In un momento come l’attuale, in cui la cancellazione delle identità è obiettivo perseguito dal potere, a partire dalla negazione dell’appartenenza comunitaria e dell’identità sessuale, è naturale che si generino sane reazioni, e che alcuni studiosi tornino ad interrogarsi sulle radici della civiltà europea. Ed è scontato che ciò avvenga, innanzitutto, in Italia, dove la Tradizione romana è stata punto di riferimento significativo in termini spirituali e politici, per tutto il Novecento, per l’avanguardia intellettuale. Segnaliamo in questo ambito di studi, un recente libro che raccoglie una serie disparata di saggi di Giuseppe Parisi. Ci riferiamo a, Itinerari e migrazioni. La diffusione di divinità e tecniche metallurgiche nel Mediterraneo, edito da Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis (per ordini: 06/5755119, fraternitasaurigarum@gmail.com). Lo studioso, deceduto una decina di anni fa, siciliano d’origine, ma romano d’adozione, attraverso la frequentazione di Pericle Perali e grazie ad una esistenza dedita alla esegesi biblica e della tradizione romana, si è servito del metodo d’indagine “archeologico letterario”, mirato a far luce sugli aspetti più reconditi del mondo Antico.
A ricordarcelo con pertinenza argomentativa è il curatore del volume, Alessandro Barilà, nell’Introduzione. L’opera è presentata da Ennio Innocenti. In cosa consiste, dunque, il metodo di Parisi? Innanzitutto, nella disamina di fonti originarie,
L’autore muove dalla polivalenza del concetto di divinità nel mondo antico. Nel divino i popoli classici leggevano una dimensione mistico-spirituale, ma includevano in essa anche il momento etico-rituale e una parte dell’attività pratica. Muovendo da tale presupposto interpretativo, Parisi pensa le divinità quali trasfigurazioni mitiche di lavorazioni tecniche, senza che ciò determini una reductio del superiore all’inferiore, dello spirituale al materiale. Due sono i precedenti cui egli si richiama: da un lato Giorgio de Santilliana e Hertha von Dechend che ritennero il mito, oltre che luogo del precedente autorevole, del paradigma esistenziale etnico, veicolo essenziale per trasmettere conoscenze concrete. Dall’altro Luc Benoist, che sostenne il vocabolario di base dell’umanità essere fondato sul riferimento a gesti scomparsi di antichi artigiani. Le arti, in illo tempore, furono connotate dal segreto iniziatico. Ecco così svelato il significato del titolo del libro. Parisi presenta “…la diffusione delle tecniche metallurgiche più avanzate e dei connessi valori iniziatici in tutto il Mediterraneo, fino a Roma” (p. 12). L’incipit di tale processo diffusivo va individuato nella città di Troia, la cui potenza discese dalla conoscenza e controllo delle tecniche metallurgiche, originariamente diffuse dai Sacerdoti Cabiri, attraverso i Pelasgi, nel bacino del Mediterraneo. La distruzione di Troia determinò la traslazione della sua tradizione spirituale verso l’Italia, evento del quale fu protagonista Enea. Il mito di Enea non è da interpretarsi quale tardiva invenzione giustificatrice della propria potenza da parte dei Romani, in quanto è attestato già da fonti antiche etrusche e greche.
Enea è nome che implica ed allude, assieme all’obbedienza al fato, la trasmissione di cognizioni tecniche segrete che furono applicate presso i templi di Ariccia, di Reggio Calabria e del “Facellinum” in Sicilia. Come ricorda Parisi, tra i pignora imperii, tra le garanzie della supremazia romana, dovevano essere annoverate anche le “ossa di Oreste”, vale a dire i saperi inerenti il processo atto a trasformare il ferro in acciaio. Tale tradizione mitica confligge con la vulgata che vuole la Roma delle origini abitata da semplici pastori ed agricoltori. L’agro romano non era di certo, all’inizio, come le ricerche più accreditate hanno messo in luce, particolarmente fertile. Per l’approvvigionamento del grano la Città Eterna doveva ricorrere agli Etruschi e alle colonie greche. Per la potenza romana fu essenziale il controllo del Tevere, importantissima via navigabile. Lungo il fiume, chiatte e battelli non trasportavano prodotti cerealicoli ma manufatti artigianali tessili e, soprattutto, metallurgici. Del resto, studi accademicamente accreditati, hanno confermato che la gerarchica organizzazione militare di Roma si forgiò parallelamente alla sua struttura produttiva. In tal senso “…i collegia opificum et fabrorum istituiti da Numa Pompilio sono una conferma della…antichità dell’organizzazione industriale di Roma” (p. 18). Da ciò il grande rilievo avuto nel culto romano da Veturio Mamurio, l’Antico Fabbro, che produsse undici ancilia identici al primo, caduto dal cielo.
Pertanto, stando a Parisi, la rilevanza dell’agricoltura presso i Romani deve essere valutata in modo diverso dal consueto, quale significativo retaggio religioso delle popolazioni autoctone che vivevano nella Saturnia tellus. In ogni caso, con Roma il mito si fa storia: solo l’osservanza rigorosa della pratica dei rituali e dei principi religiosi era garanzia del rafforzamento della potenza romana. Con Dumezil, l’autore e Barilà, leggono la religione romana quale illustre esempio di religione sociale: era praticata dall’uomo, in quanto membro della comunità. Ciò è sicuramente condivisibile, così come la difesa della libertà nella mentalità religiosa romana. Chi scrive però non può condividere la netta separazione, colta dall’autore, che distinguerebbe la religione ellenica da quella romana. Tale posizione implica un pregiudizio erroneo, simile a quello antiromano introdotto da certa cultura tedesca, il pregiudizio antiellenico. Ancor più risolutamente dissentiamo dalla lettura in continuità, sostenuta da Barilà, tra religiosità romana e cristianesimo. Egli infatti con De Giorgio sostiene al riguardo “L’universalità dello spirito di Dio…subentra all’universalità dell’Impero” (p.28). Per noi, al contrario, il cristianesimo ha rappresentato una cesura senza precedenti in quel mondo: dalla città del vir, si passò alla Città di Dio.
Nonostante queste non secondarie divergenze esegetiche, il libro di Parisi fornisce stimoli e spunti interessanti per la comprensione del mondo antico.
Giovanni Sessa
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