“Fu squadrista animosissimo, sempre presente ad ogni cimento e ovunque occorresse agitare in alto la fiaccola della purissima fede fascista”.
A Lucca il Fascio di Combattimento viene costituito abbastanza tardi, il 26 ottobre del 1920, da un piccolo gruppo di ardimentosi. Sono pochi: studenti, inebriati dall’amor di Patria, ex combattenti (molti gli Arditi) che non ritengono di rinnegare i sacrifici fatti al fronte, borghesi e proletari che non intendono più sottostare alle violenze ed alle prepotenze che, anche qui, hanno caratterizzato il “biennio rosso”.
Il 5 dicembre pubblicano anche un giornale, in verità poco originale nel nome, che è “L’Intrepido”, e nel motto sulla testata: “Ardisco e non ordisco”.
La situazione, per loro, è difficile, sia nel capoluogo che nei paesi della Provincia, che all’epoca comprendeva, oltre la Versilia, la Valdinievole (poi passata alla Provincia di Pistoia) ma non la Garfagnana, (appartenente alla Provincia di Massa).
E il fatto che in zona vi sia – caso abbastanza raro in Toscana – una forte presenza del Partito Popolare non cambia, nella sostanza, la realtà. I seguaci di don Sturzo, infatti, prendono il 26% circa dei voti alle politiche del 1919 e il 30% a quelle del 1921, sopravanzando, sia pur di poco, in entrambi i casi, i socialisti.
Ma sono questi ultimi, inebriati dal motto “fare come in Russia”, a lavorare per la Rivoluzione, e per questo, a non essere disposti a concedere spazi, ricorrendo anche alla violenza, ai nuovi venuti sulla scena politica.
La testimonianza, alcuni anni dopo, di Carlo Scorza ricorderà le sedi iniziali del primo Fascio (inizialmente una vecchia stalla, poi una camera avuta in prestito da un amico, e infine l’appartamento concesso da una vedova di guerra), come di luoghi dove: ”venivamo assistiti, rifocillati, e in caso bastonature, incerottati. Fu qui che mi venne ricucita la giubba militare del taglio provocato da un colpo di rasoio…”.
Questo ultimo episodio si può ben dire rappresenti la prima prova del fuoco per i mussoliniani lucchesi. Il 14 dicembre del 1920, in piazza San Michele, un centinaio di aderenti al nuovo movimento, in massima parte ex combattenti ed Arditi, si scontrano con una folla di operai delle industrie locali che, convocati dai socialisti, protestano per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità.
In verità tutto avviene in maniera assolutamente casuale. I fascisti si sono radunati in stazione per andare a Pisa, dove, insieme a camerati provenienti da Firenze ed Arezzo, intendono impedire l’insediamento del neo-eletto Consiglio Provinciale a maggioranza socialista.
Quando arriva la notizia che la cerimonia pisana è stata rinviata, ripiegano, dirigendosi verso il centro della loro città. Lungo la strada, però, incappano nel comizio degli avversari.
Tutto, comunque, sembra procedere in maniera tranquilla, al punto che l’oratore, l’Onorevole Lorenzo Ventavoli, invita i mussoliniani al contraddittorio, che è, all’epoca, una pratica non infrequente.
È a questo punto che, inaspettatamente, parte un colpo di pistola che colpisce alla nuca un giovane squadrista ventunenne, ex Ufficiale dei Granatieri, e dà il via ad una zuffa generale, che si concluderà con due morti e diciassette feriti.
In piazza c’è anche il giovane Carlo Scorza, ex Tenente degli Arditi, decorato con tre medaglie di bronzo, che non esita a schierarsi dalla parte dei suoi ex commilitoni, e ne ricava il già accennato colpo di rasoio alle spalle che gli recide la divisa che ancora indossa, essendo stato congedato solo il 31 ottobre.
Nato a Paola, in Calabria, nel 1897, da una modestissima e numerosa famiglia (è decimo di dodici figli) si è trasferito nel 1912 a Lucca, ospite di un fratello, impiegato all’Ufficio Imposte Dirette. Interrompe gli studi per partire volontario allo scoppio della guerra, coerentemente al suo impegno interventista, che gli è costato il carcere il 1° maggio, e che lo porterà sempre in prima linea al fronte, dove dimostrerà coraggio e determinazione.
Edoardo Savino, nella sua raccolta antologica dei profili dei maggiori esponenti del fascismo, così parlerà di lui:
Fu squadrista animosissimo, sempre presente ad ogni cimento e ovunque occorresse agitare in alto la fiaccola della purissima fede fascista. Ben presto il piccolo nucleo si ingrossò, divenne falange sotto l’impulso della sua fede diritta e incrollabile, manifestantesi nell’azione, dagli effetti immancabili e pronti, e nella parola calda, incisiva, efficace
Soldato di cento battaglie, saldo animatore del fascismo lucchese. All’epoca della Marcia su Roma, Comandante Generale della piazzaforte di Civitavecchia, poi Console Generale della MVSN, primo ed unico Segretario Federale della Provincia, perché sempre tale lo volle il consenso unanime dei fascisti di Lucchesia. (1)
Le tre medaglie, l’appartenenza alla scelta schiera degli Arditi, lo stesso ferimento in piazza, costituisco la sua migliore carta di presentazione nell’ambiente fascista cittadino. Pochi giorni dopo entra a far parte del Direttivo, e dal 26 dicembre, diventato giornalista professionista, inizia a collaborare a “L’Intrepido”. Il 9 aprile dell’anno seguente diventa segretario del Fascio lucchese.
Fascio che si va distinguendo, da subito, per la sua “vivacità”. Una pubblicazione ufficiale degli anni quaranta elencherà una quantità innumerabile di azioni che vedono per protagonisti gli squadristi locali, a cominciare dalla distruzione di Camera del Lavoro, Casa del Popolo e Circolo della Gioventù comunista del capoluogo, attaccati col fuoco almeno tre volte da marzo a dicembre del 1921.
Particolare rilievo hanno, nel periodo che va dai fatti di piazza San Michele alle elezioni di maggio dell’anno dopo, le azioni a Badia di Castignano, Porcari, Ponte Buggianese, Ponte all’Ania, che buttano gamballaria tutto l’apparato di potere social-leghista.
A parte, vanno anche citate le spedizioni a Ponte a Moriano del 25 marzo e quella a Viareggio del 2 maggio.
Il 25 marzo un gruppo di squadristi pisani si dirige alla volta di Ponte a Moriano, in provincia di Lucca, per un’azione dimostrativa, di poca importanza reale, ma molto significativa nell’immaginario collettivo: togliere il simbolo dei Soviet dal circolo ricreativo socialista.
I giovani non sono Lucchesi, ma il fatto che l’episodio si svolga in un paesino della provincia di Lucca, e che essi abbiano organizzato l’azione con i camerati del capoluogo (che si uniranno a loro), farà ricomprendere Tito Menichetti, il Caduto della giornata, tra i Martiri della città (sette nel totale), già nell’opuscolo rievocativo ufficiale “Nostri morti”, firmato da Scorza nel 1922.
La causa prima che provoca la morte del giovane non è, come comunemente si dice, una “fatalità”, ma la conseguenza di uno stato di cose frequente, con conseguenze tragiche, nelle cronache squadriste di quegli anni, e cioè il guasto al camion della spedizione, che costringe gli occupanti a scendere e proseguire a piedi, lasciando un piccolo nucleo di guardia al mezzo.
Non è mai stato fatto un calcolo, ma la accertata numerosità di tali inconvenienti serve a smentire la (ennesima) fola che vuole gli squadristi scorazzanti su fiammanti camion messi a disposizione dagli agrari quando non dai Presidi militari.
Si tratta, invece, nella maggior parte dei casi, di vecchie carrette, cedute controvoglia dai proprietari, opportunamente “sensibilizzati” e timorosi – giustamente – per la possibile brutta fine del veicolo di loro proprietà in uno scontro a fuoco o in altro agguato.
Né va dimenticato che, ove l’opera di convincimento, aiutata – se necessario – dall’esibizione di minacciosi pistoloni non vada a buon fine, i mezzi vengono addirittura noleggiati (famoso il caso di Bologna, dove, a seguito di incidenti avvenuti a Pieve di Cento il 17 marzo, fu arrestato Leandro Arpinati, assente, ma firmatario del contratto di noleggio).
Anche a Ponte a Moriano succede che il camion squadrista va in panne, così che tra gli uomini lasciati di sorveglianza, mentre gli altri portano a termine la loro azione, vi è il ventitreenne Tito Menichetti, che aveva vestito l’uniforme nel giugno del 1916, appena un Decreto aveva permesso l’arruolamento dei diciassettenni, si era congedato da Ufficiale, si era diplomato – probabilmente usufruendo del trattamento di favore riservato ai reduci – e iscritto alla Facoltà di Legge.
Nella versione fascista dei fatti vi è un dettaglio (che però tale non è) che colloca l’intera vicenda in tutt’altra luce rispetto a quella normalmente accreditata di una spedizione finita male per la reazione popolare. Infatti, il giovane non cade “in azione”, ma viene ucciso “a freddo”, si può dire:
A Ponte a Moriano egli non giunse: restò a guardia di un’automobile avariata.
Fu circondato da bestie avide di sangue: non volle uccidere, perché il suo animo, assetato di bellezza, rifuggiva da ogni bruttura: ebbe una pallottola nel capo mentre consegnava la sua arma.
Lo ripescarono morente in un fosso melmoso che il suo sacrificio ha ormai reso puro come un fonte battesimale. (2)
L’episodio avrà grande risonanza e collocherà Menichetti nel Pantheon dei Caduti fascisti. Gli saranno intitolate squadre, dedicate piazze e vie, e un monumento a Marina di Pisa.
Nella competizione “Poeti del tempo di Mussolini”, nel 1934, al Caduto sarà dedicata anche una poesia, commemorativa dell’inaugurazione del monumento a lui dedicato. I versi finali dicono:
Tacqui. Il fanciullo cadde ginocchioni
E, con la destra sopra il cuore indomo
“Tito – disse – che sii benedetto”.
Poi, nel silenzio della grande sera
Ebbe in fronte una stella ogni caduto
E si scose nel vento ogni bandiera
Per un messaggio d’ultimo saluto. (3)
Ci sarà anche un epilogo tragico. Il 13 aprile, a Pisa, tre ragazze del Fascio, accompagnate da un loro camerata, vanno a cercare, a scuola, Carlo Cammeo, maestro, Vice Segretario della Camera Confederale e Presidente del Sindacato Maestri che aveva pubblicato su “L’Ora Nostra”, foglio d’ordini del Partito Socialista pisano, un vergognoso articolo col quale lanciava crudeli e pungenti ironie all’indirizzo del Menichetti e si scagliava contro la “mania distruggitrice” dei “ragazzi” fascisti che “con acre voluttà di seminare il terrore” facevano della morte di Menichetti una “indegna speculazione patriottica”.
Le ragazze raggiungono l’insegnante in aula, e lo invitano a scendere nel cortile, per evitare scenate davanti alla scolaresca. Con loro, un giovane studente di Farmacia, Elio Meucci. Dopo qualche minuto si odono dei colpi di arma da fuoco e Cammeo giace a terra, morto.
La tesi fascista è che egli fosse armato ed abbia estratto per primo la pistola, salvo essere raggiunto dai colpi esplosi dal fascista presente. Di fatto, le successive indagini proscioglieranno – dopo un periodo di carcere – i responsabili, rientrando l’omicidio nella fattispecie della legittima difesa.
A Lucca la notizia fa rumore, ma non suscita particolare sdegno, in una logica “vendicatrice”, anche perché in città, su “L’Intrepido”, in una corrispondenza da Pisa, il capo degli squadristi locali, Bruno Santini, aveva scritto un articolo intitolato “Rinnegato”, nel quale affermava che: “Cammeo è l’uomo più vigliacco che abbia mai conosciuto”.
Sulla linea del dovere e del fuoco, il padre del giovane Tito prenderà il suo posto e parteciperà alla marcia su Roma come “Capo squadra onorario”.
Molto diversa la storia di Viareggio, che merita però due righe perché anch’essa, per certi versi, “tipica” di come andavano le cose nella maggioranza dei casi del quadriennio rivoluzionario, particolarmente con riferimento a tre aspetti che, per la loro ripetitività, aiutano a meglio valutare le situazioni. Infatti, per scendere al particolare, qui, come nella grande maggioranza dei casi, l’azione fascista:
– è “di ritorsione”, dopo un prologo senza vittime e il successivo assassinio di uno squadrista;
– si rivolge contro le cose prima che contro le persone (favorita in questo anche da fughe provvidenziali);
– attribuisce alla distruzione/devastazione dei locali avversari un significato simbolico e rituale, che ha nell’asportazione di vessilli e bandiere il suo momento culminante.
Se Marco Rossi ha parlato di vera e propria “contesa delle bandiere, così come era avvenuto nella lotta per il possesso di trincee e avamposti nemici”, proprio ad un vessillo, quello degli Arditi del Popolo di Civitavecchia (citato anche da Chiurco) farà riferimento Enrico Ciancarini:
La conquista della bandiera avversaria ha un alto valore simbolico per gli uomini che hanno combattuto per anni nelle trincee della Grande Guerra. Nel Patto di Pacificazione firmato da socialisti e fascisti nell’agosto del 1921, al punto “m” è evidenziato che “saranno rispettai i simboli e le insegne dell’uno e dell’altro Partito” (4)
Vediamo i fatti.
Il 2 maggio del 1921, di mattina, in segno di risposta alle manifestazioni sovversive del giorno precedente, i fascisti si riuniscono a Pietrasanta per una “prova di forza”, con squadre provenienti anche da Pisa, Livorno e Lucca.
Si tratta, evidentemente, di dare un segnale di vitalità, in vista delle prossime elezioni, con una pubblica manifestazione che, però, escluda ogni violenza che complicherebbe l’alleanza elettorale, già difficile, dei fascisti con i moderati dei Blocchi nazionali.
Tutto si svolge, quindi, nella massima tranquillità, finché, al ritorno, verso le 15,30, poco dopo la stazione di Viareggio, viene aperto il fuoco contro il treno che riporta a casa gli uomini, e cade, colpito a morte, lo studente Pacino Pacini.
Le squadre tornano allora sui loro passi, si concentrano a Torre del Lago e muovono con camion su Viareggio, per una ritorsione. Giunti in paese, gli uomini si dividono. Una parte distrugge la Camera del Lavoro, e gli altri, tra i quali i Lucchesi, si dirigono al Circolo dei Calafati e lo devastano. Il tutto senza incontrare resistenza alcuna.
Il giorno dopo, solita proclamazione di sciopero generale, alla quale si accompagna la richiesta alle Autorità che venga restituito il vessillo sociale del Circolo, che gli squadristi si sono portati via come trofeo.
Il Sindaco di Viareggio allora, dopo un personale tentativo, scrive al Questore di Lucca, chiedendo un suo intervento per riottenere – anche con la forza – la bandiera,. Ma ha una risposta che chiude la questione, anche se non sembra molto convincente:
A seguito delle vivissime insistenze e premure fatte dalla S V presso il signor Prefetto e me, ci siamo ambedue interessati perché il Fascio di Combattimento restituisse a cotesto Circolo Calafati la bandiera rossa loro tolta il 2 corrente mese. ma le nostre premure non ebbero esito migliore di quelle così pazientemente fatte dalla S V qui a Lucca.
Il signor Scorza Carlo, Segretario politico del Fascio, mi ha dichiarato che la bandiera più non esiste, essendo stata fatta in pezzi, distribuiti ai soci del Fascio, e di non essere quindi in grado di restituirla. (5)
In effetti, la giustificazione addotta da Scorza non corrisponde a verità. La bandiera sarà inviata a Roma, dove verrà dimenticata nei magazzini dell’ Archivio Centrale dello Stato, per essere poi recuperata ed esposta in una grande Mostra allestita nel 1980 al Museo del Risorgimento di Torino, e infine conservata ed esposta nel Museo della Marineria di Viareggio.
La risposta data al Questore va quindi presa per quello che è, una burla degli irriverenti scapestrati in camicia nera che, anche a Lucca, non intendono sottostare alle intimidazioni delle vecchie Autorità, sempre giolittiane.
FOTO 1: Carlo Scorza Ardito
FOTO 2: il padre di Menichetti alla Marcia su Roma
NOTE
- Edoardo Savino La nazione operante, profili e figure di ricostruttori, Milano 1928, pag. 518
- Carlo Scorza, Nostri morti, Lucca 1922, pag. 13
- Antieuropa, nr. 4-10 di ottobre-novembre 1934, pag. 86
- Enrico Ciancarini, Il fascio spezzato. Gli Arditi del Popolo nella ribelle irriducibile Civitavecchia, Roma 2016, pag. 34
- (a cura di) Paolo Fornaciari, Viareggio maggio 1921, Viareggio 2011, pag. 8