9 Ottobre 2024
Filosofia Libreria

Itinerari non opere: i sentieri interrotti di Cioran – Giovanni Sessa

Emil Cioran. A questo nome, nei salotti dell’intelligencija europea, si associano definizioni che, per la loro ripetitività, stanno diventando scontate. Scrittore elegante, cantore del nulla, intellettuale isolato. Ma Cioran fu uomo, oltre che pensatore, che i cliché ideologici non possono descrivere nella sua reale essenza. Anzi, di fronte a lui o alla sua opera, i criteri definitori devono essere evitati. Un inclassificabile. D’accordo, ma un inclassificabile che fa pensare. Pochi, infatti, tra i creatori del Novecento, possono vantare la radicalità dell’intellettuale romeno e la sua profondità di visione. Un recente volume aiuta a decodificare i tratti peculiari della sua umanità e della sua visione del mondo. Mi riferisco al prezioso lavoro di Gabriel Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita. L’Apocalisse secondo Cioran (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, euro 15,00), volume curato da Antonio Di Gennaro che, in Appendice, presenta l’ultima intervista filmata rilasciata dallo scrittore e quella alla sua compagna, Simone Boué.

Si tratta di un testo che permette al lettore di entrare nella viva carne dell’esistenza di Cioran, di avere in qualche modo accesso, stando all’etimo latino di esistenza, al suo «stare fuori».

L’intellettuale transilvano fu fondamentalmente questo: un nostalgico dell’origine e, quindi, dell’infanzia, di una vita piena e persuasa che, durante la giovinezza pensò di poter ri-conquistare trasformando il pensiero in azione, aderendo alla prassi politica del fascismo mistico della «Guardia di Ferro» di Codreanu, capace di trasfigurare spiritualmente e storicamente la Romania. Successivamente, preso atto che si trattava di un’ impossibilità di fatto, alla pienezza esistenziale rinviò attraverso un sottile ma pervicace lavoro su se stesso, trascritto nella prosa, della quale, il lettore accorto, rileva il tratto salvifico e terapeutico. Lo scrivere fu per il filosofo romeno ‘cura’, lenitivo dell’anima e dei suoi tormenti.

Al laboratorio esistenziale e teoretico di Cioran, Liiceanu ci avvicina con particolare accortezza descrittiva. La sua prosa è fedele al dato storico-biografico ma, al medesimo tempo, è ricca di suggestioni narrative e romanzesche. Inoltre, l’autore si avvale di un vasto e suggestivo repertorio fotografico che ci conduce nei luoghi più significativi della produzione cioraniana, facendoci incontrare i suoi sodali. A cominciare dal paese natale Răşinari, heimat nostalgicamente anelata dallo scrittore transilvano nel corso della sua lunga esistenza da meteco. La cittadina «maledetta e splendida», nella trasfigurazione anamnestica, manifesta i suoi luoghi elettivi. Innanzitutto la strada dell’infanzia, che si apriva sulla destra con la casa avita: «Dalle finestre delle tre camere si vedevano i noci […] e il fiume Caselor» (p.15) e, più in là, comparivano i rilievi, collocati in un paesaggio da idillio pastorale, della collina Coasta Boacii: lungo i suoi sentieri, nelle diuturne escursioni, Emil sperimentò la fortissima attrazione per la natura. Nell’opera matura, egli fece corrispondere all’elogio dell’infanzia perduta: «l’esaltazione diretta degli stati precognitivi, propri alla fase antecedente alla caduta nel tempo, nell’ordine mitico […] dell’unione con la natura, in opposizione alla vita civilizzata, nell’ordine umano» (p. 17).

La «caduta» dal paradiso di Răşinari avvenne nel 1921, quando il giovane si trasferì a Sibiu per frequentare il liceo. Qui fu raggiunto nel 1924 dal resto della famiglia. Sui banchi di scuola maturò la passione per la filosofia, in quanto egli stesso ricordò: «Da giovane mi attraevano soltanto i bordelli e le biblioteche» (p. 21). La filosofia, soprattutto tedesca, fu al centro degli studi del periodo universitario. Si laureò discutendo una tesi sull’intuizionismo bergsoniano, anche se, in conseguenza dello stato di insonnia permanente che lo affliggeva, si rese conto che la filosofia non poteva fornirgli le risposte di cui era in cerca. Da allora guardò alla vita, alla follia quotidiana, mettendosi alla disperata ricerca di se stesso, come i filosofi autentici, che dei sistemi, e delle loro ‘vie brevi’, non sanno che farsene. Si pose, così, proprio come Heidegger, sulle tracce di un itinerario di vita e pensiero, non badando alla stesura di un’opera risolutrice. Un itinerario indicato da tracce e segnavia dal carattere allusivo. In tal senso, il suo percorso: «Non sviluppa un’idea, ma un’ossessione» (p. 33).

A Bucarest, nel caffè Capşa, incontrò gli intelletti inquieti di Eliade, Ionesco, Brauner, gli esponenti di quella «Giovane Generazione» che, di lì a poco, svolgerà un ruolo di primo piano nella cultura europea. Recatosi a Berlino per una borsa di studio, Emil seguì le lezioni di Ludwig Klages: «l’uomo più compiuto conosciuto finora» (p. 39), maturando un’attrazione fatale per l’hitlerismo che lo indurrà a condividere le posizioni del compatriota Codreanu. Solo nel 1937, arrivato con altra borsa a Parigi, iniziò un ripensamento profondo della propria identità. Infatti: «Il passaggio ad un’altra lingua e l’adozione definitiva di un’attitudine scettica, sono il risultato di un regolamento di conti interiore» (p. 43). L’ultima opera in romeno, Il breviario dei vinti, fu pensata nella solitudine della vita parigina da bohémien, che accentuò il suo sentimento di estraneità. In questa fase, maturò la decisione di scrivere in francese. Se la lingua è la «casa dell’essere», la rottura con la lingua patria, è simile ad una morte iniziatica: ci si libera dell’uomo vecchio per dar luogo ad un nuovo inizio. Finalmente, nel 1947, terminò il primo libro in francese, Il sommario di decomposizione.

Cioran, con quelle pagine dichiarava di trovarsi: «più al sicuro accanto a un Pirrone che a un san Paolo» (p. 60). Come dargli torto! La Francia, patria dello scetticismo aristocratico di Montaigne, lo accolse benevolmente: arrivò l’agognato successo, dai cui eccessi Cioran fuggì, ritirandosi, assieme a Simone Boué, nella «gabbia» di rue de l’Odéon 21. Del resto, uomo libero, l’intellettuale romeno, fece della povertà uno stile di vita, una necessità da scontare per difendere l’indipendenza della propria opera. La sua anima si specchiò in Parigi, «città stanca», simbolo della decadenza europea, nella quale l’io crepuscolare cioraniano trovò «tollerabile» vivere. Cioran è stato una delle intelligenze più lucide del secolo breve. Il suo confronto con la morte e il nulla è anti-retorico, come del resto lo è la morte, data la sua singolarità. Il morbo di Alzheimer gli fece percorrere l’iter della sua vita a ritroso, lo ricondusse all’heimat, all’infanzia perduta, attraverso una porta forse inaspettata. Ce lo auguriamo per lui, ma anche per noi, che con Cioran condividiamo l’attesa dell’impossibile persuasione.

Giovanni Sessa

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