Luigi Pirandello poteva nascere solo in Italia. Il suo sottile nonsenso, il suo teatro nel teatro, con i personaggi che escono da se stessi, i titoli della sua drammaturgia così evocativi sono assolutamente “nostri”. Le recenti elezioni amministrative lo hanno confermato, per cui non si sa se è l’Italia ad essere pirandelliana, o se è il grande agrigentino ad avere espresso una parte importante dell’anima nazionale. A Napoli, i sostenitori del sindaco uscente e vincente, l’ex Saint Just della magistratura Luigi De Magistris, hanno festeggiato la larga vittoria del loro beniamino cantando Bella Ciao. A Roma, i grillini entusiasti per Virginia Raggi, urlavano “onestà” a gola spiegata.
Che paese anacronistico, e purtroppo ridicolo il nostro! A Napoli non si ricordano partigiani, a meno di prendere sul serio l’epica delle quattro giornate del 1943, De Magistris è sindaco da cinque anni, i fascisti sono assenti da settanta, ma loro cantano Bella Ciao! Imbarazzante vintage, anacronismo ridicolo che però spiega molte cose della decadenza nazionale, o forse rafforza la verità delle tesi di René Girard sul capro espiatorio. La comunità, o meglio la sua parte più stupida, ha bisogno di un nemico su cui scaricare frustrazioni ed errori. Tutti i mali di Napoli, che sono davvero molti, uno dei quali, a sentire il garante dei minori della Campania, è la banalizzazione, in alcune zone e contesti subculturali, dell’incesto (!!!!!!), sono da attribuire ai fascisti, dai quali De Magistris ha liberato il generoso popolo partenopeo.
Oltretutto, la grande tradizione musicale napoletana è così ricca che, per festeggiare, potevano scegliere centinaia di canzoni meravigliose, tranne ‘O surdato ‘nnammurato – troppo militarista – o Malafemmena – maschilista. No, Bella Ciao: siamo fuori dalla storia per manifesta inferiorità, o per analfabetismo funzionale. Così è, se vi pare, scrisse Pirandello, e magari a De Magistris succederà la signora Frola. Napoli e teatro, infine, sono sinonimi!
Quanto a Roma, la pur gradevole Raggi Virginia (nomen omen) è stata accolta dai sostenitori pentastellati al grido di “onestà, onestà”. Poche settimane fa, la stessa invocazione risuonò a Milano, ai funerali un po’ new age di Gianroberto Casaleggio, ideatore e, a quanto sembra, proprietario del Movimento di cui Grillo è l’immagine esterna. Ma non è una cosa seria, come scrivevi tu, Pirandello che sei stato anche un po’ fascista. L’onestà sembra a chi scrive piuttosto una premessa che un programma politico, e comunque tra un abile venditore di auto usate di incerta moralità, ma colto e capace, ed un irreprensibile cretino io scelgo il primo senza esitare. Il cretino e l’incapace, possono diventare disonesti ed anche malvagi, ma non c’è possibilità alcuna che smettano di essere cretini o incapaci. Un pessimo soggetto, ma intelligente, è sempre più affidabile, e può cambiare condotta.
Pirandello fu lungimirante, nel Piacere dell’Onestà. Lo spiantato Angelo Baldovino, dopo una vita di espedienti, accetta di sposare l’amante incinta di un marchese e tenere per suo quel bambino, e cambia, profondamente, definitivamente: “Ecco qua: uno ha preso alla vita quel che non doveva e ora pago io per lui, perché se io non pagassi, qua un’onestà fallirebbe, qua l’onore di una famiglia farebbe bancarotta. Signor marchese, è per me una bella soddisfazione. Una rivincita!”.
Insomma, è imbarazzante che alla politica si chieda solo onestà. E’ ben vero che i fatti indicano malaffare e corruzione, ma che la folla invochi onestà non mi piace, e mi sembra una prova ulteriore di una schizofrenia davvero pirandelliana. Io non credo affatto che gli elettori siano migliori degli eletti, e sono quindi persuaso che il popolo italiano di oggi, quello vero e reale, non quello idealizzato da mitografia o retorica, sia rappresentato in maniera esatta, paradossalmente “onesta” dai suoi politici ed amministratori.
Cominciamo dalle tasse. Specie a sinistra, dove il tema dell’invidia sociale viene sempre utilizzato con grande successo, si fa un gran parlare di evasione fiscale, confondendo barbieri con banchieri, piccole partite IVA con società di capitali, ma l’onestà del contribuente italiano, generalmente, si ferma sull’uscio di casa propria. Sono alcuni milioni gli evasori del canone televisivo, specie a Sud (De Magistris, falli pagare che poi cantiamo Bella Ciao insieme!) e legioni sono i lavoratori che scelgono il nero, numerosi almeno quanto gli sfruttatori di immigrati. Abbiamo un numero enorme di cooperative finte, che lucrano sull’elusione fiscale senza beneficare i soci “comuni” o i dipendenti. Scagli la prima pietra chi non ha trattato lavori o prestazioni professionali senza fattura per reciproco interesse delle parti.
Quanto ai benefici goduti senza averne diritto, l’elenco è così sterminato da evitare esempi per carità di Patria. Anzi, uno lo faccio: anni fa, rappresentavo un partito di opposizione in un municipio di Genova ed ero nel comitato di gestione delle scuole comunali. Persone di tutti i ceti e di ogni condizione, italiani e stranieri, dichiaravano palesemente il falso pur di ottenere la tariffa ridotta o la gratuità della mensa o della retta. Ho visto padri amorevoli dichiarare di non mantenere il proprio figlio, coppie felici affermare di essere separate e tanto altro. Sapevano che la capacità di controllo era pressoché zero: solo una segnalazione alla Polizia Municipale, che ha altro da fare e poteri limitatissimi. Cosi è, se vi pare, ed il piacere dell’onestà vale per gli altri. Siamo intransigenti con il prossimo, assai di manica larga quando la cosa riguarda noi, e troviamo giustificazione a tutto. Dottori ha la Chiesa, dicono in Spagna, menti brillanti capaci di giustificare qualunque nefandezza con sofismi sempre nuovi.
Come possiamo pretendere dai politici comportamenti irreprensibili, se la corruzione, anche la più spicciola, è tanto diffusa e ci riguarda personalmente? Disonesti sono gli altri perché non sappiamo più, o non vogliamo, giudicare le nostre stesse azioni. Immanuel Kant era certo un grande filosofo, ma un inetto nella vita comune: senza la sorella, forse sarebbe diventato un barbone nel gelo di Koenigsberg, ma quel suo principio “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” ha fascino, ma è fuori dalla realtà. L’uomo, certo, possiede gli strumenti intellettuali per perseguire il bene, ma senza un fine morale esterno non sa vivere che nel male, che la cultura ebraico cristiana chiama peccato.
Siamo materia, intelletto, spirito, ma se conta solo la materia, il bene ed il male non esistono più, l’autonomia morale ci porta al tornaconto, alla disonestà. Il personaggio di Raskolnikov in “Delitto e Castigo” ne è l’emblema. Il giovane pietroburghese uccide una sordida usuraia senza un vero motivo, per affermare la sua soggettività sciolta dai principi correnti, il suo essere legge a se stesso. Attraverso Sonia, prostituta per bisogno, incontra l’amore e l’Altro, e, catturato, comprende che deve pagare il conto del male fatto. Il romanzo termina con il protagonista che va ad espiare la sua pena, sicuro che Sonia lo aspetterà, e ci sarà per entrambi, dopo, una vita nuova.
Per moltissimi, non è così, il conto, con o senza fattura, si deve evitare ad ogni costo. Prendi i soldi e scappa, come il titolo del film di Woody Allen. O, per rimanere alla cinematografia, la cifra del presente è quella della “tragedia di un uomo ridicolo”, Ugo Tognazzi alias Primo Spaggiari, che di fronte al rapimento del figlio, cerca di truffare i rapitori per salvare la sua fabbrichetta in crisi. Di che cosa stiamo parlando, quindi, se poniamo una generica “onestà” in cima ai programmi politici, ma non cambiamo di una virgola il nostro gretto materialismo, non facciamo più alcun esame di coscienza, non cerchiamo di essere migliori ed onesti soprattutto nella nostra vita individuale e sociale, per poi immaginare, progettare e realizzare i cambiamenti sociali.
La favola della volpe e dell’uva di Esopo sembra scritta per l’italiano contemporaneo: molto spesso l’intransigente onestà pretesa dagli altri non è che la frustrazione per non essere al loro posto. In psicologia sociale si chiama dissonanza cognitiva. In tutti gli ambienti, la competizione per la carriera si basa sulla maldicenza, l’opportunistica adesione ai modelli dominanti, la ricerca dell’appoggio o della tessera “giusta”, la pratica di forme sempre nuove di disonestà. Tuttavia, pretendiamo dai giustamente disprezzati politici di essere irreprensibili, migliori di noi.
Nel merito, poi, l’onestà non è un programma politico. Forse, non ruberanno, e questo è bene, ma che cosa vogliono fare? Per ora, sappiamo che un assessore della nuova giunta romana, il professor Berdini, è un sostenitore dell’abbattimento di Via dei Fori Imperiali. Un entusiasta sostenitore di De Gaulle gridò al passaggio del generale: “A morte tutti cretini”. Il generale rispose: “Vasto programma, giovanotto”. Senza un progetto per il futuro, un’idea di città, di Italia, di mondo, tutto diventa cronaca, colore, moda. E se non si rompe con il sistema, non sarà l’onestà personale a cambiare le cose.
Senza una morale comune, che può venire solo da principi comunitari condivisi, il ritorno della vita spirituale “in interiore homine”, il ripristino della legge naturale, dunque della legittimità secondo coscienza ed intelletto, e non la banale legalità di un mondo che, ovviamente, detta le regole per la propria riproduzione e conservazione, non certo per affermare un’idea di bene, vietata dal liberalismo di tutti i colori e dai cascami del postmarxismo occidentale, onestà è parola altrettanto vuota che democrazia, libertà, progresso. Contenitori all’interno dei quali ognuno pone la sua soggettività verità.
Nello specifico politico dell’attualità, poi, l’onestà del movimento di Grillo si infrange contro un paio di scogli piuttosto seri. Chi controlla, in nome della conclamata “trasparenza” la mitica rete, il sistema operativo Rousseau inventato dai Casaleggio, che dovrebbe risolvere tutti i problemi, come l’Elisir d’Amore di Donizetti? E la famiglia Casaleggio, che cosa rappresenta, una dinastia di eminenze grigie o una forma postmoderna di monarchia ereditaria con tanto di legge salica? Anche il nome Rousseau mette i brividi, perché il pensatore ginevrino, straordinario esempio di incoerenza personale rispetto all’opera scritta, teorizza una “volontà generale” che sa tanto di follia giacobina alla Robespierre. Peraltro, anche l’Incorruttibile, devoto alla Dea Ragione, inventore del nuovo calendario illuministico, si imbatté in qualcuno più radicale di lui, e ci rimise la testa. C’è di più: nell’orgia di idee rimasticate, i grillini parlavano di uscire dall’Euro o dall’Unione; adesso silenzio, anzi, corsa ad essere accettati nei salotti buoni, con la cravattina in tinta di Luigi Di Maio e la benedizione di alcuni settori dei poteri forti. Oppure, la vaga promessa di referendum, disonesta se non se ne chiariscono gli scopi veri e non si prende posizione, oltreché da chiarire sul piano giuridico. Una volta ancora, di che cosa stiamo parlando?
L’onestà cui aspirano sembra avvicinarsi alle pedanti raccomandazioni di Benjamin Franklin, la cui etica del mercante lo spingeva a non “sprecare tempo” in attività inutili (ragionare è una di queste), essere corretti e precisi negli affari perché “conviene”. Nessuna vera critica ad una realtà in cui prevalgono i numerosissimi Padron ‘Ntoni dei Malavoglia di Verga, attaccati solo alla “roba”, o gli ipocriti, che seguono la corrente, per la quale l’onestà è un vocabolo omnibus, a definizione libera.
Il vecchio, intramontabile vocabolario Zingarelli definisce l’onesto “chi ha onore”; tale è la radice latina, che richiama l’onus, il peso che si porta. Sì, perché l’onestà è un peso: costringe a non essere egoisti, a ragionare contro i propri interessi, spesso ad anteporre le ragioni altrui alle proprie. Quello è anche il concetto antico, rimosso, deriso dell’onore. Un intellettuale laico di scuola torinese “azionista”, seguace di Norberto Bobbio, Maurizio Viroli, lo definì spregiativamente un concetto premoderno. Aveva ragione: assai meglio l’immagine, ciò che sembra, appare, abbaglia, come il bel vestito, o il brutto, ma reso invidiabile come chi lo indossa dal marchio, dall’adesione acritica e cretina ad altri disonesti, quelli del consumismo!
Non posso immaginare come possa essere onesta una civilizzazione che vive di pubblicità, ovvero di cosciente manipolazione della realtà, e di competizione economica, dove ogni bassezza è ammessa pur di conquistare quote di mercato. Il punto è che per milioni di connazionali – e di europei – onestà è fare la raccolta differenziata dell’immondizia, non fumare in luogo pubblico, anzi non fumare affatto, inondare la quotidianità di regole e divieti per un mondo pulito come le stoviglie lavate con Mastro Lindo, batteriologicamente puro quanto certe acque minerali. Mi vengono in mente quelle persone che, mentre degustano una bresaola (marchio valtellinese, carne brasiliana) o una spigola al vapore, cibi energetici, salutari e leggeri, anzi light, danno degli assassini ai cacciatori, squittiscono se un genitore dà uno scappellotto al figlio, piangono per i morti del terrorismo islamico, ma se ne fregano delle stragi mostruose perpetrate nelle guerre promosse dagli Usa. Ma loro sono buoni ed antirazzisti, i cattivi, come sempre, gli altri.
E’ un’onesta igienizzata ed inutile, ed intanto in italiano se diamo del “dritto” a qualcuno, vogliamo enfatizzarne non la moralità o la probità, ma la capacità di farsi abilmente i fatti suoi. Sono persuaso che il pirandelliano “piacere dell’onestà” nulla abbia a che fare con un moto dell’animo, ma sia uno dei tanti rivoli della montante ipocrisia sociale, con l’indubbio vantaggio di porre se stessi dalla parte dei buoni, dei giusti, dei malcapitati in un mondo crudele, ma crudele solo quando non siamo noi a vincere la partita. Pirandello allo stato puro: in tutti noi c’è un doppio, più virtuoso di quello reale, Uno, nessuno e centomila. Ciò che pretendiamo dagli altri è, di regola, quello che non riusciamo ad ottenere da noi stessi, e che, molto raramente tentiamo davvero di raggiungere. Onestà pubblica ed altrui invocata, pretesa perché le nostre sconfitte esistenziali sono colpa degli altri, della società, del destino, del cattivo di turno, come nello splendido “Siamo uomini o caporali ?” di Totò.
Luigi Pirandello esordì nella grande letteratura, e forse nella filosofia, con Il fu Mattia Pascal, del 1904. Fallito sotto tutti i punti di vista, Mattia diventa Adriano Meis, ma passata l’iniziale euforia, ben poco cambia. Non si fugge da se stessi, a meno di cambiare davvero pelle. Non sembra che gli italiani abbiano questa intenzione: oggi sembra che, con il solito spirito gregario, l’Andrea Meis di turno sia a Cinque Stelle.
Il potere vero lo sa, lo ha capito, e ce li ha mandati tra i piedi, ultimo jolly nel mazzo dei grandi architetti dell’universo… Finora, hanno vinto sempre, cambiando cavallo o fantino, persino ippodromo. Al Casinò di Sanremo, almeno c’è una possibilità su trentasette che la pallina rotoli sul numero giusto… Altro che onestà, altro che bella ciao!
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