalla nazione la cui equa distribuzione a favore della Comunità in tema di servizi sociali (ed è il concetto di Stato Sociale, tipico frutto della cultura europea di matrice romana) è compito dell’autorità politica realizzarla, nei tempi e nei modi che la stessa si dà sotto il profilo della programmazione economica, risiedendo in ciò il concetto di economia organica così come fu avviato ed in parte attuato dall’esperienza corporativa e totalitaria fascista. Qui, comunque, rischiamo di entrare in un altro rilevantissimo argomento, che è quello della radicale differenza, culturale, tra il capitalismo anglosassone, di origine luterano-calvinista e quindi individualista, con la sua religione laica del profitto che è ritenuto debba avere la primazia sulla società, ed il capitalismo europeo-continentale, detto anche renano, di cui sopra abbiamo tracciato sinteticamente i connotati. Anche tale argomento, a cui qui possiamo solo accennare, non fa che dimostrare quanto sia lontana e radi
calmente opposta la tradizione culturale europea nei confronti di quella del mondo anglo-americano.

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Il discorso che abbiamo sin qui condotto, è da considerare come una premessa all’indagine che ci accingiamo ad effettuare, il cui oggetto è il tema che intendiamo trattare. Sarebbe a dire che ora entreremo nel merito della “quaestio” e, rammentando quelle domande fondamentali poste all’inizio, cercheremo di dare loro le risposte che noi, sulla base delle fonti, riteniamo vere ed esatte. È giunto infatti il momento di esaminare, anche se in maniera non estensiva, ma semmai tematica, il vero Diritto Romano, l’autentico Diritto del Popolo Romano, il Jus Civile e il Jus della giurisprudenza nella sua sistemazione storica classica che va dalla Repubblica al Tardoimpero, i suoi Istituti, le precipue sue caratteristiche, ma, principalmente, la Visione della vita, la “forma mentis” che sta dietro, anzi su cui lo stesso si fonda, in una parola, la cultura giuridica Romana. Ciò al fine di verificare se corrisponde al vero, e dimostreremo che così non è, che il Diritto Romano (privato) sia il padre degli istituti giuridici del capitalismo, essendo esso Diritto, secondo la tesi che noi evidenzieremo essere storicamente e culturalmente falsa, essenzialmente fondato su di una filosofia individualista. È da dire che, già al solo sentir pronunciare una “sentenza” del genere, essa appare, alle orecchie anche di un profano, talmente assurda e talmente in contrasto con l’intera vicenda politica del Popolo Romano da meritare di essere assolutamente non presa in considerazione perché priva di veridicità storica in quanto frutto di pregiudizio ideologico oppure di ignoranza (dal latino ignorare = non sapere!). Tutta l’esperienza politico-giuridica millenaria di Roma, infatti, sta lì a rendere piena prova dell’essere stata solo e soltanto una inimitabile e straordinaria realtà corale, comunitaria, religiosamente Pubblica (tale termine è comune a quello di Popolo, derivando ambedue dall’arcaico pòplikos); dove il singolo come tale è considerato solo in quanto uomo pubblico, cioè osservante l’“officium” che è “ciò che si deve fare” nell’interesse della Res Publica. Valga ad esempio il fatto che nelle assemblee politiche Romane, i Comizi, il voto non è raccolto per singoli individui (come in Atene) ma per Ordini cioè per corpi sociali: per gentes nei Comizi Curiati, per Centurie nei Comizi Centuriati e per Tribù nei Comizi Tributi. Lo stesso Cicerone, in un famoso passo della sua opera sullo Stato, (De Re Publica) evidenzia con giusto orgoglio, il fatto che, a differenza degli altri popoli (leggi Greci ed Orientali) la “…nostra autem Res Publica...” non è frutto di una elaborazione di un nomoteta, cioè di un legislatore singolo che ha scritto le sue leggi ed i suoi istituti, ma è frutto bensì della secolare vicenda storica del Popolo Romano, delle sue lotte tra gli Ordini, delle sue guerre esterne, delle stesse competizioni politiche tra le varie magistrature, della concordia e della discordia di cui è stata pervasa la società politica nella sua vicenda storica, insomma è frutto dell’opera di anonime ed impersonali generazioni di Romani, che nei secoli, con immensi sacrifici, hanno creato qualcosa di spiritualmente oggettivo in quanto condiviso da tutti, sentito cioè come Valore comunitario; sarebbe a dire la “cosa di tutti” che egli chiama, con legittima dignità ed onore, Res Publica e che identifica con il Popolo nonché con il Sacro! Tale Welthanschaung è ovviamente la natura intima, l’essenza, in termini ontologici, di tutto il Diritto Romano, dall’età arcaica sino a Giustiniano, e ciò lo si evince dai testi, dalla lettura degli stessi senza lenti ideologiche moderne, dal significato e dall’origine delle parole che formano il linguaggio giuridico-precettivo Romano, atteso il fatto che tale linguaggio esprime, ovviamente, una precipua Visione della vita, della Comunità politica, del fortissimo legame religioso della stessa, del culto dovuto agli Dei (la “Religio“), della pace e della guerra, dei rapporti tra cittadini come tra il Popolo Romano e gli altri popoli che esso incontrava e con i quali aveva rapporti bellici in un primo momento e di associazione in fide al suo Destino, in un secondo momento, mediante trattati ed alleanze. Se in ambito strettamente pubblicistico, per usare un termine moderno, già in precedenti nostri scritti abbiamo evidenziato che il Diritto Pubblico, non solo è stato creato, per la prima volta nella storia, dai Romani ma come e perché da essi sia stato identificato addirittura con il Sacro; ora è necessario andare ad esaminare, in ambito privatistico, quale era la vera natura giuridica del “pater familias”, dei suoi poteri familiari, dell’indipendenza della sua proprietà, trattare della liceità o meno delle opere compiute allo scopo di coltivare il proprio fondo, della tematica relativa alle immissioni materiali nella sfera altrui prodotte dall’esercizio del proprio diritto; evidenziare la superiorità del sistema Romano delle obbligazioni nei confronti dei sistemi moderni.

Tutto ciò al fine di verificare se il Diritto Romano (privato) fosse o meno di natura individualistica. In via preliminare è bene esprimere con fermezza un’idea ben precisa: se le pretese tendenze individualistiche romane partono e si racchiudono nella fierezza dei poteri familiari del “pater” e nell’indipendenza della proprietà, bisogna sapere che sia l’una che l’altra sono parti integrate di un organismo che è nato come organismo politico (la famiglia prestatale) e che tanto la subordinazione dei membri della famiglia ai poteri del “pater” quanto poi, in seguito, formatasi la Res Publica, la subordinazione e la soggezione dello stesso “pater” all’interesse comune, sono i fattori non solo precipui della Romanità, ma costituenti la sua potenza nazionale e che pertanto smentiscono in partenza ogni parvenza di individualismo. L’intero svolgimento storico del diritto privato romano si articola quindi sulla base di idee e forze sociali fondamentali come la “aequitas” Romana e la Romana “bona fides” e ciò si riverbera negli stessi rapporti .dei gruppi familiari tra loro, in tema di obbligazioni, nei quali la prevalenza dell’interesse sociale su quello degli stessi . gruppi è molto più imponente che nell’epoca moderna. È d’uopo a questo punto precisare che individualistico è un sistema in cui la libertà individuale, inclusa quella di possedere dei beni, è concepita e istituzionalizzata come fine a stessa, al di fuori e contro ogni subordinazione agli interessi dalla società, la quale è giudicata, conseguenzialmente, come la somma aritmetica di altrettanti interessi individuali che l’ordinamento giuridico limita a vicenda in senso negativo. Pertanto, contemplare e difendere la libertà, l’autonomia ed i diritti soggettivi dell’individuo nei rapporti con gli altri membri della comunità politica, non sono principi individualistici ma bensì i fondamenti del diritto privato, di qualsiasi diritto privato, e quest’ultimo senza di questi non può assolutamente esistere. La questione è altra! Consiste nel fatto che, nella storia dell’esperienza giuridica dei popoli, la libertà della persona, dell’uomo, del cittadino, può essere più ampia o meno ampia, può prevalere sull’interesse comune o essere esercitata conformemente ai fini della stessa società. Ragion per cui, affrontare correttamente la questione, se il Diritto Romano privato fosse o meno individualistico, con tutto quello che segue, significa verificare se in esso la libertà individuale fosse ritenuta primaria nei confronti della Comunità ed esercitata in prevalenza sull’interesse di quest’ultima e non se in esso Diritto fossero presenti o meno quegli elementi fondamentali per la stessa esistenza di qualsiasi Diritto privato, elementi che innanzi abbiamo enunciato e che, in assenza degli stessi, non sarebbe mai esistito non solo lo stesso Diritto Romano privato ma la Res Publica medesima che è l’insieme dei cives e quindi dei loro diritti (privati…). Passando all’esame degli Istituti, è necessario chiarire in via preliminare, che è ormai acquisita, dalla scienza romanistica, l’origine consuetudinaria del Jus Civile, cioè esso è il costume giuridico dei Romani, in quanto insieme dei Riti e dei rituali, quindi del Mos Majorum. In tale concezione deve essere correttamente inserita la volontà individuale e l’autonomia degli individui che nell’esperienza giuridica romana non sono mai state considerate fonti di diritto, poiché per i Romani il Jus Civile, come i Mores Majorum, nonché la Religione, sono più antichi degli uomini, intesi come Comunità politica. Se, e lo abbiamo già accennato, al “pater” era riservata ampia autonomia decisionale, ciò lo si deve comprendere considerando il fatto che il “pater” è il capo politico e religioso di un gruppo etnico, la famiglia, che è a fondamento della stessa Res Publica (Cicerone la definisce: seminarium reipublicae); ma nei rapporti interfamiliari o intergentilizi, il costume, gli antichi mores e la formalità magico-giuridica dei negozi, immutabile per prescrizione della Tradizione e così custodita dal collegio dei Pontefici, costringono quell’autonomia negoziale entro ferree regole che gli stessi ordinamenti giuridici privati moderni non immaginano nemmeno! È questa una vittoria quanto mai esplicita della Comunità sul singolo! Il trasferimento, infatti, di una res mancipi, non può avvenire ad arbitrio delle parti, ma in ossequio religioso del rituale della mancipatio, così come prevede il Jus Civile. Se, in seguito, nell’età tarda, la forma lentamente decadde, essa restò ferma e costante, sino a dopo i Severi, in negozi di una importanza centrale per l’ordinamento giuridico romano come la mancipatio e la stipulatio, e quest’ultima è il perno su cui ruota l’intero Sistema Romano delle obbligazioni. Insieme alla forma è presente un altro principio che è caratteristico e qualificante del pensiero giuridico romano: la tipicità dei negozi che è la loro sostanzialità ontologica Vi sono, infatti, figure ben delineate e definite di negozi con i loro elementi essenziali e le loro relative forma ed azione. Pertanto, in Diritto Romano, non esistono contratti in genere o delitti in genere, bensì tipici contratti come tipici delitti. Questo è un limite tanto potente e manifesto all’autonomia dei privati che gli ordinamenti moderni, vittime della nozione soggettivistica e psicologistica della “voluntas” e dell’esame introspettivo, ignorano. Essi infatti, si sono uniformati alla filosofia individualistica del diritto bizantino ed orientale (di matrice cristiana) che, attraverso il giusnaturalismo razionalistico e la codificazione napoleonica, è giunta fino a noi, divenendo la base del diritto privato moderno. Il Diritto Romano classico dà, invece, assoluta preminenza alla manifestazione negoziale della volontà, consacrata nelle forme prescritte dal Rito, invece che alla cosiddetta “volontà interna”. Presso i Romani non vi sono infatti indagini giudiziarie di natura “psicologico-individualistica”, che tanto appassionavano i giudici e gli avvocati bizantini; l’animus nella gran parte dei negozi non è nemmeno contemplato come elemento essenziale: esso è ritenuto implicito negli acta determinati, che sono gli effetti oggettivi del Rito e della sua natura magica! E mentre noi oggi richiediamo requisiti soggettivi, per esempio nella novazione e parliamo di animus novandi (ecco la vera natura individualistico-bizantina del diritto moderno e non romano-classica… !), i Romani invece parlavano di aliquid novi, così come accadeva nella donazione, nella negotiorum gestio, nel legato ed in generale nel contratto, ciò significa che per il Romano l’essenza del Jus cioè del Rito è la sostanza ontologica della Idea di realtà che esso crea e non lo stato d’animo dei soggetti attori! La prevalenza della dottrina ermeneutica obbiettiva e non soggettiva nel Diritto Romano è presente financo nella teoria dell’errore e della simulazione nei negozi giuridici. Questo sarebbe il preteso individualismo del Diritto Romano privato? Quando, e lo abbiamo detto, il Jus Civile dai Romani, è considerato eterno e assolutamente non creato dagli uomini, ma, semmai, dagli stessi Dei, soltanto modificabile dalla Comunità politica per mezzo della Legge pubblica e cioè della rogatio del Magistrato ai Comizi, convocati rite ed auspicato (afferma Cicerone) cioè sempre nella precettiva ritualità giuridico-religiosa degli stessi. Pertanto è la Legge Comiziale che è Legge
del Popolo e non gli individui singoli a costituire un riparo nei confronti del Jus Civile ma essa non crea Jus Civile, nei confronti del quale i Romani manifestamente nutrono una religiosa venerazione. Restando in tema di obbligazioni e di colpevolezza in senso soggettivo-individuale, è necessario evidenziare che, mentre in altri sistemi giuridici antichi, la responsabilità oggettiva era contemplata solo nei contratti stipulati tra povera gente, nel Diritto Romano classico la qualità della persona, il suo appartenere a quello o a quell’altro ordine sociale o il suo censo non avevano alcuna rilevanza e non venivano pertanto presi assolutamente in considerazione.

Il sistema Romano, inoltre, non è pervaso da una visione individualistica nemmeno nel campo della proprietà, nell’ager limitatus, che è il caratteristico fondo quiritario del solo italico, con la sua limitatio, cioè il limes (che è il viottolo di cinque piedi) che lo separa dagli altri fondi. Nonostante, infatti, l’esistenza di aspetti esteriori della forma di esercizio del dominio, che hanno fatto nascere la convinzione, errata, che la proprietà quiritaria fosse l’espressione massima della signoria individuale (per i moderni individualistica…) sulla cosa, tale convinzione è falsa poiché ignora la storicità dell’Istituto della proprietà nella cultura giuridica Romana, ignora i limiti posti all’esercizio del diritto non tanto e non solo esternamente dalla Res Publica, quanto riconosciuti come doverosamente normali dalla stessa Comunità, sì da imporre essa stessa, attraverso il costume e la Tradizione, una ben determinata condotta ai singoli nell’esercizio di tale diritto. Ciò per la semplice ragione che, nelle società dell’età classica, la base materiale di appropriazione dei beni fondamentali per la sussistenza è costituita esclusivamente dalla campagna e questa è considerata, in termini giuridici e religiosi, territorio della città e sede dei proprietari dei fondi. Pertanto la Città, cioè lo Stato, non può disinteressarsi del modo in cui i singoli proprietari gestiscono l’uso della terra. Ciò significa che l’Autorità politica, sarebbe a dire il Popolo Romano nelle sue libere istituzioni (Magistrati, Comizi, Senato) controlla se quell’uso è o meno conforme ai superiori interessi della collettività. Auto Gellio (Notti Attiche, 4, 12) dice esplicitamente, facendo riferimento a provvedimenti legislativi promossi da Catone, che “…se taluno abbia tollerato che il suo campo si ricoprisse di erbacce o se taluno lo curava senza diligenza o non lo arava o ripuliva ovvero abbandonava gli alberi e la propria vigna, questo non fu immune da pena, ma era esposto al biasimo severo dei Censori i quali lo facevano erariovale a dire che il responsabile veniva trasferito in quella categoria di cives privi dei diritti politici, sanzione di una gravità pesantissima per la condizione del libero cittadino della Res Publica. È il caso di sottolineare che ciò che si è riferito innanzi conferma quanto, nella mentalità del Romano, il cattivo uso del diritto sovrano di proprietà, che, pur essendo signoria sulla cosa, è in relazione con i superiori interessi della Comunità del cui territorio, come si è detto, il fondo fa parte, implichi non una sanzione economica o di natura comunque privatistica ma bensì pubblicistica, cioè politica: la perdita pertanto dei diritti politici. Il significato profondo che sta dietro tale forma mentis risiede nella convinzione, tipicamente Romana, che chi non è in grado di governare bene ed in guisa eticamente ed economicamente conforme alla Tradizione la propria sfera patrimoniale, il proprio dominium, non sarà certamente in grado, godendo dell’esercizio dei diritti politici, di governare la città, in guisa altrettanto eticamente rispettosa del Mos Maiorum, quando, attraverso il Cursus honorum, dovesse, per mezzo dell’Officium, ricoprire cariche pubbliche. Quanto, e non solo in questo campo, avrebbero da imparare dal Diritto Romano i sistemi giuridici moderni! . Infatti, altro rilevante principio, in tema di limiti all’assolutezza dell’esercizio del dominium, è quello, della inibizione dell’actio aquae pluviae arcendae, azione prevista a tutela del proprietario nel caso in cui il vicino, per mezzo di un manufatto, abbia modificato il deflusso naturale dell’acqua. Ora, l’azione era infatti inibita, se l’opus manu factum fosse stato realizzato per le superiori esigenze della coltivazione. Principio che è, come appare evidente, enormemente rivoluzionario! Esso, infatti, subordinando alla buona coltivazione dei campi e quindi alla ricchezza collettiva del Popolo Romano, gli interessi individuali del proprietario, manifesta in modo solare la Visione del mondo dei Romani organicamente antindividualistica e quindi fortemente solidaristica e comunitaria.

Non poteva salvarsi dall’accusa, assolutamente infondata, di pregiudizio individualistico, il diritto di successione dell’ordinamento Romano. Gli argomenti portati a supporto di detta accusa sono, come è facile prevedere, il disconoscimento dei vincoli di famiglia, da parte del “pater”, il potere di diseredare i suoi discendenti ed istituire erede un estraneo, la prevalenza della testamentaria sulla successione legittima, concludendo che la libertà di testare, per i Romani, fosse assoluta. La falsità della suddetta accusa e la conseguenziale debolezza delle sue argomentazioni sono state ribadite, in dottrina, dal Bonfante, crediamo in guisa definitiva. Egli ha dimostrato, con dovizia di dati storico-antropologici, l’essenziale carattere politico-religioso dell eredità nel mondo Romano, poiché, come il Bonfante stesso sostiene, la famiglia medesima nella sua intima natura possiede tali caratteri. Ragion per cui la successione Romana risulta essere una successione nei poteri familiari ed essa trasmetteva non solo diritti patrimoniali ma anche e soprattutto diritti e doveri extrapatrimoniali, cioè poteri politici e tradizioni religiose e rituali familiari. La priorità del testamento sulla delazione legittima, la chiamata del solo primogenito o del più degno non hanno rilevanza se si prescinde dal contenuto di tale trapasso; così come l’argomento che l’erede fosse il “suus” o un estraneo designato dal “pater” con l’ “adrogatio“. Il medesimo criterio di giudizio può essere adottato per il meccanismo dell’investitura nelle magistrature: non dal modo dell’investitura ma dal contenuto effettivo del potere che si trasmette, vanno giudicati la natura e il contenuto dello stesso. Il Solazzi, da ultimo, ha ampiamente confermato la dottrina del Bonfante. Essa inoltre è corroborata dalle conclusioni che si possono trarre dalla osservazione e dallo studio dallo stesso sviluppo storico-giuridico della società romana. Anzi infatti quei mutamenti profondi che segnano il passaggio dalla società gentilizia a quella cittadina (ed è il tempo del dominio estrusco e del suo carattere antigentilizio e filoplebeo) con il prevalere, in seguito, della Res Publica sulle gentes, con lo spezzarsi dei forti legami politico-religiosi tra famiglia e successione, con l’affermarsi, per conseguenza, del principio della libertà di testare, se non fossero avvenuti in un mondo giuridico come quello Romano, avrebbero determinato la catastrofe del nascente comune unitario. Invece, proprio il fatto che tale pericolosissima eventualità non si sia verificata e cioè che la “patria potestas” e la libertà di testare non siano state, di fatto, perno di un dirompente individualismo giuridico e politico tale da sfasciare la Comunità, la dice lunga sulla superiore Coscienza del Popolo Romano il quale fece di essi uso altamente civile ed in genere subordinato agli interessi sociali ed ai fini supremi della grandezza dello Stato! E che dire dell’actio Publiciana, che è la tutela dell’acquisto in virtù della bona fides che nessun diritto moderno ha mai contemplato? Essa è palesemente finalizzata alla conservazione della pace sociale, interesse ritenuto superiore alle stesse rivendicazioni dei singoli. Restando sempre in tema di concezione della proprietà in Roma, qualche accenno è dovuto al condominio. I sistemi moderni si fondano, come è noto, sul principio della maggioranza degli interessi che è, come appare evidente, il più individualistico che si possa immaginare, atteso il fatto che concede ai più forti un potere tirannico sui piccoli interessi. Esso, d’altronde, è nato e si è sviluppato nell’epoca moderna, è stato accolto dal nostro Codice del 1865 ed è fondato sul concetto il quale afferma il privilegio della libertà individuale anche se è in oggettivo contrasto con un insieme di piccoli e quindi più deboli interessi. Si tratta di un criterio palesemente materialistico, economicistico ed individualistico, mentre il sistema romano della comproprietà tutela non la libertà del più favorito ma la libertà del condomino in quanto tale e cioè proprietario nel senso di dominus. Per comprendere il principio romano del jus prohibendi che il condomino può esercitare per temperare le gravi problematiche che possono sorgere nell’esercizio di quello che per i Romani è, in fin dei conti, un dominio plurimo integrale, è sufficiente collegarlo, in via analogica, alla collegialità dell’Imperium dei Consoli o alla Collegialità della Potestà dei Tribuni della Plebe, dove tale potere non è diviso in quote poiché è giuridicamente illimitato proprio come il dominium del condomino.

Ciò posto, appare chiaro che tanto l’intercessio collegarum (dei Consoli o dei Tribuni della Plebe) quanto lo jus prohibendi del condomino sono dei freni potenti nei confronti dell’eventuale arbitrio e del collega Magistrato e degli altri singoli condomini. Tutto questo complesso di sistemi veniva nel tempo sempre rivisto, modificato ed adattato alle nuove realtà politico-sociali da quella splendida e rivoluzionaria istituzione dell’ordinamento giuridico romano che è la equità pretoria e la sua giurisprudenza. Daltronde la giurisprudenza sia Pretoria che dei Giurisperiti, che è sempre Scienza ed attività gratuita esercitata al servizio della Comunità dai nobili e dalla classe dirigente, quanto la giurisdizione Imperiale, inoltre, pur nutrendo, come si è già detto, una venerazione religiosa per il Jus Civile, furono sempre molto attente a mitigare ed a rendere più consono alla mutata sensibilità sociale l’insieme dei principi del Diritto, non creando jus ma modificando prudentemente quello vigente, in ciò manifestandosi il tipico e sano conservatorismo dei Romani. Il discorso che qui abbiamo inteso sviluppare, anche se obbligatoriamente in guisa non esaustiva, ha avuto per finalità primaria quello di dimostrare che è assolutamente falso attribuire al Diritto Romano (privato) la paternità degli istituti giuridici del capitalismo, in virtù di una pretesa filosofia individualistica di cui sarebbe portatore. È però lungi dalle nostre convinzioni l’idea che il Diritto Romano, pur appartenendo a una civiltà differente e lontana nei confronti di quella moderna, non possa dire e insegnare nulla ai nostri attuali sistemi giuridici.

Siamo assolutamente convinti del contrario!

Infatti crediamo di aver dimostrato che il diritto privato dell’età moderna è tanto fondato sulla cultura individualistica di questa età sì da essere solo e soltanto esso la culla del capitalismo e del suo sistema giuridico a causa proprio del fatto storico consistente nell’aver la scienza e la prassi giuridiche moderne utilizzato “ad usum delphini” non il vero Diritto Romano privato ma bensì una recezione falsata dello stesso, palesemente legittimante e di supporto nei confronti degli interessi e delle ideologie della classe borghese industriale e commerciale, nel momento in cui, nel tardo XVI secolo, iniziava a prendere il sopravvento politico e culturale nelle società europee. Pertanto, alla luce di tutto ciò, riteniamo di poter affermare con vigore che il Diritto Romano nel suo spirito (tanto il privato quanto ed a maggior ragione il pubblico) è ancora integro e sano nella sua limpida storicità solo che lo si voglia guardare, studiare e fare oggetto di riflessione politica, filosofica e giuridica, affinché il suo immenso patrimonio, autentica miniera di Valori, Concezioni, Istituti, tutti rigorosamenti fondati su di una sana visione giuridico-religiosa di natura rituale, organica, personalistica e solidale, che permangono come elementi intranseunti nella loro perenne spirituale validità, possa consentire alla decadente cultura filosofico-giuridica europea di prendere coscienza che l’unica via per uscire dalla catastrofe della modernità, che è, contestualmente, tanto il suo anarchico individualismo quanto il suo opprimente e tirannico burocratismo statale, si trova nella Tradizione giuridico-religiosa Romana, quale anima unica ed autentica dei Popoli Europei.

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Giandomenico Casalino

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