16 Luglio 2024
Storia

Italia, 1946: continua la “Guerra” partigiana – Pietro Cappellari

 

Il linciaggio di Nello Brocani, una pagina di barbarie antifascista

 

Se sappiamo – o dovremmo sapere – che la Seconda Guerra Mondiale in Italia si concluse ufficialmente il 2 Maggio 1945 (e continuiamo a non capire gli stolti che, anche in posizioni “alternative”, continuano a parlare di “25 Aprile”), non tutti sanno quando finirono le violenze partigiane antifasciste. Infatti, se generalmente si parla di “Primavera di Sangue del 1945”, pochi riescono a dare un inizio e una fine alla sete di sangue comunista seguita al passaggio dei carri armati angloamericani, se non – ancora una volta – limitarsi a dire: “dopo il 25 Aprile”. Non vogliamo tornare su un argomento che abbiamo già affrontato, ma se una data di “inizio della fine” va cercata, questa non può non essere che il 21 Aprile 1945, quando, con la caduta di Bologna, cessò la possibilità di resistenza dell’Esercito tedesco e si aprirono le porte della Pianura Padana agli Alleati. Da quel giorno iniziò la “caccia al fascista”, con un crescendo che ebbe il suo apice tra il Maggio e il Giugno seguente, e si trascinò anche nei mesi successivi… fino al 1947!

Sì, perché se dobbiamo trovare una data per indicare con cognizione di causa la fine delle violenze partigiane perpetrate dal regime ciellenista e collaborazionista contro inermi fascisti o presunti tali, questa non può non essere che il 18 Aprile 1948, quando, con la vittoria elettorale della Democrazia Cristiana – e la conseguente sconfitta dell’asse sovversivo PCI-PSI –, si aprì una nuova stagione: se non mancarono certamente violenze antifasciste; se rimase intatto il regime ciellenista e collaborazionista (atlantista), anche se a guida esclusiva DC; l’“epopea partigiana” andò finalmente in pensione (salvo essere ripescata dal PCI con nuove leve nel 1960, ma questa è un’altra storia).

Tra il 21 Aprile 1945 e il 18 Aprile 1948, l’Italia centro-settentrionale fu presa da una morsa di violenza imposta dall’odio antifascista. Uccisioni, vendette, stupri, pestaggi, epurazione, furono il triste risultato della sconfitta dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. E a compierle furono Italiani contro altri Italiani.

Uno di questi episodi, avvenuto nell’Estate del 1946, vogliamo oggi raccontarvi, per far comprendere come si vivesse in quei mesi in cui finalmente i partigiani comunisti erano “al potere”. E cosa sarebbe accaduto se veramente i ribelli bolscevichi avessero “vinto”: l’Italia sarebbe stata trasformata in un enorme cimitero a cielo aperto sul modello iugoslavo e avremmo avuto per un cinquantennio un regime di terrore e miseria: nel 1990, sarebbero stati gli Italiani sui barconi a fuggire in Tunisia in cerca di pane e lavoro.

Di questa tristissima storia siamo venuti a conoscenza grazie ad una lettera-appello che Padre Remo Balboni, Rettore del Santuario di S. Liberato di Gabella Nuova (Macerata), scrisse al Direttore de “Il Merlo Giallo” nel Maggio 1949 (cfr. In soccorso di una vedova sventurata, “Il Merlo Giallo”, a. IV, n. 166, 7 Giugno 1949).

Il 6 Luglio 1946 si verificò a Jesi (Ancona) un turpe delitto: Nello Brocani, reduce dalla prigionia, appena giunto in città, venne ucciso “a furor di popolo istigato da pochi mestatori estremisti, colpevole solo di aver appartenuto alla RSI”. Lasciava la moglie Elena e sette figli minorenni, in condizioni di totale indigenza.

Del drammatico caso si era per l’appunto interessato Padre Remo Balboni che era riuscito a sistemare, tra conventi e collegi, quattro ragazzi, tra cui uno “privo del braccio destro perduto in combattimento”, che rischiava di essere ammazzato dai partigiani comunisti che gli avevano promesso di fargli fare la fine del padre. Rimanevano a casa tre ragazzi; uno di 17 anni; uno di 20 già Volontario di Guerra nella Decima MAS; e una ragazza di 19 anni, emblematicamente chiamata Italia. Tra i sette i figli del Brocani, Italia era l’unica ad essere riuscita a trovare lavoro, come sarta. Lavoro che, però, non poteva soddisfare le esigenze di vita della famiglia, tanto che spesso i quattro sventurati dovevano saltare i pasti.

Padre Remo Balboni, dopo molte insistenze, riuscì a sistemare in convento anche i due maschi. Ma al peggio non vi era limite: “Il mese scorso [Aprile 1949, nda] si ebbe una vera parodia di processo contro i responsabili dell’uccisione del marito [di Elena Bastianelli in Brocani], che naturalmente vennero assolti per insufficienza di prove. Durante i giorni del processo, la figlia della vedova [Italia] per istrada venne rapita da sconosciuti malviventi che la minacciarono di morte se avesse deposto contro gli indiziati. Salvatasi per puro miracolo poté tornare a casa ma tale fu lo spavento che ora si trova in serio pericolo di vita. Costretta ad abbandonare l’unica sorgente di guadagno per lei e la madre ora si trovano a combattere con la fame più nera. Non riconoscono a loro nessuna pensione, sono piene di debiti ed in più ora si è aggiunto il male”.

Padre Remo Baldoni, disperato, si rivolgeva a “Il Merlo Giallo” per chiedere aiuto per le due disgraziate. La risposta non si fece attendere. I fondi di Mutilati al palo, la sottoscrizione lanciata dal benemerito giornale, furono in parte dirottati verso questa sfortunata famiglia, per un importo di 20.000 Lire.

Purtroppo, non abbiamo trovato altre notizie in merito a questo tristissimo caso, la cui memoria si è perduta tra le centinaia e centinaia di drammi simili verificatasi in quella Italia dove forse si festeggiava pure il “ritorno della libertà”, ma che non annoverava nella sua storia recente cronache così vergognose.

Nello Giuseppe Ermogaste Brocani nacque a Jesi il 13 Dicembre 1904. Era stato un giovane squadrista, implicato – a quanto si narra – nel 1922 in uno scontro a fuoco contro i repubblicani che per poco non gli valse l’imputazione di tentato omicidio. Dispensato dal servizio militare nel 1924, era stato poi nominato Sottotenente di complemento dell’Arma del Genio il 26 Marzo 1936, con servizio di prima nomina presso il 7° Reggimento Genio (1°-30 Giugno 1936). Durante il Regime, era stato assunto in Comune in qualità di Geometra presso il locale acquedotto. Richiamato in servizio per quindici giorni nel 6° Reggimento Genio di Bologna nel Settembre 1939, era nominato Tenente il 3 Agosto 1940, per essere infine assegnato al Sottosegretariato di Stato per le Fabbricazioni di Guerra in Roma (17 Dicembre 1940 – 24 Ottobre 1942).

Tornò alla ribalta delle cronache nel Settembre 1943, quando fu tra i primi a ribellarsi alla resa incondizionata (e al conseguente passaggio al nemico) del Regno d’Italia, divenendo uno dei principali protagonisti, insieme a Carlo Cinti e Antonio Blasetti, della costituenda Repubblica Sociale: fondatore e Segretario del Fascio Repubblicano di Jesi e Capomanipolo della Milizia, poi Tenente della GNR.

Arrestato a Cagliari nel primissimo dopoguerra, era stato imprigionato ad Ancona con l’accusa di collaborazionismo militare, “rapina aggravata” ed “estorsione”, tutti reati attribuiti dall’accusa in relazione all’attività di repressione del banditismo condotta quando era stato a capo della Milizia di Jesi (Novembre 1943).

Il 3 Luglio 1946, però, venne scarcerato in quanto applicabile nei suoi confronti l’amnistia Togliatti. A Jesi, in Via Roccabella n. 5, lo aspettavano la moglie Elena Bastianelli e i suoi figli.

Simile sorte era capitata al figlio David, ancora in carcere. Classe 1927, Vicebrigadiere della GNR, accusato dagli antifascisti di “rapina aggravata a mano armata” per una perquisizione risalente al Maggio 1944, reato per il quale era stato arrestato nel Gennaio 1946 (anche per lui era scatterà l’amnistia, ma sarà liberato solo 25 Giugno 1947).

La situazione per Nello era tristissima. Non solo contro di lui montava un odio viscerale alimentato dall’antifascismo locale in quanto simbolo vivente del fascismo ma, il 29 Luglio 1944, – durante l’occupazione alleata della provincia – era stato anche epurato perdendo il lavoro, unica fonte di sostentamento per la famiglia. Sebbene libero, cosa avrebbe fatto ora per mantenere la famiglia?

L’odio in città esplose quando, la mattina del 6 Luglio 1946, qualcuno diffuse la notizia del suo ritorno a casa. Vistolo entrare con la moglie Elena Bastianelli in Commissariato in Piazza del Plebiscito (attuale Piazza della Repubblica), subito gli antifascisti locali aizzarono la piazza, alcuni entrarono direttamente nell’edificio minacciandolo di morte davanti ai Funzionari della PS, certi dell’impunità.

Mentre [il Brocani] trovavasi negli uffici del Commissariato di Pubblica Sicurezza di [Jesi], sparsasi la notizia del di lui ritorno, molti cittadini si portarono presso il detto Commissariato chiedendo, ad alta voce, la consegna del Brocani per farne giustizia sommaria.

Il Commissario di Pubblica Sicurezza, Dott. [Gennaro] De Troia, cui si unì il Capitano dei Carabinieri [Giuseppe De Rosa], volendo garantire l’incolumità del Brocani, pensarono di rimandarlo in Ancona scortato dai Carabinieri e, a tale scopo, parlarono con i maggiorenti del Partito Comunista Contuzzi Pietro, Serrani Bruno, Bernacchia Augusto e Renzo Trentini. Costoro dapprima volevano che venisse loro affidato il Brocani per consegnarlo al popolo, ma poi finirono con il promettere che esso non sarebbe stato aggredito ed aderirono alla proposta suddetta del Commissario di Pubblica Sicurezza e del Capitano dei Carabinieri.

Questi allora decisero di affidare la traduzione del Brocani all’autista di piazza, Cascia Getulio, perché, essendo esso noto comunista, si dava l’impressione alla folla che il Brocani era, in tal modo, tenuto ancora a disposizione delle Autorità.

[Alle ore 15:00] il Cascia, avvertito di quanto innanzi, si presentò al Commissariato pilotando un’automobile Fiat 508 (Balilla) anziché la propria Fiat 1100, molto più grande, e su essa montarono il Brocani, il Maresciallo dei Carabinieri Salvatore Fortunato, l’Appuntato Corducci Domenico, ed i Carabinieri Corducci Alfredo e Mochi Benedetto, prendendo posto i primi tre sul sedile posteriore e gli altri due su quello anteriore, accanto all’autista.

Partita l’automobile procedendo a velocità molto limitata, il Maresciallo Fortunato impose al Cascia di accelerare la corsa e di percorre, anziché la Via Nazionale, quella di Santa Maria, ma l’altro rispose di non poter seguire un più lungo percorso per non avere benzina sufficiente.

Successivamente, [dopo aver attraversato Via Castelfidardo, Via Trieste e Via Setificio, appena giunti] in Via Garibaldi, il Cascia fermò l’automobile per un asserito guasto e subito essa fu raggiunta da altre (sembra la Fiat 1100 di proprietà del Cascia) e da un camioncino, dai quali scesero una trentina e più di persone che, unitesi ad altre sbucate della via adiacente, assaltarono la ‘Balilla’, tirarono fuori a via forza il Brocani e lo percorsero bestialmente, lasciando a terra tramortito, e ciò in presenza dei Carabinieri, i quali fecero quanto era in loro per sottrarlo alla folla, senza fare uso delle armi per evitare più gravi conseguenze.

Caricato il Brocani sull’automobile fu trasportato all’ospedale di Jesi, ma essendosi quei sanitari rifiutati di medicarlo, fu trasportato al nosocomio di Ancona, ove gli vennero riscontrate contusioni multiple in più parti del corpo, tra cui una sulla regione occipitale e probabile frattura costale” (sentenza della Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Ancona, datata 9 Marzo 1949, in ASAN, f. Corte di Assise di Ancona – Fascicoli processuali, f. Processo “Cascia-Contuzzi-Serrani”).

Contro Brocani vennero lanciate le accuse più varie, quanto generiche: soprusi e violenze contro i cittadini e, soprattutto, la responsabilità diretta della fucilazione di sette partigiani e due civili, anche questi non meglio specificati. Prove? Nessuna. Tanto era un fascista e doveva morire solo per questo.

Forse ci si riferiva alla fucilazione di sette ribelli avvenuta a Montecappone di Jesi il 20 Giugno 1944, ma la responsabilità – nonostante alcune voci che volevano la compartecipazione di un reparto della RSI – era da attribuire esclusivamente ai Germanici. Così come per i “due civili”, che forse richiamavano le fucilazioni di due ribelli avvenute a Jesi l’8 e il 9 Febbraio 1944, a seguito dell’assassinio del fondatore del Fascio Repubblicano Antonio Blasetti (17 Gennaio 1944). Ma anche in questo caso, Brocani fu estraneo al triste fatto di sangue.

Accuse infondate a parte, Nello fu barbaramente preso a bastonate sulla pubblica via solo perché fascista. Di quei fascisti, a differenza di tanti suoi concittadini, che erano rimasti fedeli al giuramento prestato in gioventù. Prima di tutto, era la cattiva coscienza dell’intera popolazione.

I Carabinieri, ripresisi dallo spavento, come abbiamo visto, riuscirono a strappare dalle mani della folla il povero Brocani, ormai irriconoscibile, ridotto una poltiglia umana. Dopo che i medici e gli infermieri di Jesi avevano rifiutato di soccorrerlo, venne ricoverato presso l’Ospedale civile “Umberto I” di Ancona. Dopo alcune ore, però, Nello chiese alla sorella Clara di portarlo via, in quanto temeva di subire altre aggressioni. Nonostante le sue condizioni gravissime, la donna accettò di soccorrere il fratello e lo portò nella sua abitazione di Loreto.

«Appena mio padre fu dimesso dall’ospedale di Ancona, mi recai a Loreto ed ebbi con lui un colloquio. Tra l’altro gli chiesi chi era stato a percuoterlo e lui rispose: “Lo so chi è stato”, ma non mi fece alcun nome e mi esortò a perdonare i colpevoli» (testimonianza di Italia Brocani, datata 7 Aprile 1949, in ASAN, f. Corte di Assise di Ancona – Fascicoli processuali, f. Processo “Cascia-Contuzzi-Serrani”).

Ma Nello non migliorava e i timori di nuove aggressioni, che questa volta avrebbero coinvolto anche la sorella Clara, lo convinsero a trasferirsi a Roma, da un amico.

La gravità della situazione era sotto gli occhi di tutti. Mal di testa frequenti accompagnati da costanti conati di vomito. Fu così che, sul finire di Agosto, impossibilitato ad essere assistito decentemente, Nello decise di tornare a Loreto.

Clara fece di tutto, ma dopo una quindicina di giorni dopo, impressionata dallo stato del fratello, chiamò la moglie Elena che decise di ricoverarlo nuovamente all’ospedale di Ancona. Due giorni dopo, alle ore 2:00 del 14 Settembre 1946, il Brocani spirava per emorragia sottomeningea all’emisfero cerebrale sinistro prodotta dai traumi subiti alla testa il 6 Luglio precedente. Non aveva compiuto ancora 42 anni.

La salma fu inumata nel cimitero di Loreto (1° ampliamento – blocco 16 – piano primo – nicchie – fila 7 – n. 68/B).

Già l’8 Luglio 1946, essendo ben chiaro cosa era accaduto, era stato eseguito un mandato di cattura contro i capi della Resistenza locale Pietro Contuzzi e Bruno Serrani, e contro l’autista Getulio Cascia, anche lui comunista, il cui comportamento nella traduzione del Brocani aveva destato l’interesse del Giudice istruttore. Il Procuratore generale, tuttavia, espletata l’istruttoria, dichiarò il non doversi procedere contro i tre imputati del ferimento per insufficienza di prove e ne ordinò la scarcerazione.

Mutato il clima politico, il 17 Novembre 1948 verranno nuovamente arrestati Pietro Contuzzi e Getulio Cascia, seguiti in carcere anche da Bruno Serrani, fermato il 16 Febbraio 1949. Questa volta, però, l’accusa fu di concorso in omicidio.

Il processo prese subito una brutta piega per gli accusati, che vennero tuti e tre rinviati a giudizio della Corte di Assise di Ancona per i reati contestati: l’organizzazione del linciaggio per Contuzzi e Serrani; il concorso in essa del Cascia. Nel contempo, però, la Sezione istruttoria dichiarava il “non doversi procedere contro gli esecutori materiali del reato per essere rimasti ignoti” (sentenza della Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Ancona, datata 9 Marzo 1949, in ASAN, f. Corte di Assise di Ancona – Fascicoli processuali, f. Processo “Cascia-Contuzzi-Serrani”).

Gli antifascisti si mobilitarono in massa in loro difesa, protestando clamorosamente contro lo “Stato di polizia” che riempiva le carceri di “innocenti” partigiani e liberava “criminali” fascisti (cfr. A. Martellini e B. Montesi, Il Novecento in provincia, FrancoAngeli, 2020).

Giudichi il lettore chi erano i criminali e chi gli innocenti.

Il 1° Aprile 1949, mentre si avvicinava la data del dibattimento, Italia, la figlia diciannovenne del Brocani, venne rapita da due sconosciuti, che la portarono con un auto fuori Jesi minacciandola di morte se non avesse ritirato la denuncia contro gli imputati alla sbarra per il linciaggio del padre.

«Il 1° Aprile u.s., verso le ore 19, passando per Via XV Settembre vicino ad una automobile e precisamente a poca distanza dallo sportello destro di essa, che era aperto e davanti al quale c’era un individuo a me sconosciuto, in piedi, mentre un altro stava seduto al volante, fui afferrata per la vita dal primo di essi il quale mi mise anche una mano sulla bocca per non farmi parlare e mi mise nella macchina che subito si mosse. Appena partito, quello che fungeva da autista chiese all’altro che era al mio fianco: “Ne sei sicuro?”. Al ché quello se ne assicurò dopo di avermi chiesto il cognome, lo stesso individuo, che teneva in mano una rivoltella a tamburo, mi disse: “Se Contuzzi non uscirà dal carcere, tu e tutti i membri della tua famiglia farete la stessa fine di tuo padre”. Mi chiese, inoltre se era vero che avevamo messo l’Avvocato per questa causa e se ci eravamo costituiti parte civile ed io risposi di no a tutte e due le domande. Tanta era la paura che credo di aver perduto i sensi. Ad un certo punto, ad un bivio in aperta campagna, notai i fari di un automezzo che incrociava col nostro e, affacciandomi allo sportello, gridai, chiedendo aiuto. Poco più in là lo sconosciuto fece rallentare la macchina e mi fece scendere dopo aver aperto lo sportello di destra della macchina, mentre quello che stava davanti tirò il sedile anteriore per farmi passare. Notai in quei pressi una casa di contadini, mi ci recai e, bussato alla porta, perdetti i sensi e caddi per terra. Quando rinvenni mi trovai in una cucina con alcune persone che mi circondavano» (testimonianza di Italia Brocani, datata 7 Aprile 1949, in ASAN, f. Corte di Assise di Ancona – Fascicoli processuali, f. Processo “Cascia-Contuzzi-Serrani”).

In un clima di generale tensione, il 7 Aprile 1949 tutti gli arrestati vennero prosciolti da ogni accusa, non con formula piena come richiesto dagli imputati ma, ancora una volta, per insufficienza di prove. Contro la sentenza che lasciava “gravi ombre” sull’operato degli antifascisti processati venne fatto ricorso in Corte di Cassazione. Un ricorso però respinto dalla Suprema Corte il 30 Gennaio 1953. Fu l’ultimo atto della terribile barbarie iniziata quel maledetto 6 Luglio 1946.

“Delitto di folla” si disse, nessun colpevole quindi, e di Nello Brocani si perse memoria storica.

 

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 6, Settembre 2023)

 

L’inchiesta è stata possibile grazie alla collaborazione nella ricerca storica di Simone Perticarini e Rachele Giacinti dell’Associazione “Aries” di Fermo, con il patrocinio della Fondazione “Parrini”. Copia degli atti del processo contro gli assassini di Nello Brocani sono conservati presso la Biblioteca di Storia Contemporanea “Goffredo Coppola” di Paderno di Mercato Saraceno (Forlì).

Il 1° Novembre 2022 la tomba di Nello Brocani è stata ritrovata nel cimitero di Loreto (Ancona) e ripristinata al culto dei Caduti per la Patria (cfr. Nello Brocani, presente!, “L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 1 Gennaio 2023).

 

 

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