“Tradizione” e “tradizionalismo” non sono affatto la stessa cosa, non fosse altro perché il tradizionalismo è un atteggiamento moderno che non si riscontra in quelle che possiamo chiamare società o culture tradizionali.
Per capire quanto profonda sia la frattura fra questi due concetti, forse la cosa migliore da fare, è quella di esaminare in quale misura il grande mitologo della nostra epoca, John R. R. Tolkien, l’autore del Signore degli anelli, abbia frainteso la mitologia tradizionale che ha utilizzato in larga misura nelle sue opere. Tolkien è anche un esponente direi classico di quell’orientamento di pensiero che chiamiamo tradizionalista, e dunque è possibile allargare il discorso ed esplorare lo scarto che esiste fra tradizione e tradizionalismo.
Le culture tradizionali, ha osservato qualcuno, sono quelle in cui non esistono tradizionalisti; ci si potrebbe spingere più in là affermando in modo provocatorio che sono quelle dove non esistono neppure tradizioni. Quello che esiste sono consuetudini, usi, modi di pensare, valori etici e persino estetici largamente condivisi che connotano a colpo d’occhio le varie culture e sono fatti propri dalla pressoché totalità dei loro membri. Il concetto di tradizionalismo nasce precisamente nel momento in cui questa unità si rompe.
Un esempio paradigmatico in questo senso è rappresentato dallo scintoismo. Per secoli, forse per millenni la religione tradizionale giapponese non ebbe neppure un nome: era semplicemente l’insieme dei culti riservati agli dei, agli antenati, alla figura dell’imperatore, figura-ponte di origini divine fra la Terra e il Cielo. Fu solo con l’arrivo dei missionari buddisti nelle Isole Nipponiche, che si coniò il termine “shinto” per indicare la “vecchia fede”, la tradizione, l’insieme delle credenze tradizionali in opposizione alla nuova dottrina.
Il concetto di tradizione nasce nel momento in cui seguire i valori e i costumi degli antenati non è più una consuetudine spontanea semplicemente perché non si concepisce un orizzonte alternativo a essi, ma diventa una scelta consapevole.
Nella nostra epoca moderna si può, si deve, inoltre parlare di tradizionalismo nel momento in cui la scelta e il riconoscimento della tradizione alla quale si appartiene diventano problematici, quando tocca confrontarsi con tradizioni in conflitto o con idee di tradizione in contrapposizione talvolta inconciliabile.
John R. R. Tolkien era, e questa è una chiave di lettura della sua personalità e della sua opera che non può essere omessa, un cattolico, uno dei rari cattolici britannici, e chiaramente in conseguenza di ciò, un cristiano. Vale a dire che egli può bensì essere considerato portatore di un pensiero “tradizionalista”, ma non assolutamente tradizionale, poiché, a parere di chi scrive, sebbene la “tradizione cristiana” sia divenuta maggioritaria nel cosiddetto “mondo occidentale” (che comprende oltre all’Europa, e oggi in posizione dominante, le Americhe, vale a dire l’anti-tradizione incarnata se mai ve n’è stata una) essa rimane nondimeno rispetto alle nostre radici europee una “tradizione” spuria.
“Esiste, inoltre, un “tradizionalismo” in senso lato nel quale si riconoscono appartenenti singoli o gruppi, diversi in quanto a impostazione e tendenze, ma accomunati da un pronunciato antagonismo nei confronti del mondo moderno (…).
E’ comune alle varie tendenze del “tradizionalismo” (cultural -politico e/o spiritualista) la tensione verso il recupero di un’identità “spirituale” dai contorni in genere mal definiti, non-confessionale, caratterizzata dal sincretismo in campo religioso e, spesso, da una componente marcatamente anti-cristiana”
[Mario Polia: Che cos’è la tradizione, “Minas Tirith” n. 13, Società Tolkieniana Italiana, Udine 2005].
Per l’ennesima volta, a lato delle parole di Polia metterei quelle contenute nel Documento controverso per eccellenza che ho tante volte citato, la famosa intervista di Maurizio Blondet a Massimo Cacciari:
“Il Cristianesimo è stato dirompente rispetto ad ogni ethos” (…). Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (…). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell’Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L’ethos antico era una religione civile (…). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l’uomo”.
E soprattutto, con ancora più forza e convinzione, le parole di Richard Wagner:
“Per quanto l’innesto sulle sue radici di una cultura che le è estranea possa avere prodotto frutti di altissima civiltà, esso è costato e continua a costare innumerevoli sofferenze all’anima dell’Europa”.
Parole che dovrebbero essere incise in bronzo su ogni muro!
Tanto per avere le idee ancora più chiare a questo proposito, cito una circostanza riferita dal giornalista Corrado Augias nel libro I segreti del Vaticano: l’Opus Dei, la potente organizzazione cattolico-affaristica raccomanda ai suoi affiliati la lettura del Signore degli anelli.
Da un certo punto di vista, la faccenda è o dovrebbe essere molto chiara: Mario Polia è un cattolico, i tolkieniani sono cattolici, John R. R. Tolkien era un cattolico; dunque si tratta di cristiani che nulla possano avere a che fare con noi.
In realtà la questione è un po’ più complessa di così; rimangono quanto meno da spiegare i motivi per i quali l’articolo di bigotteria tolkieniano è riuscito a esercitare sugli ambienti umani “nostri” una fascinazione che ha dell’incredibile.
L’opera di Tolkien approdò in Italia nei primi anni ’70, più o meno in coincidenza con la dipartita del suo autore da questa valle di lacrime, e la sinistra, una sinistra che allora si credeva egemone e trionfante, attuò nei suoi confronti un ostracismo e un boicottaggio feroce. Non parve vero ad alcuni dei “nostri” di aver trovato un nuovo padrinato intellettuale, soprattutto a quanti si facevano conquistare da facili slogan, che non erano consapevoli o non riuscivano ad accettare il fatto che la via che abbiamo scelto, in questa nostra epoca è necessariamente minoritaria. Fu l’epoca in cui si arrivarono a chiamare i raduni della nostra parte politica “campi hobbit” e simili.
A quell’epoca, Giuseppe Lippi, attuale direttore della mondadoriana “Urania” pubblicò sulla rivista “Aliens” delle edizioni Armenia di cui era allora redattore, un articolo il cui titolo era tutto un programma: Camerata elfo.
Per trasformare Tolkien in un maestro del pensiero “nostro”, occorreva chiudere gli occhi su di un numero impressionante di questioni, sul suo cattolicesimo ostentato (se invece che un inglese fosse stato un italiano, non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a definirlo un clericale), la sua profonda e radicale avversione verso l’Asse, il disprezzo tutto britannico verso gli Italiani (identificati nel Signore degli anelli con gli Haradrim, gli alleati meridionali di Sauron – immaginate allora Sauron chi è, e Mordor, il suo dominio, il regno del “male assoluto” a cosa corrisponde; fra gli alleati umani di Sauron, poi, oltre ai “meridionali” Haradrim vi sono gli Esterling, abitanti di una remota terra orientale, ma davvero avete bisogno di indicazioni più chiare di queste?), l’antipatia di Tolkien per il mondo celtico inteso come cultura radicalmente europea non tributaria in alcun modo di influssi mediorientali e che i Celti odierni fanno finta di dimenticare, da parte di un animo piamente cristiano che in fondo di europeo aveva poco. E’ noto che Tolkien ha negato rabbiosamente più volte che Il signore degli anelli avesse a che fare con alcunché di celtico, ispirandosi invece al finnico Kalevala.
Altro fatto su cui si doveva glissare alla grande, è che la biografia di Tolkien non ce lo fa vedere come un “maestro della tradizione” molto credibile, ci rivela piuttosto un uomo la cui personalità ha mantenuto dei marcati tratti infantili. Quando lui e la donna che poi sposò erano fidanzati, pare che il loro maggiore divertimento consistesse nel sedersi ai tavolini di un bar e lanciare zollette di zucchero contro i passanti. Non parliamo delle prodezze di Tolkien al volante; pare che la sua filosofia automobilistica consistesse in: “I pedoni, quando li punti si scansano”.
Altra circostanza che i “camerati” che hanno eletto Tolkien a maestro e guida fanno spesso finta di aver dimenticato, è che la sinistra che oggi non si sente più egemone come negli anni immediatamente successivi al ’68, successivamente ha cercato in ogni modo di porre rimedio all’errore “recuperando” Tolkien con risultati invero grotteschi; si è cercato ad esempio di far credere che egli, che era nato in Sud Africa da famiglia inglese temporaneamente lì stabilita, avesse partecipato alle manifestazioni contro il regime dell’apartheid (oggi grazie alla vittoria della democrazia, provvidenzialmente sostituito dal regime del genocidio della popolazione bianca, ma di questo – ovviamente – si parla molto di meno).
Fosse stato vero, l’autore del Signore degli anelli avrebbe dimostrato davvero una precocità straordinaria, poiché quando la famiglia rientrò in Inghilterra, aveva solo due anni. Il punto non è tanto che la sinistra non abbia il senso del ridicolo, lo sapevamo già da un pezzo, ma il fatto che se si è pensato di “recuperare a sinistra” Tolkien, questi deve quanto meno presentare delle ambiguità. Forse che qualcuno ha mai cercato di imbastire un’impresa del genere su Drieu La Rochelle, Brasillac, Celine, Ezra Pound o anche Gabriele D’Annunzio?
A gettare sul tutto una luce ancora più strana, è il fatto che negli stessi anni in cui in Italia Tolkien era scoperto dai “camerati” che facevano i “campi hobbit”, Il signore degli anelli riceveva negli Stati Uniti una “lettura” decisamente di sinistra e diventava “la bibbia” degli hippy californiani.
Bisogna però essere onesti e spezzare una lancia a favore dei camerati che non sono così ingenui come forse sembrerebbe. Che Tolkien sia stato così mal accolto dalla sinistra quando la sua opera apparve in Italia, non è certo il solo motivo del fascino che subito esercitò sul fronte opposto, “nostro”. Per capirlo, basta scorrere l’introduzione di Quirino Principe alla prima edizione (Rusconi) del Signore degli anelli. Quel riferimento a “valori atemporali, eterni e quindi più presenti a noi del presente”, smuoveva leve potenti nell’animo di ciascuno di noi. C’era di che restarne affascinati; solo una più attenta lettura del romanzo, una conoscenza del resto dell’opera dello scrittore anglo-sudafricano e una robusta preparazione basata su elementi precedenti e differenti, potevano far sospettare che le cose stessero in una maniera un po’ diversa, che – come dice il proverbio – non è tutto oro quello che luccica.
Penso che quello che ho da dire non sarà gradito ai tolkieniani, ma io credo che sia difficile trovare uno scrittore o un uomo qualsiasi in più profonda contraddizione con se stesso di quanto non lo fosse John R. R. Tolkien. Egli dichiarava avversione per il celtismo, eppure elementi celtici emergono in quantità dalla sua narrativa; si professava cristiano, eppure il tipo di visione del mondo e di etica che è possibile desumere dai suoi romanzi, è tutto meno che cristiano.
Del celtismo che interpretava solamente come separatismo scozzese, gallese, nord-irlandese, Tolkien aveva un’idea ristretta, e da leale suddito britannico, lo detestava, eppure tutta la sua narrazione rigurgita di elementi celtici: non sono solo le figure di elfi, nani, orchi e troll direttamente provenienti dalla mitologia celtica attraverso il folclore popolare; c’è anche la figura di Gandalf, straordinariamente simile a quella di un druido, e si pensi all’anello di Sauron, un Graal di segno capovolto, non da trovare ma da perdere o distruggere.
L’etica di Tolkien non è cristiana, è di tipo eroico, tradizionale, guerriero, indoeuropeo, che non comanda di porgere l’altra guancia ai nemici, ma di combatterli con le armi in pugno. Tuttavia l’astuzia tolkieniana consiste proprio in questo, nel presentarla costantemente mescolata con simboli e concetti cristiani, in modo da esercitare una fascinazione su chi per inclinazione naturale sarebbe portato a rifiutare il deleterio e anti-vitale spirito del cristianesimo, così ben evidenziato ad esempio da Nietzsche.
Se esaminiamo nel Signore degli anelli la figura di Gandalf, vediamo facilmente che è modellata su quella di Merlino, e assomiglia molto di più a un druido che non a un sacerdote cristiano.
Consideriamo un attimo il rapporto fra Gandalf e Aragorn, è una relazione che implica la pari dignità dell’autorità sacrale “druidica” di Gandalf con quella regale e guerriera incarnata da Aragorn. Questa concezione va contro il cristianesimo che non ammette che le altre funzioni, diverse da quella sacerdotale, possano avere una dignità e tanto meno una sacralità autonoma, ed è invece consonante con la tradizione indoeuropea e celtica. Questo diverso segno si vede bene nella parole del Merlino di Excalibur di John Boorman (diamo per scontato che Merlino è l’erede della tradizione druidica e che Boorman ha reso bene quanto meno lo spirito del personaggio) che incoraggia Artù dicendogli: “Eppure hai estratto la spada dalla roccia, io non avrei potuto farlo”.
Il potere magico-druidico ha dei limiti che la regalità sacrale può oltrepassare. Artù e Aragorn sono, come il re celtici “figli di Lugh”, portatori di una regalità sacrale che Merlino e Gandalf possono riconoscere e garantire, ma non creare attraverso una consacrazione.
In diversi precedenti articoli mi è capitato di definire Tolkien un “celta suo malgrado”, un giudizio che non vedo alcun motivo di modificare. Per quanto ciò possa dispiacere ai moderni esegeti di Tolkien di impostazione cattolica, considerando i tratti druidici della figura di Gandalf e la concezione della regalità sacrale incarnata dalla figura di Aragorn, potremmo dire che l’autore del Signore degli anelli è stato anche un pagano suo malgrado. Sicuramente questo paganesimo che emerge a dispetto dell’intenzione cosciente di Tolkien, è alla base del successo che Il signore degli anelli continua a riscontrare negli ambienti “nostri”, perché un camerata che è davvero tale è un “pagano istintivo” anche se talvolta può non esserne consapevole. Tuttavia c’è l’ambiguità complessiva del messaggio e anche quella che non saprei come definire altro che la perversità di Tolkien. Può essere che quest’uomo che detestava ferocemente l’Asse ben al di là di quello che possiamo pensare fosse l’effetto della propaganda di guerra, non si rendesse conto, non fosse mai colto dal sospetto né durante il conflitto né dopo, che proprio questo nemico odiato fosse l’ultima chance di quell’ordine tradizionale dell’Europa che mostrava di amare così tanto e che ha letterariamente incarnato nei cavalieri di Gondor e di Rohan, e che invece la coalizione tra capitalismo americano e comunismo sovietico si apprestava a stritolare?
Sulle ambiguità di Tolkien, questi signori “cattolici tradizionalisti”, i vari Mario Polia, Adolfo Morganti, Paolo Gulisano e – a sentire Augias – tutta l’Opus Dei, ci sguazzano, poiché loro stessi sono degli ossimori viventi. “Cristianesimo”, infatti, è un concetto che fa a pugni con quello di “tradizione”: “cristianesimo” è e rimane il proto-bolscevismo che ha affondato l’impero romano e ridotto le tradizioni europee (quelle vere, che conosciamo complessivamente con il nome di “paganesimo”) sull’orlo dell’estinzione. (ce l’hanno quasi fatta, ma hanno mancato l’obiettivo definitivo: dopo due millenni siamo ancora qui, e ci saremo ancora in futuro, saranno loro a sparire!).
A dire il vero, tanto per la cronaca, l’intellettuale i cui scritti sono maggiormente pubblicati sulle riviste della Società Tolkieniana Italiana, l’ideologo (o forse il cappellano) del gruppo, quello che Paolo Paron fondatore e presidente della STI ha varie volte accostato a Gandalf, non è né Morganti, né Gulisano, né Polia, bensì tale padre Guglielmo Spirito, frate francescano, e penso che già questo dica tutto.
Se tuttavia facessimo risalire agli interpreti italiani di Tolkien tutte le colpe, credo che saremmo fin troppo generosi con questo tutt’altro che limpido personaggio. Occorrerebbe essere un etnologo oltre a conoscere l’opera di Tolkien in dettaglio approfondito per cogliere in maniera sistematica tutti i travisamenti che Tolkien ha compiuto sul patrimonio mitologico e folclorico della tradizione europea, tuttavia al riguardo qualcosa si può dire.
Parliamo ad esempio di una figura del folclore europeo che è diventata centrale nella pseudo-mitologia tolkieniana, quella dell’elfo. Lo scrittore americano ma di origine scandinava Poul Anderson è stato forse l’unico ad avere il coraggio di mettere in rilievo il fatto che Tolkien l’ha del tutto travisata.
“Apprendiamo che quando le navi da guerra [vichinghe] stavano per rientrare nei porti di partenza, si provvedeva a togliere le teste di drago che ornavano le prue, affinché gli elfi non si offendessero. Possiamo così vedere questi esseri quali erano inizialmente: cioè divinità.
(…)
Tolkien volle raffigurarli non solo come esseri bellissimi e sapienti, ma anche saggi, posati, rispettabili, buoni, vere incarnazioni dei migliori sentimenti nei confronti d’ogni cosa vivente (…).
[Ma] fino al IX secolo gli elfi e gli dei avevano un’indole ben diversa”.
Poul Anderson, La spada spezzata, introduzione.
Cosa curiosa, davvero una coincidenza significativa nel senso dato da Karl Gustav Jung a questa parola: pochi giorni prima di ricevere dall’amico Steno una pressante e accorata richiesta di spendere qualche parola di chiarezza sulla persistente fascinazione che l’autore anglo-sudafricano continua a esercitare nei nostri ambienti, mi era capitato di imbattermi in questa questione per tutt’altri motivi, stavo scrivendo un articolo di tutt’altro genere per un sito affatto diverso da “Ereticamente”, un articolo sulle non frequenti tracce celtiche nella musica leggera italiana e, se non si possiede il dono della scienza infusa, quando si fanno certe cose, è sempre meglio prima documentarsi, il che può portare a fare delle scoperte interessanti.
Tra le non molte cose che esistono in questo settore, c’è da menzionare la notissima Scarborough Fair trasformata in un successo mondiale da Simon e Grafunkel, che ha avuto anche una versione italiana ad opera di Angelo Branduardi. Essa deriva da un’antica ballata scozzese, The Elfin Knight (“Il cavaliere elfo”). Ora, la cosa curiosa della versione originale è proprio il fatto che le prove impossibili imposte alla fanciulla (cucire una camicia senza usare ago e filo, lavarla in un pozzo asciutto), lei le deve superare allo scopo di evitare l’accoppiamento con il cavaliere elfo; nel folclore tradizionale gli elfi sono visti come portatori di un elemento soprannaturale che può essere sia benevolo sia ostile, ma con il quale è meglio evitare di contaminarsi.
A questo punto, mi è scattato una sorta di flash mentale: in Tolkien un simile amplesso e l’ibridazione che ne può conseguire sembrano essere qualcosa di estremamente ambito (si pensi a Beren e Luthien, Earendil e l’origine dei re numenoreani, a Elrond, Arwen e Aragorn). Da questo punto di vista, non è difficile scorgere l’analogia con uno dei più irritanti veicoli di propaganda democratica e mondialista (malamente) mascherato da serie di fantascienza televisiva e cinematografica, Star Trek di Gene Roddenberry dove umani e alieni puri sono quasi una minoranza rispetto ai mezzi-questo e mezzi-quello (mezzi vulcaniani, romulani, klingon e via dicendo), anche se noi sappiamo benissimo che il giorno che per ipotesi dovessimo venire in contatto con specie aliene, le probabilità di un incrocio fecondo fra esseri con una storia evolutiva del tutto separata sarebbero inferiori alla possibilità di un incrocio fertile fra un uomo e una carota.
Fuori di metafora, tutto ciò che cos’è se non una perorazione a favore del mescolamento razziale?
Naturalmente, Tolkien non può essere ritenuto direttamente responsabile degli ulteriori fraintendimenti, dell’ulteriore liquidazione della tradizione europea, dell’ulteriore americanizzazione che si riscontra nella versione cinematografica del Signore degli anelli operata da Peter Jackson, ma diciamo che – quanto meno – il messaggio tolkieniano è abbastanza ambiguo da permettere interpretazioni di questo genere, che mirano solo a colpire a morte quanto rimane dello spirito tradizionale europeo, il tutto naturalmente ben impacchettato dentro un’ingannevole confezione “epica” ed “eroica”.
La prima cosa che si nota, è la deformazione in senso femminista della figura di Arwen. E’ un discorso che occorre ampliare, perché non rappresenta per nulla qualcosa di isolato: da un lato, sebbene Jackson sia neozelandese, nella versione cinematografica emerge la tendenza molto americana a deformare con facilità eccessiva, senza alcun rispetto per la verità, i testi letterari nelle varie trasposizioni, ma anche la pura e semplice verità storica, dall’altro la vera e propria invasione che le femministe hanno compiuto nel campo della letteratura di heroic fantasy, che ha come fil rouge l’idea che la donna conquisti la parità con l’uomo se la si suppone equivalente al maschio sul piano della pura forza muscolare, cosa che sappiamo bene che non è, da qui l’inverosimile pullulare di guerriere, di virago armate, da Jirel di Joyry a Xena, a Relic Hunter e ora anche Arwen, e le qualità specificamente femminili, dove sono andate a finire? Queste femministe credono forse di nobilitare la figura femminile trasformandola in una caricatura di maschio e inventando una presenza femminile sui campi di battaglia che obiettivamente è sempre stata del tutto assente fino a tempi molto recenti di guerra tecnologica.
Un altro elemento che si nota subito vedendo la pellicola di Jackson, è che gli hobbit hanno costumi ottocenteschi (anche se poi si trasformano, dovendo indossare mantelli, elmi, spade e corazze), mentre tutti gli altri personaggi sono abbigliati in fogge medievali. Perché questa differenza? Ovviamente, perché nell’Età di Mezzo l’America non era ancora stata scoperta. Una cosa che fortunatamente “si perde” nella versione italiana, è che gli hobbit di Jackson parlano con un accento yankee che differisce da quello britannico degli altri. Perché gli hobbit dovrebbero essere yankee? Io credo che qui il “messaggio” di Jackson amplifichi quello già presente in Tolkien, un messaggio tanto più pericoloso quanto più subliminale.
Gli hobbit per Tolkien sono i piccoli che intervengono a contrastare i Nazgul e a portare l’anello di Sauron al suo destino, quando le mani dei grandi sono impegnate altrove, sono coloro che non hanno una percezione chiara della situazione, ma agiscono seguendo il cuore e l’istinto. Per Jackson devono essere americani per lo stesso motivo per cui lo è Forrest Gump, incarnano il plain man che non comprende ma ha “buoni sentimenti”, pronto a farsi guidare, nella realtà non dagli Istari ma dagli stregoni del potere mediatico.
Un’altra “correzione” di Jackson rispetto a Tolkien è la cancellazione del personaggio di Tom Bombadil. Questa figura che Tolkien ha introdotto quasi per scherzo nel suo romanzo (ispirata a un pupazzo con cui giocavano i suoi figli) è in realtà un’importante archetipo: l’uomo a pieno contatto con la natura, contatto che non ne fa un selvaggio, un uomo ferino, ma un essere semi-divino, che è totalmente immune dall’anello di Sauron e ha il potere di sconfiggere gli Spettri dei Tumuli, una sorta di druido auto-iniziato o un rex nemorensis. Io credo che Tolkien, con le ostie sugli occhi com’era, fosse ben lontano dal comprendere il reale significato di ciò che andava trattando, ma ha evocato comunque una figura “pericolosa” che Jackson ha prontamente censurato dalla versione cinematografica e politicamente corretta, ulteriormente democratizzata del Signore degli anelli.
Di questi ulteriori fraintendimenti Tolkien non ha una responsabilità diretta, tranne per il fatto di essere l’autore di un’opera sufficientemente ambigua da consentire simili interpretazioni, ma in particolare la sua perorazione del connubio interrazziale uomini-elfi ci lascia intravedere la sostanziale continuità fra il “vecchio” cosmopolitismo mondialista cristiano e quello “nuovo” marxista e democratico, non è in nessun senso ciò che ci aspetteremmo da un maestro della tradizione.
Di Tolkien tutti quanti, anche quelli che non hanno letto nemmeno un rigo della sua opera, conoscono una frase famosa: “Le radici profonde non gelano”. Vale la pena di rifletterci un po’. Nella storia europea, appena il cristianesimo ha smesso di essere imposto con la forza, con l’inquisizione, le torture e i roghi degli eretici, è iniziato un processo di scristianizzazione, lento ma inesorabile e con ogni probabilità irreversibile. Le “radici cristiane” dell’Europa gelano; forse non sono molto profonde, forse non sono nemmeno quelle vere.
Per riprendere il discorso iniziale e la distinzione fra tradizione e tradizionalismo, io credo che il discorso di Mario Polia vada esattamente rovesciato. Ai cattolici, Tolkien compreso, forse si può riconoscere un orientamento in qualche modo tradizionalista, ma “la tradizione”, quella vera, ciò che definisce l’identità, le radici inestirpabili di un popolo, di una cultura, di un continente, è altro e altrove, le radici che stanno fuori, oltre, prima e – ne sono assolutamente convinto – DOPO il cristianesimo. Quelle radici per le quali, in riferimento alla propria storia e alla propria cultura, i Giapponesi hanno inventato il bel nome di Shinto, ma che noi, in riferimento a noi stessi possiamo chiamare con un nome inventato per scherno dai nostri nemici, ma che noi abbiamo rialzato e inalberato come la nostra bandiera: PAGANESIMO.
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