14 Gennaio 2025
Storia delle Religioni

Ispirazione e testi sacri – Marco Calzoli

 Nel Simposio di Platone si trova scritto: “Infatti ognuno diventa poeta, anche se prima non era ispirato, quando Eros lo tocca” (196 e). Questa citazione fa parte dell’intervento del filosofo-retore Agatone, che delinea positivamente le caratteristiche del dio Eros, e ne sottolinea una particolarmente importante, ovvero di rendere chiunque un poeta.

 Nell’Encomio di Elena dello stesso Platone si afferma che la poesia infonde in chi l’ascolta “un brivido pieno di paura, una compassione dalle molte lacrime, un desiderio di abbandonarsi al dolore” (9), aggiungendo poi che “l’incanto divino che opera nella parola avvicina il piacere, allontana il dolore: insinuandosi infatti nell’opinione dell’anima, il potere dell’incanto la ammalia e la persuade e la trasforma con il suo fascino” (10).

 La poesia, così come la grande arte in ogni sua forma, è sempre un dono della ispirazione divina. Per questo la parola è stata da sempre oggetto di ammirazione pressoché in tutte le culture del pianeta. Molte civiltà si fondano su un mito tramandato con le ali di un poema.

 L’Islam non fa eccezione. Il Corano non solo viene considerato Parola di Dio, rivelata a Maometto dall’arcangelo Gabriele, ma viene ancora fruito dai musulmani con grande commozione, tanto da suscitare non di rado stati estatici. Il Corano è talmente importante che Maometto in un detto extra-coranico, facente parte degli Ḥadīt, afferma: “Se qualcuno interpreta il Libro di Allah alla luce della sua opinione, anche se ha ragione, ha comunque torto”.

 Ma non solo, infatti la poesia araba preislamica viene considerata una vera e propria creazione divina e il poeta paragonato a un profeta, come dice al-Rāzi (m. 934). Nessuna parola è superflua per indicare il valore della poesia presso gli arabi antichi. Il filologo e critico Ibn Sallām al-Gumaḥī (m. 846) sostiene che “la poesia è la miniera (ma’din) della scienza degli arabi, il libro (sifr) della loro sapienza, l’archivio delle loro notizie, il punto di ritrovo delle loro giornate, il muro (sūr) delle loro tradizioni, la trincea (handaq) di protezione della loro gloria”. E questo è tanto più vero per la poesia preislamica. Basti leggere qualche strofa de al-Muʿallaqāt, che sono una antologia di sette poesie arabe preislamiche, di sette diversi poeti, raccolto dal filologo e rapsodo Ḥammād ar-Rāwiya (VIII sec. d.C.). È una sorta di canone poetico, che ha avuto gran diffusione tra gli arabi e dà un’idea adeguata delle più caratteristiche qualità della poesia del deserto. Sono continui i riferimenti ai realia, cioè a piccole particolarità della vita del deserto, sia della natura sia dei costumi, che hanno scandito la vita nel deserto di quei beduini-poeti, scelti dalla comunità per essere i rappresentanti dei valori e delle tradizioni, profondissime e suggestive. Al di fuori de al-Muʿallaqāt, altri celebri poeti preislamici sono stati briganti (ṣa’ālīk), oppure compare anche una donna (la poetessa al-Hansā, con la quale il pianto per i caduti nelle battaglie tribali assurge a valore letterario con metrica e rima, quelle dell’elegia, e non più declamato mediante una prosa rimata o sag).

 Il poeta preislamico non ha alcun bisogno di conoscere le regole della metrica, intese come studio a tavolino, infatti egli possiede un ṭab’, cioè un dono innato, e un dawq, cioè un’indole creativa: queste componenti sono sufficienti per creare versi senza bisogno di avere altri sostegni.

 Posta la stretta relazione tra ispirazione poetica e profezia, bisogna aggiungere che anche i testi sacri delle varie religioni, sebbene non scritti sempre in poesia, esprimano intrinsecamente un contatto con il Divino. Non per nulla Petrarca scrive che la teologia è “la poesia di Dio” (Familiares X, 4, 1-2).

 Dio sceglie alcune persone alle quali fare i propri doni. In sostanza ogni uomo viene all’esistenza per volontà di Dio, quindi è suo “amico”. Però altri ricevono ancora più doni, e al tempo stesso una maggiore responsabilità per far fruttificare quei doni a beneficio dei fratelli.

 In arabo il walī è l’Amato di Dio, un profeta, un saggio, un santo, insomma ciò che nell’esoterismo occidentale viene chiamato Superiore Sconosciuto. Una persona dotata di una luce particolare, donata da Dio, che lo rende idoneo a guidare gli altri sulla via che porta all’incontro con le Essenze. Corano 7, 195: “Il mio Amico è Dio … Egli prende i giusti come amici”. La walāyat, come qualificazione spirituale posta da tale atto di predilezione, equivale al termine maḥabbat, ossia amore, amicizia. E questo sotto un duplice aspetto. In primo luogo, l’amico di Dio è oggetto dell’amore di Dio (egli è il maḥbūb, l’amato da Dio, colui che Dio ha scelto per amico), per cui tale predilezione non deriva dai propri sforzi, non è una sua conquista; essa è preeterna, quale dono di pura grazia divina. In secondo luogo, il walī è il soggetto di amore, egli è colui che ama, è il moḥibb, colui che sceglie di amare Dio, che sceglie Dio come amico. Questi ha allora il dovere di modellare i propri costumi su quelli di Dio, mediante uno sforzo personale, un atto di volontà.

 I testi sacri delle varie religioni sono redatti da personaggi ispirati da Dio. La Bibbia è il libro sacro degli ebrei e dei cristiani. Il termine deriva dall’espressione greca ta biblia, “i libri”, in quanto la Bibbia è una “biblioteca” di 73 libricini: 46 sono quelli dell’Antico Testamento, 27 quelli del Nuovo Testamento.

 Il Nuovo Testamento viene considerato ispirato solamente dai cristiani e espone la vicenda di Gesù Cristo, il Messia atteso dagli ebrei, che si è incarnato in questa dimensione terrena duemila anni fa. Egli è l’Uomo Dio, cioè vero Dio e vero Uomo: la Seconda Persona della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo.

 L’incarnazione di Cristo è un evento storico. Luca all’inizio del suo vangelo scrive: “Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (1, 1-4).

 Luca adotta un approccio squisitamente storiografico per esporre la vicenda di Dio: egli parla di un “principio” e usa un verbo storico, questo evidenzia che l’evangelista sta mettendo mano a un’opera storiografica. Luca ha scritto anche gli Atti degli Apostoli. Oggi l’esegesi riconosce nel Vangelo di Luca e negli Atti un’opera unica, come sostenuto anche da Ireneo di Lione: resoconto rispettivamente prima e dopo la risurrezione di Cristo.

 Ci sono sia i semplici testimoni oculari sia coloro che da testimoni sono divenuti anche servitori (ministri) della parola. Qui logos, “parola”, vuole intendere il messaggio di Cristo. “Testimoni” è in greco autoptai, per molti è chiaro il rimando alla storiografia greca (Erodoto, il padre della storiografia occidentale, in Storie II, 29 scrive che si spinse fino a Elefantina come autoptēs, termine greco che vuol dire etimologicamente “colui che ha visto direttamente”). “Ministri” è in greco uperetai, parola che, se etimologicamente rimanda alla funzione del rematore (eretēs), è poi passata a significare in senso lato “servitore, ministro”.

 Oggi è dato per assodato che Luca si rifà al metodo della storiografia greco-romana. Ma in fin dei conti Luca non è uno storico ma un predicatore, la sua opera non è meramente storiografica, ma è ampliata dal suo orientamento teologico. Storia e teologia in Luca non sono due ambiti antagonisti, che si ostacolano a vicenda, ma due vocazioni intrinsecamente collegate. Egli scrive una opera storica in quanto teologo.

 Nel prologo al suo vangelo, Luca si rifà alla tradizione degli storici pagani, codificata nei trattati di retorica, di presentare il proprio metodo di ricerca all’inizio dell’opera per rendere il lettore attento e docile alla fruizione. L’autore si atteggia a storico, fa riferimento ai suoi predecessori risalendo fino ai testimoni oculari sin da principio. Luca non dice di scrivere un “vangelo” ma un “racconto”, in greco diēgēsin, che designa propriamente un resoconto storico. Esso deriva da una ricerca minuziosa.

 Ma se confrontiamo questo prologo con quelli attestati degli storici greco-romani, si distinguono due caratteristiche proprie. Da una parte non viene specificato il tema dell’opera ma si usa il termine generico pragmata, “avvenimenti”: niente autorizza a limitare questi avvenimenti al contenuto del vangelo, dato che questa dichiarazione preliminare fa riferimento all’insieme dell’opera (Vangelo-Atti), come confermato dalla ripresa da Atti 1, 1-2: “Nel libro precedente ho esposto, o Teofilo, tutto ciò che Gesù operò e insegnò dall’inizio”. I pragmata comprendono sia la vita di Gesù, la sua morte e risurrezione che la vita dei suoi testimoni negli Atti.

 L’altra particolarità è questa. Tali pragmata si dice che siano stati compiuti (peplēroforēmenōn) in mezzo a noi: il verbo greco è al passivo, come un passivo divino, gli eventi che Luca si accinge a raccontare provengono da una volontà divina. Ma chi sono questi “noi” (in mezzo a noi, en ēmin)? Luca circoscrive qui un ambito teologico, del quale egli fa parte, e che comprende al tempo stesso i suoi lettori e una comunità che è stata partecipe degli eventi. Questa non solo garantisce la veridicità degli eventi narrati ma li situa in un mondo di significato al quale aderiscono i lettori.

 Da tutto ciò possiamo inferire che l’opera lucana (Vangelo-Atti) non è uno scritto missionario né una composizione destinata a degli osservatori esterni, bensì un’opera storica sì ma destinata a una comunità di fedeli. In questo senso la storia si fonde con la teologia, con il messaggio della fede. Pertanto, l’opera lucana non è né meramente storica né meramente fideistica.

 Il prologo mostra sin dall’inizio l’ambivalenza del progetto di Luca. I pragmata fanno parte della storia universale, conformemente ai canoni della storiografia ellenistica: essi sono frutto di una precisa indagine. L’autore, come non fa nessun altro evangelista così accuratamente, cerca di situarli nella grande storia dell’Impero Romano. Però questi stessi pragmata accadono secondo un piano divino. Culturalmente il programma lucano si situa tra storia e teologia.

 Luca è figlio della tradizione greco-romana, quindi gli eventi devono essere descritti e datati il più precisamente possibile. Ma Luca è figlio anche della tradizione giudaica, per la quale il tempo appartiene a Dio. Come il contemporaneo Giuseppe Flavio, Luca si situa a metà tra queste due grandi tradizioni.

 Il Salmo 78, 1-8 così recita:

 

“1 Ascolta, popolo mio, il mio insegnamento;

porgete orecchio alle parole della mia bocca!

2 Io aprirò la mia bocca per esprimere parabole,

esporrò i misteri dei tempi antichi.

3 Quel che abbiamo udito e conosciuto,

e che i nostri padri ci hanno raccontato,

4 non lo nasconderemo ai loro figli;

diremo alla generazione futura le lodi del SIGNORE,

la sua potenza e le meraviglie che egli ha operate.

5 Egli stabilì una testimonianza in Giacobbe,

istituì una legge in Israele

e ordinò ai nostri padri di farle conoscere ai loro figli,

6 perché fossero note alla generazione futura,

ai figli che sarebbero nati.

Questi le avrebbero così raccontate ai loro figli,

7 perché ponessero in Dio la loro speranza

e non dimenticassero le opere di Dio,

ma osservassero i suoi comandamenti.

8 Tutto ciò per non essere come i loro padri,

una generazione ostinata e ribelle,

una generazione dal cuore incostante,

il cui spirito non fu fedele a Dio …”.

 

 Gli antichi ebrei, quando vogliono dar lode a Dio, ricordano i suoi prodigi, narrano alle generazioni future le meraviglie del suo amore per gli uomini.

 “Esporrò i misteri dei tempi antichi”, che nell’originale ebraico suona così: ‘abbi’ah ḥidowt minni qedem. Ḥidowt sono gli “arcani”, gli “enigmi”, cioè cose nascoste della storia (tempi antichi, qedem) che devono essere svelate mediante la interpretazione teologica. Dio è il Signore della storia, pertanto gli avvenimenti devono certamente essere narrati alle generazioni che verranno ma devono essere capiti con lo sguardo della fede. A tale scopo sono scritti i testi sacri delle varie religioni.

 Il tempo appartiene a Dio, che è il creatore di tutti. Egli ispira dei personaggi che devono fare teologia della storia. Gli studiosi sostengono che i libri biblici non sono dei meri resoconti storici ma interpretazioni degli avvenimenti alla luce della fede.

 Nell’ebraismo e nel cristianesimo la fede si trasmette mediante la testimonianza. Pensiamo anche a 1Corinzi 15: “3 Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4 fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5 e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici”.

 Dio non si manifesta direttamente, se non rare volte. Egli lo fa perlopiù mediante gli atti, che non sono coincidenze, ma “Dio-incidenze”. I mistici dicono che il caso è il modo di manifestarsi di Dio. Per questo devono esserci interpreti della sua volontà, i quali, su ispirazione di Dio, fanno capire agli altri il progetto divino sulla storia.

 1Tessalonicesi 4: “3Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, 4che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, 5non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; 6che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello, perché il Signore è vindice di tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e attestato. 7Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. 8Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito”.

 Dio è visto dall’ebraismo e dal cristianesimo come Onnipotente. Nel Salmo 76 è scritto: “Splendido tu sei, magnifico sui monti della preda”. Dio si erge sui monti ove celebra i suoi trionfi di Signore del cosmo e della storia. È raffigurato in questo Salmo come un sovrano vittorioso, avvolto nella aureola della sua trionfale campagna militare. È come una maestà imperiale che rientra nella sua capitale, carico di bottino. E nella sua residenza, che è simile a una acropoli, posta in alto, egli ammassa la preda bellica.

 È significativo che Dio viene ritratto vittorioso sopra un monte. Per la concezione biblica i monti sono le opere più antiche di Dio. In Proverbi 8, 5 la Sapienza dice di essere ancora più antica dei monti, cioè di essere stata creata prima di tutto: “Prima ancora che fossero fissate le fondamenta dei monti, prima ancora delle colline”.

 Con la immagine del Salmo 76 il salmista vuole esaltare sia la eternità di Dio, sia la sua infinita trascendenza (essendo i monti verticalmente congiunti al cielo), sia la sua signoria sugli altri dei (essendo le alture sedi di culti idolatrici).

 Tutto appartiene a Dio e tutto è a suo servizio, come cantano ripetutamente i Salmi. Egli vuole far conoscere a tutto il mondo la sua Persona e la sua signoria. Il cristianesimo rivela che Dio è uno e trino: una sola sostanza divina in tre Persone uguali e distinte. È un mistero. La Santissima Trinità non può essere capita razionalmente ma accettata per fede.

 Lo scopo ultimo della volontà divina (e il fine del mondo) è quello di ricapitolare tutto in Cristo, il Figlio di Dio. La Bibbia testimonia questo: Dio, il creatore di tutto, vuole farsi conoscere all’uomo e salvarlo inglobandolo nella Divinità. I santi dicono che la fede stessa viene instillata da Dio al cristiano proprio mediante l’ascolto della Bibbia.

 Lettera ai Colossesi 1: “5Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; 16poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. 18Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. 19Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza 20e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli”.

 Gesù trascorre i primi trenta anni dell’esistenza terrena facendo una vita nascosta. I tre anni successivi si impegna nella predicazione del Regno di Dio e compie numerosi miracoli per dimostrare che Egli viene da Dio. Alla fine, muore in croce per redimere l’umanità dalle opere del male, tra cui la sofferenza e la morte. Luca pone l’inizio della vita pubblica di Cristo, durante la quale Egli annuncia il vangelo a tutto Israele, nella sinagoga di Nazaret, la cittadina posta come residenza.

 Ecco il testo (Luca 4): “14 Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15 Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:

 

18 Lo Spirito del Signore è sopra di me;

per questo mi ha consacrato con l’unzione,

e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,

per proclamare ai prigionieri la liberazione

e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi,

19 e predicare un anno di grazia del Signore.

 

20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21 Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22 Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 23 Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!». 24 Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 25 Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27 C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro». 28 All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29 si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò”.

 Lo stesso Dio incarnato in questa dimensione, Gesù Cristo, svolge il ministero della predicazione, che poi sarà raccolta nel Nuovo Testamento. Quanto è importante la Bibbia per la vita della chiesa! Gesù è anche esegeta, interpretando e applicando le parole antiche (Isaia, 1Re, 2Re) a sé stesso: in Cristo si compie pienamente l’Antico Testamento.

 La missione prende le mosse dallo Spirito Santo che scende su di Cristo e lo rende idoneo alla proclamazione e alla interpretazione. Il passo di Isaia si conclude con la vendetta di Dio: Gesù non cita però la vendetta, quindi Egli inaugura i tempi nuovi, quelli della misericordia, che escludono la vendetta e l’ira di Dio.

 “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”: sarebbe meglio tradurre “per voi che avete ascoltato”, in greco en tois ōsin umōn, letteralmente “riguardo gli orecchi di voi”. L’avverbio “oggi”, sēmeron, è una parola capitale nel Vangelo di Luca, che compare nei passaggi più importanti. Da tutto ciò si può desumere che con Cristo, mediante l’ “oggi” della predicazione, si compie la salvezza per quelli che ascoltano. Predicando il messaggio di Cristo si compie la salvezza in quanto si forma il Regno di Dio nel cuore dei credenti. Cristo è il primo predicatore e esegeta, poi la salvezza e il Regno si instaurano anche mediante l’opera dei battezzati. Ogni battezzato è un altro Cristo (come diceva Tertulliano: alter Christus), che ha il dovere di annunciare il messaggio di Cristo a tutte le genti. La Buona Novella è l’amore di Dio per tutti gli uomini, che ha inviato suo Figlio a morire per redimere l’umanità che si pente dei propri peccati, e non per condannarla.

 La chiesa sorge dalla sinagoga, ambiente nel quale Cristo ha vissuto. Gesù Cristo è stato allevato a Nazaret nella famiglia e nella sinagoga: in questi due ambienti si è nutrito della Parola, della Bibbia, dell’Antico Testamento, la sezione ancora oggi ritenuta ispirata dagli ebrei. Cristo è un ebreo, che è entrato nella vita quotidiana del tempo, essendo stato iniziato alle Scritture e avendo pregato come facevano e fanno tuttora gli ebrei, sin da bambino.

 Lo Shabbat è nella tradizione ebraica un giorno di riposo, consacrato all’ascolto della Parola di Dio, della Bibbia. Gli ebrei da millenni tramandano le opere meravigliose di Dio e invitano i fedeli a ricordare sempre cosa ha fatto Dio per il popolo di Israele e per il mondo intero. Tutti i giorni della settimana sono in ebraico al maschile, tranne lo Shabbat, che è al femminile; quindi, lo Shabbat è la Regina di Israele, la Sposa di Israele. È il giorno di Dio, fatto appositamente per entrare nella realtà di Dio.

 Giovanni Paolo II, Dies Domini (8): “Nell’esperienza cristiana, la domenica è prima di tutto una festa pasquale, totalmente illuminata dalla gloria del Cristo risorto. È la celebrazione della «nuova creazione ». Ma proprio questo suo carattere, se compreso in profondità, appare inscindibile dal messaggio che la Scrittura, fin dalle prime sue pagine, ci offre sul disegno di Dio nella creazione del mondo. Se è vero, infatti, che il Verbo si è fatto carne nella «pienezza del tempo» (Gal 4, 4), non è meno vero che, in forza del suo stesso mistero di Figlio eterno del Padre, egli è origine e fine dell’universo. Lo afferma Giovanni, nel prologo del suo Vangelo: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste » (1, 3). Lo sottolinea ugualmente Paolo scrivendo ai Colossesi: «Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili […]. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (1, 16). Questa presenza attiva del Figlio nell’opera creatrice di Dio si è rivelata pienamente nel mistero pasquale, in cui Cristo, risorgendo come «primizia di coloro che sono morti » (1 Cor 15, 20), ha inaugurato la nuova creazione ed ha avviato il processo che egli stesso porterà a compimento al momento del suo ritorno glorioso, « quando consegnerà il regno a Dio Padre […], perché Dio sia tutto in tutti » (1 Cor 15, 24.28).

 Già nel mattino della creazione, quindi, il progetto di Dio implicava questo «compito cosmico» di Cristo. Questa prospettiva cristocentrica, proiettata su tutto l’arco del tempo, era presente nello sguardo compiaciuto di Dio quando, cessando da ogni suo lavoro, «benedisse il settimo giorno e lo santificò» (Gn 2, 3). Nasceva allora — secondo l’autore sacerdotale del primo racconto biblico della creazione — il «sabato», che tanto caratterizza la prima Alleanza, ed in qualche modo preannuncia il giorno sacro della nuova e definitiva Alleanza. Lo stesso tema del « riposo di Dio » (cfr Gn 2, 2) e del riposo da lui offerto al popolo dell’Esodo con l’ingresso nella terra promessa (cfr Es 33, 14; Dt 3, 20; 12, 9; Gs 21, 44; Sal 95 [94], 11) è riletto nel Nuovo Testamento in una luce nuova, quella del definitivo « riposo sabbatico » (Eb 4, 9) in cui Cristo stesso è entrato con la sua risurrezione e in cui è chiamato ad entrare il popolo di Dio, perseverando sulle orme della sua obbedienza filiale (cfr Eb 4, 3-16). È necessario pertanto rileggere la grande pagina della creazione e approfondire la teologia del «sabato», per introdursi alla piena comprensione della domenica”.

 In Cristo si realizza pienamente il senso dello Shabbat ebraico. Il vero Shabbat, il vero riposo, è Cristo stesso: aderire a Cristo significa entrare nel vero riposo.

 Non è quindi un caso che Luca inizi il suo vangelo il giorno di Shabbat. Nell’Antico Testamento lo Shabbat è deputato al ricordo della liberazione dall’Egitto. Deuteronomio 5: “12 Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. 13 Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, 14 ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15 Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò, il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato”.

 Isaia 58, 13: il sabato è la delizia (choneg) per Israele, cioè una soavità senza pari. Pare che di per sé il sostantivo ebraico choneg indichi il piacere sensuale, così come in Isaia 13, 22 (un oracolo sulla fine di Babilonia descrive in modo macabro come ora gli sciacalli si rintanino “nei palazzi del piacere”, be-hekele choneg, cioè proprio in quelle stanze che un tempo echeggiavano dei suoni del piacere per via dei vari culti sessuali idolatrici). È insomma, quello di Isaia 58, 13, lo stesso atteggiamento di Osea, un innamorato di Dio, che dice quanto YHWH sia lo sposo di Israele. Ma in senso lato la “delizia” riguarda anche la bellezza spirituale dell’Alleanza con Dio. E non solo. Gli ebrei alla fine del sabato odorano una scatola di profumo, che dura tutta la settimana.

 Lo Shabbat prevede una liturgia familiare e una liturgia sinagogale. C’è una preparazione: purificarsi per immersione, poi indossare il vestito più bello. Celebrare il sabato significa entrare nel tempo di Dio, per questo c’è un demonio all’inizio del sabato che tenta di rovinare questo giorno così importante. Gli ebrei si scambiano il saluto “Shabbat Shalom”, “che sia un sabato di pace!”. Come quella che Cristo dona agli apostoli dopo la risurrezione: “Pace a voi!”. Cristo è Signore del sabato, come riferiscono gli evangelisti, quindi è Egli che dona la vera Pace del sabato.

 Di sabato c’è il rito dell’accensione delle luci, fatto dalla donna. Come la donna ascoltando il serpente è stata occasione della entrata del peccato del mondo, così attraverso la donna passa l’inizio della salvezza. Per il cristianesimo è Maria, la madre verginale di Cristo, a portare nel mondo la Luce, che è Cristo stesso. Nel Medioevo la si appella come Finestra, che fa splendere nel mondo Cristo, “luce del mondo” (Giovanni 8).

 Nella sinagoga la preghiera più importante è lo Shemà: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. Gesù non solo recita questa preghiera, frequentando la sinagoga, ma la realizza nella propria Persona. Egli è, infatti, l’Emmanuele, il Dio con noi, “immagine del Dio invisibile”, come scrive Paolo.

 Il centro della liturgia sinagogale del sabato è la lettura della Parola. Gli ebrei intendono tuttora ricordare i prodigi di Dio, tramite la testimonianza ispirata della Bibbia. Prima si legge la Torah e poi i Profeti.

 Ci sono delle testimonianze antiche che attestano l’importanza della sinagoga. Giuseppe Flavio (Contra Apionem) ricorda che ogni settimana gli ebrei, lasciando tutte le occupazioni, si riuniscono per ascoltare la Parola e impararla con precisione. “Sinagoga”, infatti, deriva dal greco e significa “luogo dove ci si raduna”. Quindi la sinagoga, oltre ad essere un luogo di preghiera (ove si recita lo Shemà, come abbia detto, infatti in greco il luogo è definito proseuchē, “preghiera”), è anche adibita per ritrovarsi assieme, ove si celebra la liturgia della Parola, ma non solo, altresì si studia in un ambiente detto bet midrash.

 Ricorda Giuseppe Flavio in un altro testo, gli ebrei dopo essere fuggiti da Cesarea nell’anno 66 portano con sé il rotolo della Torah, quindi i romani, molto superstiziosi, si adirano perché lo considerano alla stregua di una statua della divinità che protegge gli ebrei, e la statua della divinità non si può portare via durante un assedio. Oltre allo Shabbat, la Sposa di Israele è la Torah. Ancora oggi in sinagoga il rotolo della Torah viene toccato: l’inserviente prende il rotolo dall’armadio e lo fa passare tra l’assemblea, allora gli ebrei, dotati del loro manto di preghiera, il tallit, che ha quattro fiocchi, sfiorano la Torah con i fiocchi.

 Filone d’Alessandria ricorda che nel sabato gli ebrei si riuniscono nella casa di preghiera (proseuchē) e lì vengono istruiti: si siedono con rispetto e ordine per ascoltare la lettura della Torah. Nella sinagoga di Magdala si vede chiaramente come gli ebrei di allora si pongano in ordine attorno all’ambone (bemà) dal quale si proclama la Parola.

 Altrove lo stesso Filone testimonia che gli esseni (una setta ebraica del tempo di Cristo, probabilmente la stessa di Qumran) celebrano il sabato disponendosi in sinagoga secondo l’età, i più giovani dietro gli anziani, mentre gli adepti con più esperienza spiegano i passi difficili. Insomma, una omelia, simile a quella che pronuncia Cristo, che dopo aver letto Isaia applica il passo a sé stesso.

 Quando Paolo e Barnaba visitano i popoli pagani e si recano nelle sinagoghe, sono invitati a proferire una “parola di esortazione”, logos paraklēseōs (Atti 13, 15), la stessa espressione che compare alla fine della Lettera agli Ebrei, che quindi viene ritenuta una omelia della chiesa antica.

 I primi capitoli del Vangelo di Luca si basano su uno schema analogo per qualche aspetto alle Vite parallele di Plutarco, che tecnicamente si chiama in greco suncrasis, cioè il confronto tra due modelli. Gesù viene continuamente posto in relazione con Giovanni il Battista.

 Invece dal capitolo 4, 14, cioè dall’inizio della vita pubblica di Cristo nella sinagoga di Nazaret, questo schema non funziona più. Luca presenta una parte molto ricca di miracoli, quindi strutturalmente non è ben inquadrabile. Questa sezione finisce al capitolo 9, 51: quando si stava compiendo il suo tempo, Gesù indurì il suo volto e si incamminò verso Gerusalemme. “Indurire il volto” è una espressione semitica che vuol dire prendere una ferma decisione. Dal capitolo 9 in avanti inizia il pellegrinaggio di Cristo verso Gerusalemme. Secondo la versione di Matteo, è più chiaro che si tratti di un viaggio pasquale, infatti il cammino viene accompagnato da segni molto particolari, per esempio la raccolta della tassa per il tempio. Invece dal capitolo 4 al capitolo 9 abbiamo il ministero di Cristo in Galilea. La Galilea è la regione della Palestina ove è situata Nazaret, a nord; in mezzo c’è la Samaria e a sud la Giudea, con la capitale Gerusalemme.

 Gli studiosi analizzano il verbo trefein, “nutrire”. Luca 4, 16: “Si recò a Nazaret, dove era stato allevato”, in greco ou ēn tethrammenos. La costruzione perifrastica greca (verbo essere + participio) è un aramaismo che indica una forte iteratività. Luca vuole sottolineare la durata nel tempo della crescita di Cristo a Nazaret. Il participio tethrammenos è un perfetto passivo del verbo trefein: Gesù è stato nutrito, quindi è stato allevato, è stato fatto crescere. Nell’antichità il verbo trefein è utilizzato per l’allattamento. Quando Gesù prossimo al Calvario incontra alcune donne che lo compiangono, Egli dice loro (Luca 23, 29): “Beate le sterili, i grembi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno allattato, oi ouk ethrepsan”, aoristo di trefein. Luca però sembra usare il verbo in 4, 16 (“dove era stato allevato”) avendo familiarità con la paideia greca, cioè l’educazione. La paideia greca è un sistema molto elaborato ricco di riti di passaggio dalla età di bambino, a quella di fanciullo e poi di adulto, per entrare a pieno titolo nella vita della città. Essa prevede nella prima fase della educazione del fanciullo una suddivisione: una persona nasce, poi viene educata nella propria casa e quindi in una scuola. Importanti esegeti hanno rilevato che il verbo trefein sembra alludere al secondo periodo della paideia greca dell’infante, quando è allevato nella propria casa dal padre e dalla madre, prima di entrare in una istituzione pubblica (scuola). Quindi si apre una questione: se Luca dica della educazione di Cristo a casa propria, a Nazaret, da parte dei genitori, allora intenderebbe o meno la sua educazione in una scuola pubblica in una città diversa da Nazaret? Gli esegeti sanno che la vita privata di Cristo è avvolta perlopiù nell’oscurità; quindi, si appellano ai dettagli per cercare di capire cosa fece Cristo prima della attività di predicatore itinerante e taumaturgo.

 In questo modo, non conosciamo l’educazione di Cristo. Possiamo solo ipotizzare che Egli sia stato educato prima a casa e poi in una scuola sinagogale. Se Egli legge il rotolo di Isaia, conosce certamente la Scrittura o almeno la sa leggere, ma non sappiamo se sa anche scrivere (al tempo le competenze sono diversificate). Nel mondo giudaico avviene tuttora una forma di alfabetizzazione di base ad opera del padre sulla base della Torah, ma non sappiamo con certezza se in seguito Gesù abbia studiato anche in una scuola pubblica ebraica.

 Quindi, sempre sulla base di ipotesi, Luca sembra dire che Gesù “torna” nel luogo dove ha avuto una prima alfabetizzazione ad opera della famiglia, a Nazaret. Vuole dire che Gesù “torna” in quanto è stato a studiare presso qualche maestro in una città diversa da Nazaret?

 Questo inciso è meno importante di quanto Luca ci dice in seguito, testimoniando la più antica descrizione della liturgia sinagogale, precedente a quelle di Giuseppe Flavio e Filone. Abbiamo molte descrizioni della liturgia templare, ma non di quella sinagogale. Qualcuno ha letto un brano della Torah, poi Gesù legge il profeta Isaia. Abbiamo notizie di questa seconda lettura (Profeti) già dall’epoca ellenistica, quando sarebbe insorto l’uso di leggere il profeta. Questo perché Antioco IV Epifane, un sovrano che vuole unificare le religioni del suo regno, impedisce agli ebrei di leggere la Torah nelle sinagoghe per far dimenticare loro le tradizioni dei padri. Allora gli ebrei inizierebbero a declamare i Profeti, l’uso poi si sarebbe consolidato e mai abolito, anche quando viene reintrodotta in sinagoga la Torah.

 Gesù, pur essendo il Figlio di Dio, non prende spontaneamente il rotolo, ma questo “gli fu dato”, epedothē autōi, un verbo al passivo, come è prassi della liturgia sinagogale. Gesù si incarna nella storia di un popolo, quindi rispetta le tradizioni dei padri: non solo viene allevato in una famiglia e in una scuola, ma accoglie la Parola, per poi però portarla a pieno significato. Egli è fedele alla Parola. Infatti, egli “trovò” (euren) il passo da leggere: a quel tempo fino ad oggi non si può scegliere un brano della lettura sinagogale, ma esso viene presentato. Ma non tutti gli studiosi concordano, in quanto ciò che Cristo legge non è un singolo passo di Isaia ma un compendio del capitolo 61 e del capitolo 58 del libro del profeta veterotestamentario, quindi Gesù avrebbe innovato la prassi, cercando i passi da leggere.

 Ogni ebreo può prestarsi per la lettura. Ma – contrariamente al costume secondo cui è il presidente della sinagoga che invita qualcuno ad alzarsi a leggere, e diversamente da Atti 13, 15 – qui è Gesù che prende l’iniziativa.

 Gesù applica le parole di Isaia su di sé. Tecnicamente con questo passaggio Luca sta facendo “ironia drammatica”: il lettore sa che Cristo è il Messia, prefigurato da Isaia, ma gli uditori del tempo no, questo genera nel proseguo della narrazione un contrasto ironico. Dapprima gli uditori gli rendono testimonianza per le parole di grazia, Cristo infatti insegna con successo nelle sinagoghe, ma non hanno ancora capito bene che Gesù si sta dichiarando il Messia. Per questo, quando Cristo si dichiara superiore ai profeti antichi, lo vogliono uccidere.

 “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?»”. Secondo un’altra interpretazione, “rendere testimonianza” è una espressione che richiama la prassi del processo ebraico di schierarsi nei confronti di qualcuno, chi a favore e chi contro. Non si tratterebbe di una meraviglia positiva, ma di una irritazione: gli uditori sono stupiti perché scandalizzati dalle sue “parole di grazia”, cioè le parole riguardo la grazia promessa da Dio nei confronti del popolo ebraico, che Cristo applica a sé stesso. A conferma di questa interpretazione c’è che gli uditori gli rispondono: Non sei il figlio di Giuseppe? Come è possibile che la grazia di Dio verso il popolo si compia proprio in te?

 Inoltre, è grave per gli ebrei del tempo che la salvezza sia proclamata non solo agli ebrei ma a tutti. Infatti, Cristo cita due stranieri (una vedova in Sarepta e un siro): anche questo deve aver scandalizzato enormemente gli ebrei del tempo, che si aspettano un Messia con lo scopo di liberare Israele dal dominio romano, facendo vendetta dei nemici. Invece Cristo si proclama espressione solo della misericordia di Dio e oltretutto verso tutti, anche gli stranieri.

 Allora lo cacciano dalla città e vogliono ucciderlo. Cristo non dimostra né di arrabbiarsi né di aver paura. Cristo è il Messia, quindi mantiene un atteggiamento dignitoso. Non ha nulla di cui vergognarsi, ha semplicemente detto la verità. Egli passa in mezzo, in greco dià mesou, cioè non tentenna ma procede con autorità tra i nemici.

 Il vero atteggiamento dei cristiani è quello di non avere paura delle avversità, di non adirarsi per il rifiuto e nemmeno di non imporre con la forza la verità evangelica. Gesù lascia libero l’uditorio di accettare o meno il vangelo. Dio dispone ma non impone. Dio ha un rispetto talmente profondo della libertà dell’uomo che accetta anche il rifiuto definitivo di chi non si pente fino all’ultimo, cosa che conduce all’inferno, ma non come condanna bensì come decisione del peccatore di non accettare fino alla fine il Regno di Dio.

 

 

Bibliografia

 

 

 

  • F. Bovon, Vangelo di Luca, 3 voll., Brescia 2019;

 

  • C. Broccardo, Vangelo di Luca, Roma 2012;

 

  • O. Capezio, La poesia araba preislamica, Roma 2021;

 

  • H. Corbin, La Scienza della Bilancia e le corrispondenze tra i mondi nella gnosi islamica, Milano 2009;

 

  • M. Crimella (a cura di), Luca. Introduzione, traduzione e commento, Milano 2015;

 

  • G. Ravasi, I monti di Dio, Milano 2001;

 

  • G. Ravasi, Il libro dei Salmi, 3 voll., Bologna 2015;

 

  • H. Schürmann, Il vangelo di Luca, parte prima, Brescia 1983.

 

 

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 53 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

 

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