Paolo Borgognone classe 1981, laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Torino, saggista e lavoratore del campo giornalistico ed editoriale. Collaboratore, tra gli altri, dei siti “Blondet&Friends”, “Controinformazione.info”, “Pandora TV”, e col quotidiano “La Verità”. Autore di diversi saggi, sul sistema della (dis)informazione e sul fallimento della sinistra “radicale”, dalla quale anch’egli è partito come esperienza politica prima di iniziare l’opera di superamento degli steccati destra/sinistra. Importante anche il suo saggio Generazione Erasmus. I cortigiani della società del capitale e la “guerra di classe” del XXI secolo (Oaks Editrice, 2017), dove effettua un’attenta disamina della “generazione Erasmus”, appunto.
In questa intervista gli chiediamo delle riflessioni, in virtù dell’affermarsi del movimento che genericamente definiamo populista/sovranista, in un’ottica allargata non solo nazionale ma europea e anche in vista di nuovi modelli teorici e di organizzazione politico-statale.
- Pensi che il movimento populista/sovranista, nazionale ed europeo, sia in grado di generare una nuova Europa? E che sia proprio esso a generare una vera Europa, frutto di necessità “effettive”, come unire le innumerevoli nazionalità del continente alla luce di principii comuni, alti e condivisi, e che quindi non abbia nulla a che fare con l’Europa della moneta, dell’“economia al centro di tutto” e più in generale del “disvalore”?
Innanzitutto, mi si permetta una precisazione di carattere biografico. Io non sono partito dalla sinistra radicale, ma dalla “nuova destra” metapolitica e dalla corrente detta della rivoluzione-conservatrice e le mie origini ideologiche profonde si collocano in quel campo politico. Io sono infatti un pensatore con valori di destra tradizionale, valori signorili di fedeltà e onore, e idee di sinistra. Io sono interessato a quella che è stata la parabola storica e politica del fascismo di estrema sinistra (Stanis Ruinas, “Il Pensiero Nazionale”, ecc.) non tanto per questioni di affinità ideologiche di fondo ma perché ritengo che quella che passa dal fascismo rivoluzionario sia la strada più percorribile per approdare alla Quarta Teoria Politica (arrivare alla Quarta Teoria Politica partendo dal comunismo storico novecentesco è infatti più difficile, ma non impossibile, mentre lo è, inequivocabilmente, principiando dal liberalismo). Mi sono sganciato dalla destra (MSI/AN), dove ho militato per alcuni anni in gioventù, a causa del progressivo ricollocamento di questa specifica corrente politica, Alleanza Nazionale, nel solco del liberalismo di regime. Un ricollocamento, tra l’altro, del tutto tattico e opportunistico perché i cosiddetti “camerati” di AN che ho conosciuto non erano affatto, in cuor loro, liberali e liberisti ma aderirono alla narrativa del “libero mercato” di merci e opinioni in quanto scorgevano in quel riposizionamento la tattica migliore per stabilire la loro agognata egemonia sul polo berlusconiano. Poi s’è visto come andò a finire, con il leader di quella che fu AN divenire, progressivamente, più realista del re, cioè più liberista e filo-Ue di Berlusconi, e prono dinnanzi all’imperialismo americano e sionista. Fini fu un antifascista liberale di professione e sottolineo la parola liberale. Essendo il sottoscritto anti-liberale (anche se non certamente un fascista) il mio rapporto con questo tipo di destra politica, che è la destra del denaro, dell’arroganza dei ricchi contro i poveri e di Montecarlo Gran Casinò e non certamente il reale polo della Tradizione di cui parlarono Evola, Guénon e Adriano Romualdi tra gli altri, si chiuse bruscamente all’inizio del 2008 (prima del PdL, anzi, appena saputo che Fini avrebbe traghettato AN all’interno del partito azienda berlusconiano). Così come il ragionier Ugo Fantozzi, deluso in amore, trovò una nuova ragione di vita nella militanza a sinistra in virtù del contatto con un certo Folagra detto anche “la pecora rossa” della megaditta, il sottoscritto approdò, dopo l’esperienza fallimentare e non rimpianta a destra, alle sponde di una sinistra radicale che era, in definitiva, nomen omen, ovvero il partito della borghesia urbana e del ceto studentesco di estrazione agiata ma che, nei fatti, aveva da tempo consumato la propria separazione culturale dalla critica sociale dei lavoratori nei confronti del capitalismo. A sinistra, infatti, militano oggi perlopiù dei burocrati piccolo-borghesi, degli studenti di ceto medio o addirittura medio-alto e di estrazione urbana, i principali intellettuali politically correct e persino artisti cosmopoliti o sedicenti tali, ovvero i ceti sociali e ideologici meno rivoluzionari e più conformisti e manipolati che la storia dell’umanità abbia conosciuto. La sinistra radicale che per qualche tempo (2009-2013) ho conosciuto era il partito della critica artistica del capitalismo, cioè il partito degli intellettuali, dei liberi professionisti e degli studenti un po’ snob che consideravano, di fatto, il popolo concreto come un’accozzaglia di razzisti e seminatori d’odio nei riguardi del “diverso” (i “diversi”, nel lessico della sinistra postmoderna sono infatti i gay, le femministe isteriche, i migranti, gli spostati e i tossicodipendenti, i soggetti marginali e border line, ecc.). In realtà, questi “diversi” di cui la sinistra si nutriva a mo’ di bacino d’utenza privilegiato dopo la propria separazione volontaria e consapevole dal popolo lavoratore sono le moltitudini negriane, postproletariato flessibile, biocognitivo e precario dal punto di vista esistenziale ancor prima che lavorativo. Il precariato esistenziale è molte volte frutto di una scelta e non ho compassione per chi, scegliendo di godere illimitatamente dei frutti avvelenati messi a disposizione dal modo di produzione contemporaneo per arruolare tra le sue fila le moltitudini di cui sopra, va incontro all’inevitabile deriva della destabilizzazione esistenziale, ossia della depressione e della tossicodipendenza (non tanto da droghe ma anche e soprattutto dai merdosi “divertimenti” e stili di vita liberal improntati al principio della mobilità utilitaristica). Pertanto, anche se a sinistra ho in più occasioni incontrato individui stimabili, il collettivo era completamente transitato sulla sponda del radicalismo liberale e, in questo senso, ogni ipotesi di permanenza e collaborazione, da parte mia, in e con quegli ambienti, venne drasticamente meno. Attualmente, e fortunatamente per l’ecologia della mia mente, il mio rapporto politico con la sinistra radicale è, com’è giusto che sia, pessimo (anche se, non essendo io un uomo che confonde il personale con il politico, conservo, a titolo privato, alcuni amici che militano o hanno militato nell’ambito della sinistra). Rivendico però il mio passato di uomo differenziato e il mio presente di socialista rivoluzionario in grado di superare, in nome della convergenza di ciò che la migliore tradizione della destra e della sinistra offre sul piano ideologico e di prassi concreta, gli steccati artificiosamente costruiti, per separare gli oppositori del sistema e consolidare gli equilibri e i rapporti di forza esistenti, dai corifei accademici, politici e giornalistici dell’antifascismo e dell’anticomunismo. L’antifascismo e l’anticomunismo sono categorie storiche ormai obsolete, utili esclusivamente a perpetuare lo stato di cose presenti e soltanto nel momento in cui queste categorie saranno inequivocabilmente rimosse dal lessico e dall’immaginario politico di chi si proclama oppositore del regime neoliberale vigente, potranno sorgere nuovi soggetti in grado di realizzare l’unione del populismo e del sovranismo come blocco politico antiglobalista in grado di sfidare i banchieri internazionali e i loro lacchè nel ceto politico, accademico e mediatico occidentale. I populisti sono infatti riusciti, come spiega il politologo Marco Tarchi, a individuare e recepire alcuni temi cari a un discorso che poteva essere definito, negli anni Settanta-Ottanta del XX secolo, di Nouva Destra e, oggi, di Nuove Sintesi oltre la destra e la sinistra, come «identità contro cosmopolitismo, popoli contro oligarchie, specificità culturali contro omologazione, ecc.». Per questa ragione, io credo che l’attuale governo italiano (M5S-Lega) sia il meno peggiore che la storia repubblicana ci abbia riservato e, tuttavia, non si tratta di un esecutivo entusiasmante poiché, nonostante alcune prese di posizione effettivamente in controtendenza rispetto alle politiche di chi lo ha preceduto, rimane prono, spaventato e talvolta complice di fronte ai poteri finanziari, atlantici e sionisti che ne hanno determinato la possibilità di costituirsi. È anche vero che l’esecutivo “giallo-verde” non ha alcun interesse, non trarrebbe alcun vantaggio e sarebbe rovesciato immediatamente dai poteri di cui sopra se si ponesse effettivamente in un’ottica di scontro aperto con gruppi e apparati oligarchici di pressione internazionale spaventosamente più grandi e influenti di esso, come la NATO, Israele, le banche d’affari private anglo-americane tipo JP Morgan e Goldman Sachs, il FMI, la BCE stessa… Il governo “giallo-verde” non può partire a testa bassa e sfidare tutti e tutto sapendo che, alle spalle, non ha il sostegno inamovibile di milioni di persone “credenti” che antepongono l’interesse collettivo al profitto individuale di piccolo cabotaggio bens
ì il consenso monetizzato (es: ti voto se mi dai 780 euro al mese di reddito di cittadinanza; ti voto se mi abbassi l’aliquota IRPEF al 15 per cento, ecc.), precario e volubile di tanti piccoli, cinici, “bisognosi”, meschini e opportunisti personaggi ritratti con maestria nei film più celebri di Alberto Sordi, quelli in cui codesto inimitabile attore metteva a nudo le caratteristiche più spiccate del ceto medio-basso italiano dell’epoca, ossia il particolarismo e il patrimonialismo spinti nonché l’innata propensione a tradire qualsiasi parola data nel momento in cui gli veniva “toccato” il portafoglio, cioè lo stile di vita improntato alla salvaguardia della propria comfort zone di borghesucci da quattro soldi (retorica del “tengo famiglia, stipendio e reputazione” e non posso rinunciare a nulla di tutto ciò, anche a costo di comportarmi, nella vita di tutti i giorni, come Giuda Iscariota). Salvini e Di Maio, che sono a loro volta due piccoli-borghesi particolaristi e smaniosi di diventare famosi senza però “pestare i calli” a chicchessia nell’ambito dei cosiddetti poteri forti atlantici e dunque preoccupati più che altro di porsi al riparo da rischi di sorta per la propria incolumità personale, sanno perfettamente tutto questo e agiscono di conseguenza.
- Dal punto di vista dell’elaborazione teorico-politica, non pensi che sia chiuso anche il capitolo del superamento della dicotomia destra/sinistra o di alleanza trasversale tra parti della destra e della sinistra? Non trovi sia il caso, dunque, di procedere con la creazione di una nuova sintesi che unisca a monte il “pensiero” che dovrà guidare un processo politico di trasformazione? Questo anche per evitare l’etichettamento, tipo “rossobruni”, che poi sarebbe la morte di una spinta propulsiva “teorica” perché inserisce il tutto in nicchie ideologico-politiche che per quanto rivoluzionarie possano essere saranno sempre innocue e addomesticabili, o comunque depotenziate.
Sì, è quello che sostenevo rispondendo alla domanda di cui sopra. Bisogna portare la sinistra a destra sul piano culturale e la destra a sinistra sul piano economico. E costruire l’ipotesi di nuove sintesi populiste/sovraniste che producano emancipazione dei popoli in lotta contro l’imperialismo del caos non soltanto geopolitico e finanziario, ma anche etico e morale. Ovviamente, per fare ciò occorre sbarazzarsi dei legami precedenti con le ideologie novecentesche, ovvero con il fascismo e con il comunismo, per poter combattere a fondo il nemico principale dei popoli in questo secolo, cioè il liberalismo, il capitalismo postmoderno e la società di mercato. La categoria di popolo, in questo senso, dev’essere riportata alle sue origini metafisiche, ossia il popolo come prodotto concreto, realmente esistente, del Dasein, cioè dell’intelletto sovrarazionale, puro. In questo senso, la grande dicotomia contemporanea non si articola sulla linea di faglia destra/sinistra, né su quella città/campagna, bensì nella lotta senza quartiere tra il sovraumano (Dasein) e l’inumano (o post-umano, o addirittura trans-umano, cioè il liberalismo). Non a caso, in Italia, i liberali più estremisti, come quelli del defunto (ma puntualmente redivivo a ogni appuntamento elettorale) Partito radicale, hanno intrapreso, negli anni, una retorica distruttiva centrata sulla particella maligna “trans” (transnazionale, transpartito, transessuale, transgender, transumano, ecc.) con cui usavano storpiare a piacimento le identità. Si trattava, e si tratta, della trasposizione nella filosofia e nella politica dei processi di modificazione genetica condotti dai mad doctors positivisti e illuministi al mero scopo di distruggere la natura umana per sostituirla con un esercito di cloni e abomini perfettamente manipolabili, in quanto fragilissimi sotto ogni aspetto, dal regime dominante. Il transumanesimo è lo stadio ultimo del globalismo e si affermerà attraverso una profonda prassi di centrifugazione e storpiatura delle identità collettive e persino delle grammatiche esistenziali individuali. La destra e la sinistra borghesi (anzi, di ceto medio, mediocri), entrambe profondamente influenzate, nell’ideologia di riferimento, dal Partito radicale tanto da diventarne emanazioni e protesi partitiche sostanziali, sono dispositivi di controllo e riproduzione sociale create dagli, e a disposizione degli, agenti propulsivi del transumanesimo (la Global Class transnazionale). I media televisivi e cartacei di impronta liberale, e i siti internet pro-globalizzazione, sono a loro volta dei dispositivi di disumanizzazione delle comunità e degli individui stessi. Il ricorso ossessivo, da parte dei media di regime, a una narrativa tesa a psicologizzare e a medicalizzare all’eccesso le società, è innescato ad arte per indebolire e debilitare le società, per renderle dominabili e per consolidare i rapporti di forza, tutti rigorosamente a vantaggio di un pugno di oligarchi e banchieri internazionali, esistenti. Il ricorso alla particella “trans” come tentativo dei media e dei politici di regime di nobilitare e conferire prestigio e legittimità alla retorica liberale della “società aperta” (“trans” come sinonimo di apertura e modernizzazione dell’economia e contaminazione “multiculturale” degli stili di vita e dei costumi globali), è integralmente volto a riconfigurare l’umanità su basi biopolitiche e biocognitive e, pertanto, teso a costruire un mondo di schiavi e di infermi costituzionalmente impossibilitati, per questioni fisiche e psichiche, a ribellarsi allo stato di cose presenti. Non vi è infatti, nei processi di transizione alla dimensione postumana e postnazionale delle comunità e degli individui, alcuna forma di multiculturalismo poiché il transumanesimo tende a distruggere tutte le culture (anche, paradossalmente, quella che l’ha generato, cioè il liberalismo) e a sostituirle con il regno caotico dell’indifferenziato, del nulla permanente e attivo. Di fronte a questa prospettiva, i partiti e i movimenti, presenti e futuri, che si richiamano alle categorie del
- Cosa ci puoi dire sulla proposta “comunitarista”, può essere essa un’ipotesi che superi definitivamente le esperienze politiche novecentesche (comunismo, fascismo, liberalismo) e se vi siano anche divergenze con la democrazia stessa e di che tipo.
Il comunitarismo può essere interpretato sia dal punto di vista della sinistra che della destra ma si tratta di una speculazione filosofica che nella prassi ha relativamente poca rilevanza. Comunque, il comunitarismo visto da sinistra è una sorta di correzione democratica del comunismo e rimanda all’organizzazione socio-economica della polis greca classica, il cui modo di produzione era basato sull’egemonia di piccoli proprietari liberi e indipendenti e non sulla schiavitù del “proletariato” (che arrivò con l’ellenismo, cioè qualche secolo dopo…). Il comunitarismo visto da destra è invece un tentativo di reinventare comunità organiche e simbiotiche su basi apparentemente particolaristiche ma, in realtà, federative, sull’idea dell’Impero dei carolingi e degli ottoni. Detto questo, io penso che il comunitarismo possa essere l’orizzonte per una battaglia politica che è, tutt’oggi, purtroppo ancora da organizzare prima che da intraprendere lancia in resta. E, siccome i comunitaristi di sinistra e di destra dovrebbero avere un nemico principale contro cui votarsi e combattere, ovvero il capitalismo liberale e la società di mercato, sarebbe utile che si unissero per imbastire questa lotta politica insieme invece che continuare a lacerarsi in settarismi e sterili rivalità senza fine né soluzione. Io penso che la Quarta Teoria Politica formulata da Aleksandr Dugin nella sua opera meritoria e imprescindibile possa essere l’antidoto idoneo per debellare il veleno della modernità liberale e del Politicamente Corretto. Il populismo/sovranismo (cioè l’unione di queste due categorie, ossia delle pulsioni ancestrali dell’uomo a tendere verso l’ideale di verità e di ricerca dell’indipendenza e della giustizia per la propria stirpe e specie) è certamente la metafisica della Quarta Teoria Politica, ma anche la sua espressione di prassi concreta a livello di dibattito pubblico. I libri di Dugin “La Quarta Teoria Politica” (NovaEuropa Edizioni, 2018) e “Putin contro Putin” (AGA Editrice, 2018) sono, in questo senso, paradigmatici e ricoprono il ruolo di manifesto per il pensiero filosofico di alternativa all’esistente del XXI secolo. Io penso che i populisti europei, se vogliono uscire definitivamente dal perimetro neoliberale in cui sono ancora ahimè iscritti in quanto perlopiù prodotto di una frattura di classe interna all’ordine dominante devono dotarsi di un bagaglio culturale che permetta loro di dismettere ogni residua etichetta di populisti di destra piuttosto che di sinistra per concretizzarsi, invece, in un blocco populista integrale (cioè che integra la destra dei valori e la sinistra della rivoluzione). Questo bagaglio culturale di riferimento può essere rintracciato nei libri di Aleksandr Dugin (“Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia”, Pagine, 2015; “La Quarta Teoria Politica”, NovaEuropa Edizioni, 2018) e di Alain de Benoist (“Populismo. La fine della destra e della sinistra”, Arianna Editrice, 2017). Detto questo, io sono particolarmente favorevole ad alcuni dei presupposti veicolati da importanti pensatori riconducibili all’alveo del populismo di sinistra e considero i loro lavori come un punto di partenza, finalmente non liberale, per conferire un po’ di ossigeno a una parte politica ormai quasi integralmente degradata. Tra questi autori di indubbio pregio cito e leggo assai volentieri Carlo Formenti (“La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo”, DeriveApprodi, Roma, 2016; “Oligarchi e plebei. Diario di un conflitto globale”, Mimesis, 2018; “Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro”, EGEA, 2011), Thomas Fazi e William Mitchell (“Sovranità o barbarie”, Fazi Editori, 2018) e Fabrizio Marchi (“Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta”, Zambon Editore, 2018). Vi sono, infine, pensatori marxisti-leninisti, come Stefano G. Azzarà, molto stimabili ma che, a causa di una loro insistenza, del tutto particolare e immotivata, anche se per certi aspetti comprensibile nell’ambito di un discorso più generale di salvaguardia delle identità politiche novecentesche, definiscono, a mio parere a torto, la Quarta Teoria Politica come «un preciso progetto politico e egemonico di estrema destra (una destra particolarista, in solidarietà antitetico-polare con la destra universalista-immediatista di stampo liberal» (S. G. Azzarà, “Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia?”, Mimesis, 2018, p. 128, nota 94). Sono invece d’accordo con Azzarà quando costui definisce il sovranismo di destra come una forma di socialsciovinismo. Il sovranismo infatti, laddove si declina in un’accezione di destra si risolverà a costituire una variante nazionale del neoliberismo che, concretamente, manterrà inalterata la struttura di classe vigente. Il sovranismo sarà tale soltanto nel momento in cui parlerà al popolo, cioè agli oppressi, il linguaggio leninista della rivoluzione bolscevica (nazionalizzazione delle banche ed esproprio dei grandi capitali e trust privati). Il sovranismo, infine, sarà tale nel momento in cui contrasterà efficacemente quella che è la sovrastruttura politica, ideologica e psicologica della “società aperta”, cioè la sinistra (i liberal, i radical-chic, gli snob), il politically correct e il sistema mediatico mainstream fondato sulla pubblicità e sul marketing (società dello spettacolo, esistenza commerciale). In altri termini, il sovranismo o è nazional-bolscevico o non è. In effetti, il nazionalbolscevismo fu realmente preponderante in Unione Sovietica, in Cina, in Corea del Nord, in Vietnam, in Cambogia, in Albania, in Romania e in Serbia (in quest’ultimo Paese, dopo il 1989) e soltanto chi, come alcuni militanti della “sinistra ex”, passa le notti insonne terrorizzato dal fatto di poter essere additato pubblicamente come “rossobruno” da parte di qualche vecchio compagno rincitrullito, può negarsi strumentalmente questa realtà così tangibile. È infatti sufficiente leggere il libro di Mikhail Agursky, “La Terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica” (Il Mulino, 1989), per rendersi conto di quanto ciò che ho più sopra affermato corrisponde al vero. Il nazionalboscevismo, infatti, lungi da poter essere ricondotto a gruppi o ideologie di destra, è una corrente politica che si inserisce pienamente nel solco del socialismo internazionale. La categoria di “rossobrunismo”, infine, che rende tormentato e frammentario il sonno di parecchi militanti di una sinistra radicale ormai in tutto e per tutto “ex”, fu coniata da alcuni intellettuali liberal, cioè filo-imperialisti, di stampo anglo-americano e francese, all’inizio degli anni Novanta del XX secolo per legittimare, dinnanzi all’opinione pubblica occidentale di ceto medio, le politiche di guerra intraprese dalla NATO contro i popoli resistenti e ribelli dell’ex Jugoslavia (serbi in primis). Alcuni militanti della “sinistra ex” hanno aderito a una retorica propagandistica e imperialista di guerra coniata ad arte dai circoli atlantici americani e francesi allo scopo di convincere l’opinione pubblica internazionale a sostenere la guerra “umanitaria” condotta dalla NATO contro la Jugoslavia e lo hanno fatto poiché i sinistri sono, a ogni latitudine, particolarmente sensibili al richiamo genericamente antifa, anche laddove questo richiamo provenga da quelli che, sulla carta, dovrebbero essere i nemici principali della sinistra antagonista e di alternativa, cioè i ceti milionari e imperialisti americani. I sinistri più ottusi preferiscono infatti ostinarsi a definire il nazionalbolscevismo come una corrente di “estrema destra” che ha, in qualche modo, contaminato la loro personalissima idea di comunismo e fanno semplice
mente finta che alcuni capitoli della storia di determinati Paesi, come la Russia e la Cina, non siano esistiti o siano stati oggetto di un tentativo fascista di egemonizzare, a vantaggio dei “neri”, porzioni importanti della storia politica russa e cinese. Naturalmente, la paura di certi militanti e quadri, centrali e di provincia, di questa “sinistra ex” di vedere il “movimento” preda di ripetute e continue infiltrazioni di estrema destra è una forma di ossessione, una psicopatologia politica che io, non essendo psichiatra, posso constatare ma non curare.
- Pensi che questa “proposta” possa creare un paradigma “nuovo” che sostituisca il principio dell’“economia al centro di tutto”, e dunque ci si possa avviare ad una fase che rimetta le cose in ordine, per così dire, e quindi lo “spirito” e l’“idea” come guida di una nuova Europa?
Sì ma, come ripeto, siamo soltanto all’alba di una “rivoluzione populista” in Europa e i passi da fare sono ancora molti prima di poter stilare un bilancio in attivo di tanto lavoro. Il populismo italiano, leghista, è stato molto reattivo ma si trova, insieme al M5S, a dover fare i conti con un avversario temibile e sleale, ossia il partito dello spread. Questo partito è internazionale, di matrice cosmopolita-oligarchico, è guidato dai banchieri della BCE e del FMI, dagli speculatori dei fondi d’investimento privati transnazionali e dalle agenzie private di rating di Usa e Ue. In Italia, questo partito ha dei manutengoli riprovevoli nel ceto politico, accademico e mediatico, anche tra gli artisti e i comici di regime. Sono quelli che ogni giorno ci ricordano le presunte e pretese, ma indimostrate, virtù “salvifiche” dell’euro e della Ue e che ci rimproverano perché, in fin dei conti, non siamo abbastanza liberal e clintoniani… In realtà, in TV, è ormai difficile distinguere un giornalista mainstream da un comico altrettanto generalista o da una “lucciola” o escort e, pertanto, ho deciso autonomamente, ormai da quasi 10 anni, di astenermi dal vizio della TV così come un soggetto a rischio cancro al polmone si astiene dal vizio del fumo. La continua esposizione alla TV di regime (ma anche ai giornali liberal) rincoglionisce e abbassa le difese immunitarie e psicologiche delle persone allo stesso modo in cui il fumo danneggia i polmoni e molti altre parti del nostro organismo. Lo spread è un plotone di esecuzione puntato contro un prigioniero bendato. È inutile provare, da parte del prigioniero, a dialogare con i soldati schierati che lo stanno per fucilare. Non ci può essere trattativa tra chi ha il fucile carico e può sparare a piacimento e in ogni momento e chi è inerme con le spalle al muro, perché i rapporti di forza tra le parti sono troppo squilibrati. I banchieri che hanno in mano gli Stati della Ue e l’Unione stessa tengono per le palle il governo “giallo-verde” e Salvini e Di Maio, sapendo di non avere la forza per attuare politiche espansive che siano davvero risolutive della crisi in corso, hanno delegato la trattativa con la Ue a dei tecnici neoliberali in doppiopetto che, a differenza dei leader leghista e pentastellato, non devono rispondere al giudizio degli elettori dei loro cedimenti e cambi di passo ideologico repentini. Così, Conte e Tria (che non si presenteranno mai alle elezioni e pertanto non saranno mai giudicati per le politiche che vanno a intraprendere) calano le braghe davanti ai diktat di Bruxelles e Salvini e Di Maio possono ripetere: noi non ci saremmo comportati in questo modo arrendevole, avremmo tenuto la posizione. Cazzate! Salvini e Di Maio sanno benissimo che al primo sgarro vero che faranno alla Ue il partito dello spread comanderà al plotone d’esecuzione di cui sopra di sparare e il condannato a morte, ossia l’Italia, non avrà scampo, non potrà difendersi. Non si può stare nella Ue e, nel contempo, pretendere di varare manovre economiche espansive (Tsipras docet). I tecnocrati di Bruxelles non ammettono dialogo: “paghi tutto e subito o muori”, è questa la loro filosofia politica di riferimento. D’altronde, non ho fiducia nella maggioranza degli italiani che, esattamente come i greci, vuole l’impossibile cioè l’euro senza l’austerità… L’euro è sinonimo di austerità e sacrifici per i ceti deboli e profitti a valanga per i grandi speculatori di borsa ma chi pensa solo ad avere la pancia piena per se stesso e non si cura dell’interesse collettivo tutto ciò non lo potrà e vorrà mai capire. L’italiano medio, che è sostanzialmente il “borghese piccolo piccolo” o l’irritante e meschino protagonista del film “Un eroe dei nostri tempi”, entrambi interpretati da Alberto Sordi, non potrà mai capire che la crisi del 2008 è stata l’innesco di un processo di ristrutturazione ulteriore del capitalismo globale, pianificato e attuato dai banchieri americani, tedeschi e francesi per rifinanziare e incrementare i loro profitti e per socializzare, cioè per scaricare sui più poveri, le loro perdite e “marachelle” e non una sorta di terremoto finanziario indipendente dalla volontà umana. Allo stesso tempo, l’italiano medio rimprovererà sempre ai politici le loro lacune più superficiali ma rinuncerà scrupolosamente a uno sguardo d’insieme più profondo. Gli italiani di ceto e intelligenza mediocri, infatti, fingono di rimanere attoniti dinnanzi alle ripetute gaffes di alcuni ministri in carica e, all’estero, sogghignano del fatto che il presidente francese Macron, un nemico del governo “giallo-verde”, abbia spostato una donna di 25 anni più grande di lui. Ma queste sono considerazioni superficiali, gossip allo stato puro! Nessun italiano che ha il mainstream come unica fonte d’informazione, infatti, prende in seria considerazione l’ipotesi che il potere di veto di Macron, in sede Ue, nei confronti del governo “giallo-verde” sia irrevocabile e indiscutibile in quanto il presidente francese è innanzitutto un uomo della NATO e con la NATO la storia ha dimostrato, peraltro ampiamente, che non si discute poiché azzardarsi a farlo equivarrebbe, per il dissidente in questione, lasciarci la pelle! Salvini potrà contraddire Macron soltanto a parole ma nei fatti dovrà rimanergli fedele poiché, in concreto, il leader leghista, che non è un protetto dell’Alleanza atlantica (e ciò va a suo merito sul piano squisitamente filosofico), rischierebbe la reputazione e l’incolumità, se non la vita stessa, nel momento in cui osasse porsi concretamente in un’ottica di scontro diplomatico con un leader, com’è Macron, figlioccio politico della NATO. Non mi sembra che Salvini abbia la statura politica e il carattere di Allende o Milosevic (che diedero la vita per difendere la causa in cui credevano), piuttosto di qualche concorrente un po’ smargiasso e guascone dei reality show prima maniera di Mediaset e, quindi, credo che anteporrà, come per certi aspetti è anche comprensibile e prevedibile da parte di uomo qualunque come può essere il leader leghista, la salvaguardia della propria incolumità fisica da possibili ritorsioni atlantiche di sorta alla sfida incondizionata ai poteri finanziari e militari di impronta anglo-americana. Mi rincuora, dinnanzi a questo scenario obiettivamente sconfortante, il fatto che, solitamente, le grandi rivoluzioni (Russia, Cina) non le fanno le masse indistinte ma determinate avanguardie consapevoli.
- Hai scritto un libro sulla generazione Erasmus (Generazione Erasmus. I cortigiani della società del capitale e la “guerra di classe” del XXI secolo, Oaks Editrice, 2017) che, sintetizzando, parla di questa nuova generazione come di una “nuova cortigianeria”, programmata, o meglio “formattata” prendendo in prestito un linguaggio a loro caro, sulle norme del competitivismo neo-liberale, dell’edonismo libertario, o forse sarebbe più corretto dire commerciale, e su tutta una serie di dogmi che sono tanto cari al mondialismo in atto (ideologia del progresso, fine delle frontiere, svilimento delle identità individuali o collettive). Non pensi che a questa generazione si opponga sempre più con forza la generazione del movimento sovranista/populista, ovvero dei dannati della globalizzazione, degli esclusi, ma forse soprattutto delle nuove élite illuminate che meglio di tutte si sono rese conto dello sfacelo “spirituale” della nostra era?
Il libro parla del conflitto di classe contemporaneo e si ispira al testo La France périphérique. Comment on a sacrifié les classes populaires, del sociologo Christophe Guilluy. È un lavoro dai contenuti incompatibili con quella che è la nuova morale immorale imposta dai ceti politically correct alle masse precarizzate come sorta di sovrastruttura ideologica del capitalismo liberale e, per questa ragione, non ha trovato alcuna forma di accoglimento presso i media mainstream. I libri anti-sistema, per quanto seri e frutto di studi approfonditi e dispendiosi, non vengono infatti recensiti. Il sistema, infatti, si autoriproduce diffondendo stronzate (mi si permetta il termine poco filosofico ma inequivocabile), tipo i libelli sfornati ad hoc, sotto Natale in particolare, dal clero giornalistico di regime per ricordare al pubblico dei lettori di ceto medio che dobbiamo “tenerci stretti” l’euro, la Ue, la NATO e il sistema medesimo sopraccitato poiché i banchieri e i generali americani paranoici ci avrebbero dato, a parere di certi giornalisti a libro paga, “70 anni di pace”… È più funzionale, al sistema, recensire e dibattere (sempre che questi libri, nella loro stupefacente banalità, possano essere oggetto di dibattito) i pamphlet scritti dai giornalisti à la page per case editrici altisonanti e che ripetono, a tamburo battente, che dobbiamo tenerci stretti l’euro, la Ue e il clintonismo, o prestare attenzione ai testi che mettono a nudo e disarmano la narrativa neoliberale di cui sopra?… Tutto questo per dire che non ci potrà essere alcuna coscienza politica e di classe fintantoché il mainstream sarà in mano ai guitti della società dello spettacolo e del giornalismo di sistema che ci ripetono all’unisono che dobbiamo, ogni giorno, rendere grazie alla BCE per ciò che ha fatto e sta facendo “per noi”… O gli oppositori del regime riescono a dar vita a media alternativi e performanti capaci di porre in discussione il dominio del mainstream ideologico liberale, o l’agenda del dibattito pubblico sarà dettata dai soliti noti, quelli che ci chiedono di sacrificarci per la continuità del regime internazionale di banchieri, investitori miliardari e speculatori… Tra l’altro, il mainstream esercita, a tutt’oggi, forme di dominio senza egemonia perché i giornali sono in netta perdita (da 6 a 2 milioni di copie giornaliere vendute dal 2007 al 2018) e sono puntellati esclusivamente dai finanziamenti pubblici che ricevono e i talk show televisivi hanno un pubblico rappresentato, ormai, soltanto da pochi e indefessi aficionados da tifo politico-calcistico. Per cui, volendo, spezzare il dominio di chi non detiene alcuna forma di egemonia non sarebbe neppure difficile. Peccato che, dalla parte di chi si oppone, il settarismo e l’imbecillità che pullulano, a destra come a sinistra, impediscano di dare concretezza a tante buone intenzioni espresse da singoli o da gruppi meritori ma ristrettissimi e, soprattutto, il più delle volte pure in difficoltà dal punto di vista dei mezzi economici atti a finanziare le loro attività.
- Sempre rimanendo sul tema gioventù, cosa pensi dell’altro pezzo della gioventù nostrana, che si rifà sostanzialmente sempre ai valori del globalismo, seppur nella versione radical e “socialisteggiante”, alludo a centri sociali e formazioni della sinistra radicale. Non trovi siano, in un modo o nell’altro, anche essi un supporto allo status quo?
Penso che sia sopravvalutata. Questa gioventù è rilevante sui media (ci credo, sono i pretoriani del regime…) ma è a sua volta vittima del complesso inestricabile di fragilità e debolezze psico-fisiche introdotte dal sistema per dominarli e per dominare. Per cui, il regime deve sapere, ma lo sa perfettamente a mio avviso, di essersi dotato di un esercito pretoriano di qualità scadente e numericamente irrilevante. Nel momento in cui le cose dovessero realmente cambiare registro, la “Generazione Erasmus”, ne sono sicuro, non muoverà un dito per salvare il sistema che l’ha allevata, coccolata, fatta “divertire”, dominata e sfruttata. Rimarrà semplicemente chiusa in casa, tremante di paura, o si riallineerà al nuovo corso come se nulla fosse, alla chetichella. Il sistema, infatti, per difendersi da eventuali scossoni portatigli da contestatori incazzati di turno, farà ricorso a strumenti molto più collaudati e tristemente efficaci (golpe finanziario, mediatico, giudiziario e militare) che non il canto lamentoso belato ostensivamente da chi, in vacanza-studio permanente, chiede al sistema sopraccitato ciò che il sistema vuole gli sia chiesto, ovvero di dargli “più mercato”, “più divertimenti” e “più Europa”.
Roberto Siconolfi
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