“Se fossi re, istituirei cattedre per insegnare a tacere“.
(Lope de Vega)
Fare un elogio del silenzio implica un’evidente contraddizione. Ma il silenzio da solo non potrebbe difendersi, quindi mi presto a essere il suo paradossale avvocato, di fronte a una giuria di parole. Non mi riferisco alla volontaria reticenza, spesso groviglio anch’essa di parole soffocate e di interni conflitti. Il silenzio cui alludo è terapeutico, è un’oasi di quiete e di benefico ozio. È quel farmaco che ognuno prende quando si addormenta e mette a tacere il mondo. La mente si libera degli intrecci nodosi, si dissolve in una inconscia comprensione del proprio nulla. Spesso cerchiamo il silenzio, magari isolandoci o meditando, ma il pensiero di raggiungerlo lo allontana, come se cercassimo di afferare la nostra ombra. Solo nel sonno le voci del mondo si assopiscono, l’essere esce da sé stesso e dalla propria petulanza. O forse rientra in sé, riassorbito nelle sue silenziose radici. Chi di noi potrebbe rinunciare a questa quotidiana purificazione?
Le parole infatti ci avvelenano, ci inquinano, e moriremmo se non potessimo, nel silenzio, disintossicarci. Purtoppo, la nostra società sempre più ha l’aria di una gigantesca congiura contro il silenzio. È un mercato brulicante di voci, una congerie di discorsi, di polemiche compulsive e meccaniche; dispute verbose, logomachie di cui si percepisce la sgradevole vanità, il desiderio di imporsi, il compiacersi di un’idea; dialoghi che sono la somma di monologhi. Intrappolati nelle parole come ragni nella loro stessa tela, sembra che i nostri discorsi debbano tendersi in continui sforzi per riflettere la complessità del mondo. Ma la realtà è semplicissima. Le ragnatele della mente non la possono catturare.
Il silenzio è il nostro centro, un cuore che pulsa con battiti inudibili. Le parole sono la periferia dell’essere, i suoi lunghi e sottili capillari. Forse sono oggi i fili d’Arianna con cui cerchiamo l’uscita dal labirinto di una civiltà confusa e senza identità. Persi nei cunicoli di teorie filosofiche, ipotesi scientifiche, utopie sociali, codici, visioni politiche, religiose, metafisiche. Disorientati dalle parole di chi ci vuole istruire, divertire, consigliare, convincere, consolare, guarire, salvare; dai Maestri, dalle autorità, dagli esperti; dalle notizie, dai dati, dalle statistiche e dai dibattiti, dagli articoli in cui si interpretano le notizie e i dati e le statistiche; e poi si commentano gli articoli e si commentano i commenti, in infinite chiose, glosse e note a margine. I media, la Rete, i social, i blog, i forum, la pubblicità, evacuano su noi un immenso liquame di parole. Siamo sepolti dalle scorie e dai detriti melmosi dei nostri linguaggi.
C’è chi vede in questo la nuova libertà del pensiero, la ricchezza di una cultura disponibile a tutti. Per me è un torturante cicaleccio, il caos, una torre babelica destinata a crollare sotto il suo stesso peso. Questa pletora di parole nasconde la fragilità di contenuti ormai consunti, di valori deteriorati. Il Senso delle cose si disperde in mille insignificanti canali di scolo, in una miasmatica dissipazione. Al posto dei simboli che un tempo orientavano l’uomo v’è oggi una selva di cartelli segnaletici che lo perdono in un dedalo di strade trafficate e assordanti.
È un continuo rumore di fondo, di vani chiacchiericci. Alcuni, per sfuggirgli, cercano rifugio in eremi, monasteri, vette montane o deserti. Si è disposti a pagare per avere un po’ di pace, e alle persone assetate di silenzio il mercato offre artefatti miraggi di turismo apofatico. Ma anche quando fuori c’è quiete, un vociare inquieto continua dentro di noi: ricordi, progetti, soliloqui, dialoghi immaginari, preghiere rivolte a invisibili enti che forse si cibano delle nostre parole.
Le parole non sono un male in sé. Sono gioielli di cui il silenzio si adorna. Poche, preziose parole. Ma oggi, sempre e dovunque siamo invasi da fiumi di parole, come carta moneta senza più valore, soggetta a una inarrestabile e rapida inflazione, vecchie banconote che non valgono più nulla. Le nostre parole non sono più legate ad alcuna riserva aurea dello spirito. Si stampano senza limite, si prestano a usura, se ne fa commercio o si sperperano con irresponsabile prodigalità.
Le parole sono gli abiti – vesti sontuose, panni dignitosi o miserabili cenci – con cui rivestire il mistero. Ma il silenzio è la sua meravigliosa e scandalosa nudità. Per questo ne abbiamo paura. Il silenzio ci fa sentire nudi e indifesi. È freddo e muto come la neve che cadendo ricopre altra neve. Evoca un’oscurità in cui non entrano né gioie né dolori, né ricordi né attese. Le parole ci rivestono e proteggono, ci rassicurano col loro incessante brusio. Se cessa quel rumore sentiamo un incomprensibile disagio, come una minaccia incombente. Non possiamo tollerare lo sguardo silenzioso della vita fisso su di noi. Potrebbe forse ghermirci e trascinarci nei processi digestivi del nulla. Dobbiamo esorcizzare il demone del vuoto parlando, dissipare la sua ombra con qualche parola, anche futile. Stiamo zitti solo quando, vinti dalla fatica o dalla nausea, con la coscienza intasata di parole, ci addormentiamo e lasciamo che il sonno ci pulisca e ci svuoti.
Alla quotidiana indigestione verbale non si pone rimedio col farmaco di altre parole ma col digiuno. Occorre imparare a parlar poco e masticare lentamente le idee, sapendo che la risposta viene dal silenzio e non dalla nostra volontà di capire. Ma a noi piacciono i concetti farciti di altri concetti, come quei banchetti in cui un bue conteneva un maiale il quale conteneva un’oca che conteneva pernici imbottite di vari ripieni. E talvolta, in uno degli animali più piccoli, veniva nascosta una perla. Purtroppo, nelle nostre fameliche orge di parole, dopo aver divorato vacche, maiali e capponi, nessuno mai trova quella perla. Chi ama la crapula continui perciò a spolpare ossa e cadaveri – che tali son di solito i nostri concetti – con la speranza di trovarsi in bocca un tesoro che gli può spezzare i denti.
A me basta un cibo semplice, un’umile zuppa, o pochi dolci frutti. Detesto quei grassi convivi in cui, come antichi romani, si vomita ciò che si è appena mangiato per poter mangiare ancora. “Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare”, diceva Seneca. Così noi passiamo da un argomento all’altro, ci aggiriamo tra i tavoli imbanditi di parole, e ingurgitiamo voracemente pensieri di cui a malapena percepiamo il sapore, senza avere il tempo di digerirli. Patiamo la fame per il troppo mangiare.
Questi banchetti mi stancano, mi rendono greve la compagnia degli uomini. Allora cerco riposo nella natura. Lì il fiume scorre senza render conto del suo corso ad altri fiumi, gli alberi non giudicano, gli animali non discutono. Guardi le nuvole o le stelle e non vi vedi alcun simbolo, nessuna profonda metafora. Non vieni consumato da discorsi umani. Respirando quel naturale silenzio, capisci che parlare è umano ma tacere è divino. Quella vita che passa senza far critiche e commenti ti ricorda che vi è qualcosa di ineffabile, di cui non si può parlare. Puoi solo restar lì e guardare, forse rivolgere a quel mistero una lode meravigliata e muta.
Perciò il mistico si esprime con paradossi, o tace. Dimentica ogni parola, anche ‘Dio’. Il silenzio è oltre Dio, è la pura libertà da tutte le cose. È distacco da tutto, solitudine. Nel silenzio sei veramente solo, e lasci andare, senza curarti di possedere o controllare qualcosa. Non cerchi più di cambiare te stesso o il mondo. Nelle parole si cerca un un potere, le usiamo come formule magiche per stendere un incantesimo sulla nostra vita, come un velo su un abissale voragine. Ma a volte un grande dolore, un intenso stupore, una grazia, illuminano questo abisso in cui siamo sospesi, e ci coglie l’afasia.
Possiamo sentire allora quelle voci silenziose che salgono dal cuore. La superficie della vita, non più intorbidata dai nostri discorsi, si chiarifica e diviene un limpido specchio. Vediamo così il volto vero delle cose e capiamo quanto vane siano le nostre parole. Non possono far crescere l’erba del campo, impedire che il sole tramonti o accendere in noi una luce di reale comprensione. Il silenzio ci rende simili a bambini che ancora non sanno dire ‘mamma’. Quando ancora eravamo uniti al mondo con fili luminosi e sottili. Prima che le parole ci legassero con pesanti catene.
Ma infine, proprio questa silenziosa realtà ci chiede di parlare. La parola che nasce da altre parole è senza vita. Solo la parola che nasce dal silenzio è viva. Allora, nello scorrere delle parole, come setacciando l’acqua di un fiume, possiamo trovare aurei frammenti di saggezza, di poesia.
Livio Cadè
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