Leggo da una citazione tratta dal filosofo Ernst Bloch e proposta da Tarmo Kunnas ne il recente e troppo accademico e corposo (oltre le cinquecento pagine) Il fascino del fascismo (edizioni Settimo Sigillo) ‘come diceva Lawrence: gli uomini hanno perso la luna dalla loro carne, il sole dal loro sangue’… David Herbert Lawrence, reso famoso dallo ‘scandaloso’ romanzo L’amante di Lady Chatterley (1928), in cerca determinato e inesausto di terre direzione Sud – noti i soggiorni in Italia, oltre che in Asia Oceania e Messico –, esploratore insaziabile di realtà incontaminate dal mondo moderno ove andava imponendosi l’industrializzazione. In cammino, mito ed energia vitale, verso il sole, quel Il serpente piumato (titolo di altro suo celebre scritto), avvertito anche necessità sul suo corpo affetto da tubercolosi.
Confesso che lo conosco poco e male, prediligendo di gran lunga l’altro Lawrence, Thomas Edward, noto quale Lawrence d’Arabia e autore de I sette pilastri della saggezza (‘Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo’).
Fine anni Novanta, in gita scolastica a Praga, piazza della città vecchia, là dove a lato del municipio s’erge, con rinnovato stupore, l’orologio astronomico con delle figure in movimento ogni ora. Escono da due finestrelle: c’è, raffigurata da uno specchio, la vanità; la morte dal classico scheletro; l’invasione degli infedeli dal turco; l’avidità, in origine dall’ebreo dedito all’usura, ma dopo la seconda guerra mondiale fu sostituito da una borsa di denaro (come se vi fosse sostanziale differenza…). Mi aggiro tra gli studenti in gran parte provenienti da varie regioni italiane. Mi fermano un gruppo di toscani, forse sono di Firenze, e garbati ma decisi mi chiedono di potersi fotografare insieme. Ahi, vanitas vanitatum et omnia vanitas… Ruoto simile a tacchino. Anche qui, in terra straniera, sono stato riconosciuto, pezzo di storia patria. Dura poco. Gli altari sono destinati a rovinio nella polvere. Mi confidano ridenti che vogliono fare uno scherzo a quei loro compagni rimasti a casa. Assomiglio ad Augusto Daolio, il cantante dei Nomadi, morto pochi anni prima, 1992. Strizzatina scaramantica…
E i versi di Io vagabondo, con i ricordi di Praga – soprattutto nei giorni d’agosto del ’68, la sua ‘primavera’, quei carri armati con i volti di pietra degli invasori in piazza San Venceslao la pozza di sangue e le ragazze in minigonna con le bandiere bianche e rosse e azzurre sventolate inutilmente, e tu, Riccardo, al mio fianco, sognando la molotov e i bastoni e le barricate… Eccoli, parole e immagini e ritmi. ‘Il vento sulla pelle – sul mio corpo il chiarore delle stelle’ e, ancora, ‘Il fuoco di un camino – non è caldo come il sole del mattino’…
Primitivismo ancestrale – gli archetipi della psicologia del profondo di Carl Gustav Jung – un po’ di romanticismo con dosi massicce di irrazionalismo Nietzsche e Darwin ingentiliti dal misticismo medievale di Meister Eckart lo sciamano studiato da Mircea Eliade e il capo branco l’uso delle droghe e tutto il ciarpame di poesia esangue e svirilizzata culto della morte ed altro ancora fino ai miti della razza la ricerca di origini tra le montagne proibite del Tibet… Quanto abbiamo dovuto sopportare per l’innocente fiore colto da qualche aiuola e donato, timidi e impacciati, alla compagna dalle trecce bionde e i calzini colorati, in prima media. Con dito minaccioso e saccente, i dotti dalla falce e martello dietro la cattedra o con la tonaca nera, definite le tarantole da Zarathustra, dietro la grata del confessionale per calcolare il rapporto tra le macchie bianche sul lenzuolo e il numero di Pater ed Ave da recitare a capo chino e i ginocchi a strofinare la panca. Per fortuna ci soccorse il linguaggio del corpo e ci suggerì che la carne è forte…
Di Tarmo Kunnas leggemmo, inizio anni Ottanta, La tentazione fascista (La rocca di Erec), poi di recente, 2015, L’avventura di Knut Hamsun _(Edizioni Settimo Sigillo). Un’imperdonabile leggerezza l’assenza del premio Nobel della letteratura (1920) in Inquieto Novecento, resa meno grave, due anni dopo, avendolo inserito nell’ultimo capitolo di Strade d’Europa dal titolo appunto Sui sentieri di Hamsun. Un atto doveroso pur se tardivo, sincero mentre con gli occhi della mente ripercorrevo, scarponi e sacco a pelo, le strade, sovente viottoli tutti sassi e foglie bruciate, verso quel Nord di cui non vidi mai il confine. ‘Ho ricevuto dal cielo tanti doni benedetti, ma li ho rovinati e fatti a pezzi a forza di ragionare. Mi basta toccarlo con la punta delle dita, e il polline cade dal fiore’ (Per i sentieri dove cresce l’erba, 1995, titolo più corretto rispetto a quel Io, traditore, anno 1962, letto allora con spirito militante e di cui conservo copia).
Ora, sulla scrivania fra carte computer penne – troppo pesante e scomodo da leggere a letto – Il fascino del fascismo, di cui detto all’inizio. Avendo da tempo ridotto l’invasione nell’ambito del saggio, vado avanti a rilento. Il caldo di questi giorni rende il fisico e il pensare onerosi. E, credo, ormai di prediligere le idee quando si rendono azione (rubo da Pound), qui sotto la forma descrittiva della letteratura. Più prossima al linguaggio del corpo. E, dunque, un saggio deve avere il sapore, diretto, della provocazione, spirito sangue inchiostro fazioso e di parte. Del resto la pretesa oggettiva l’onestà intellettuale l’ambito scientifico vanno bene quando si dà peso e credibilità al vero – oltre ad essere spesso l’alibi per non compromettersi. Chi s’è dato ad attingere da Nietzsche parole e sentimenti e contrapposizioni e musica e danza di stelle conosce l’illusione e l’inganno del principio di verità.
‘Restituire alla vita la sua magia’. Di ogni libro cogliere – per farne propria – una frase una immagine una intuizione. Sapere che quella frase quell’eco quel concetto appartiene a uomini che furono voce di quel tempo eroico a cui hai affidato gli ideali e i sogni della tua giovinezza e che, indegnamente, ti appartengono ormai. Ossa carne sangue. Del resto mi basta, per dirla con Marinetti, ‘musica di sentimenti’. In edicola la ristampa, in offerta con un quotidiano, Il corsaro nero di Emilio Salgari e mi torna a mente la scena in cui – ed è la scena finale – i due filibustieri si guardano fra loro e con un sussurro ‘anche il Corsaro Nero piange’…
In Albero e foglia (Rusconi, 1976) l’autore de Il Signore degli Anelli, John R. R. Tolkien, nel saggio Sulle fiabe scrive, ad esempio: ‘è stato nelle fiabe che, per la prima volta, ho scoperto la potenza delle parole e la meraviglia di cose come la pietra, il legno, il ferro, la casa e il fuoco, il pane e il vino’. Nel nostro giardino della casa sulla costa della Romagna vi erano due cespugli di bambù – le tigri di Mompracem o Pecos Bill vi si sono incarnati, hanno preso forma prima ancora che sapessi leggerne le avventure. Ero io autore e creatore quando raccogliendo una canna davo ad essa il ruolo di spada o fucile o arco e frecce… Io e quella canna trasmutavamo il mondo.
Sono andato oltre e altrove? Dal libro di Tarmo Kunnas a D. H. Lawrence e Knut Hamsun e Tolkien e, per finire, l’immancabile me stesso… Cercherò di auto-assolvermi. Se in un saggio, ove si affastellano intellettuali e idee e le loro scelte, emerge il linguaggio del corpo quale una di quelle motivazioni che furono a fondamenta di quelle scelte e idee per guardare con ‘simpatia’ al fascismo, e se quel linguaggio ci appartiene e ci domina, nonostante lo si tenda sovente a sottacere in nome di una pretesa razionalità… beh, quelle idee e quelle scelte non solo meritano maggiore riconoscimento e rispetto ma sono le uniche ‘vere e giuste e belle’ a cui affidare la mente e il cuore.
Con buona pace dei cantori, stonati e infidi…