Di Fabio Calabrese
A volte mi capita di riflettere su quanto sia assurda e mistificante la terminologia politica che ci definisce “estremisti di destra”. Per prima cosa, che noi non siamo né possiamo essere “di destra”, l’ho spiegato più di una volta e ora non è il caso di tornarci su se non in sintesi estrema: “destra” significa conservatorismo, difesa dello status quo sociale, nulla che ci possa in qualche modo riguardare, ma neppure il termine “estremismo” ci si attaglia in qualche modo.
Se noi guardiamo “all’estremo opposto”, vediamo che questa terminologia risulta pienamente adeguata, nel senso che il “no global”, il “black block” per l’appunto spingono all’estremo un’opzione politica presente in forma man mano più attenuata nel comunista classico, nel socialista, nel socialdemocratico, nel “liberal” nel senso americano del termine, via via discendendo, finché il rosso acceso non sfuma nel rosa pallido e nel bianco centrista, ma noi, basta che guardiamo alla nostra immediata “sinistra” e già non abbiamo più parenti di sorta. Abbiamo forse qualcosa a che spartire coi liberali, coi conservatori, coi berlusconiani?
La verità è che noi non siamo “estremisti”, non siamo “un’estrema”, siamo ciò che rimane di un intero mondo, di quel che i vincitori del secondo conflitto mondiale non sono riusciti a schiacciare, di ciò che non sono riusciti a far sparire nemmeno con l’impiego dei mezzi più subdoli lungo l’arco di settant’anni dopo il più imponente dispiegamento di forza militare che si sia mai visto nella storia umana.
Se qualcuno in un futuro per ora non ipotizzabile dovesse provare a ricostruire la storia della cultura dalla seconda metà del XX secolo in poi, e lo facesse con documentata obiettività, non potrebbe evitare di notare una stranezza che ha dell’incredibile: una parte estremamente minoritaria che continua a porre i problemi della Weltanschauung, della comprensione di noi stessi, dei valori, del significato della civiltà e dell’essere umano, del divenire storico, e l’altra, quella numericamente preponderante in maniera schiacciante, che detiene tutte le posizioni di potere, di autorità accademica e di controllo mediatico, congelata in un’assoluta sterilità, che ripete formule stereotipate e bugiarde, i “dogmi” dell’antifascismo, dell’uguaglianza degli uomini, della non rilevanza dell’appartenenza etnica e razziale, l’autocelebrazione dell’ipocrisia democratica che proprio mentre si appresta a uccidere i popoli annegandoli nell’universale meticciato per creare un’umanità ibrida e schiava, ne proclama pomposamente “la sovranità”.
Nello spirito di un contributo all’edificazione, al restauro, alla difesa del nostro piccolo “cosmos” che si contrappone all’universale caos, ho sviluppato anche la ricerca sulle origini di cui vi ho dato conto sulle pagine di “Ereticamente”, poiché la consapevolezza o la sua assenza, delle nostre origini costituisce una parte non piccola dell’idea che ci facciamo di noi stessi.
In questa ricerca sono giunto a formulare, come vi ho raccontato, le mie “sei tesi eretiche” che ormai ben conoscete e che nel loro insieme formano una visione delle nostre origini in netto contrasto con ciò che ci racconta “la scienza” ortodossa e “politicamente corretta” secondo i crismi dell’ortodossia democratica. Talmente eretiche che mi è sembrato giusto cercare il confronto, l’apporto (e anche il conforto) di altri intellettuali della nostra “area”. Come sapete (Il coraggio di essere eretici), mi hanno risposto in tre: Michele Ruzzai, Gianfranco Drioli ed Ernesto Roli.
In attesa che anche altri da me interpellati si facciano avanti, proveremo ora a interrogare attraverso gli scritti che ci hanno lasciato, due uomini il cui spirito è certamente ancora fra i nostri ranghi ma la cui fisicità purtroppo non più, due uomini che di sicuro hanno ancora tanto da insegnare a tutti noi: Julius Evola e Adriano Romualdi.
Delle questioni da me sollevate, quella su cui entrambi puntano il loro interesse, è soprattutto quella delle origini indoeuropee. Bisogna ammettere però che delle “sei tesi” quest’ultima è forse la più centrale in ordine a tutta la problematica da me sollevata, infatti, da un lato, se come si desume dalle osservazioni di entrambi, i nostri remoti antenati indoeuropei non erano pacifici agricoltori “nostratici” ma nomadi guerrieri e conquistatori, questo ci dice qualcosa – qualcosa di “politicamente molto scorretto” – intorno alle origini della civiltà. Dall’altro, se la loro origine va ricercata nel mondo boreale “iperboreo”, questo non è un argomento risolutivo ma certamente un forte indizio del fatto che l’origine stessa dell’umanità vada cercata “nel nord” e non “nel sud”, e tanto meno nell’Africa subsahariana.
Prima di esaminare quanto ha da dirci Julius Evola in ordine alla questione delle origini indoeuropee, sarà forse opportuna una precisazione: identificando semplicemente Julius Evola con la figura, con lo stereotipo oserei dire, del “maestro della tradizione”, si dà spesso una lettura appiattita e riduttiva di quello che è stato probabilmente uno dei più interessanti e complessi pensatori del XX secolo.
Noi ci dimentichiamo spesso che, storicamente, i legami non solo con la tradizione primordiale ma con quante da essa possono esserne derivate, sono stati da grandissimo tempo recisi. In particolare, per quanto riguarda la cultura europea, la ferita mai sanata inferta alle nostre radici, è stata l’irruzione del cristianesimo, irruzione, non dimentichiamolo, avvenuta dall’esterno, dal Medio Oriente, da un mondo spirituale estraneo all’Europa e ad essa contrapposto. Il cristianesimo va considerato l’anti-tradizione per antonomasia, e tutti coloro che parlano di “tradizionalismo cattolico” e simili ossimori, compresa purtroppo una schiera non piccolissima di ex evoliani, semplicemente non sanno quello che dicono o di che farneticano.
Non è pensabile che Julius Evola sia riuscito a riannodare i fili interrotti della tradizione senza un percorso intellettuale che va considerato e senza il quale egli non può essere realmente compreso: dall’idealismo magico all’esperienza del gruppo di Ur.
Mi viene in mente un paragone forse ardito, con la figura di Socrate come è presentata da Alcibiade nei Memorabili e come invece da Platone, ma è scoprendone tutta la problematicità e lo spessore, non certo con la riduzione a uno stereotipo, che Platone ha fondato la metafisica autoctona dell’Europa.
Per quanto riguarda l’interpretazione delle origini indoeuropee, Ernesto Roli ci assicura della competenza di Evola sull’argomento, basata sulla conoscenza non solo di miti e tradizioni, ma dell’archeologia “scientifica”.
“Evola non avrebbe mai condiviso tesi fantasiose e non scientifiche. E’ stato l’unico, infatti, a saper coniugare mito e scienza. Sapeva che ai miti in se, non è facile dare una collocazione temporale, ma con la sua conoscenza dei dati scientifici ed archeologici, ha saputo equilibrare le due cose. Per i miti, diceva, vi è il tempo mitico, per la scienza vi è la cronologia, anche se difficile da interpretare.
Evola conosceva perfettamente l’archeologia nordica. Conosceva i vari archeologi tedeschi e le loro teorie. Conosceva H. Gunther, G. Kossinna, H. Krahe, W. Darrè e tutti gli altri. Conosceva G. Devoto e altri archeologi indoeuropeisti italiani e stranieri e alla fine condivideva la posizione centro – nord europea della formazione dei popoli indoeuropei”.
Ecco dunque un estratto di un brano di Evola: Le migrazioni nordico-occidentali, inserito in Indirizzi per una educazione razziale del 1941.
“Anzitutto parlando di Nord non si deve intendere la regione germanica. La sede primordiale della razza aria va riconosciuta invece in una regione corrispondente all’Artide attuale: ciò, in quella remotissima preistoria, di cui si è detto. In un periodo successivo, ma sempre preistorico, il centro di irradiazione sembra essersi spostato in una sede nordico-atlantica. Nelle altre opere nostre si sono riferiti gli elementi che giustificano una tale tesi, corrispondente, peraltro, a ricordi e insegnamenti tradizionali concordanti di varie civiltà. Anche dal punto di vista positivo, geofisico, è possibile ammettere che la regione artica, o iperborea che dir si voglia, non sia divenuta quella inabitabile dei ghiacci eterni che gradatamente, partendo da una data epoca: mentre il centro successivo, nordico-atlantico, sembra essere scomparso per via di un cataclisma oceanico.
(…).
Noi di solito usiamo il termine iperboreo, forgiato in Grecia, prima ancora che dei Germani si sapesse qualche cosa. In ogni modo, diciamo senz’altro che ario, nordico-ario, nordico-occidentale ecc., in una seria dottrina della razza non voglion per nulla dire «tedesco» o «germanico»: sono designazioni di una realtà assai più vasta. Esse si riferiscono a un ceppo, del quale i popoli germanici del periodo delle invasioni non sono che una fra le tante diramazioni, poiché allo stesso ceppo avrebbero avuto diritto di riferire le loro origini le maggiori stirpi creatrici di civiltà in Oriente e in Occidente, nell’antica India e nell’antica Persia, come pure nella prima Ellade e nella stessa Roma. Fra tutte queste stirpi può esistere un rapporto di consanguineità, ma per nulla di derivazione. Di derivazione può parlarsi rispetto a quel comune ceppo «iperboreo», di cui si è detto, il quale però retrocede in una preistoria così remota, da far apparire sciocca ogni pretesa, da parte di un qualsiasi popolo storico, e tanto più moderno, di accaparrarsene come che sia la esclusiva discendenza”.
Si nota per prima cosa l’epoca a cui risale questo testo, un’epoca, appunto, in cui era possibile parlare liberamente di razze e perfino di dottrine razziali senza complessi e senza tabù, senza il timore di cadere sotto “democratici” anatemi. Quando noi parliamo di “nordico”, insiste Evola, non parliamo di qualcosa che significa necessariamente “germanico”, ma di un elemento che è ancestrale rispetto ai Germani come a tutti gli altri indoeuropei.
Faccio notare che questo discorso è molto vicino ad avvalorare anche l’origine boreale, nordica almeno della varietà eurasiatica della nostra specie, in totale contrasto con la leggenda dell’origine africana. E’ stato verosimilmente il più severo ambiente nordico a selezionare le qualità umane come la cooperazione sociale, la preveggenza, la capacità di tesaurizzare le risorse disponibili in vista del futuro, la cura e la protezione della prole, e via dicendo. Tutto ciò è senz’altro in relazione coi geni che indicano un’evoluzione recente del cervello, presenti negli Europei e negli Asiatici, ma assenti negli Africani, di cui a Bruce Lahn è stato impedito di occuparsi nei suoi studi dall’onnipotente censura democratica e antirazzista.
“Mentre il centro successivo, nordico-atlantico, sembra essere scomparso per via di un cataclisma oceanico”.
Il riferimento al mito platonico di Atlantide è – direi – piuttosto chiaro. Questo è un argomento che meriterebbe davvero una trattazione a parte, e non è detto che non ci torneremo sopra, ma per ora limitiamoci a un’esposizione per sommi capi. La narrazione platonica è stata coperta, e continua a essere coperta da decenni di scetticismo e di ridicolo da parte dei “ricercatori” ufficiali. C’era e c’è di mezzo IL DOGMA progressista in base al quale la civiltà umana non può essere più antica del 3.000 avanti Cristo.
Solo che nel 2006 l’archeologo Michael Parker Pearson dell’Università di Sheffield (Regno Unito) ha fatto osservare che gli allineamenti dei complessi megalitici di Stonehenge e di Carnac in Bretagna sembrano puntare in direzione delle isole Azzorre. E’ appunto possibile che le isole che formano oggi questo arcipelago siano quelli che un tempo erano i rilievi montani di una terra molto più estesa. Sarebbero venuti da lì i costruttori di megaliti che avrebbero eretto i due complessi, quello britannico e quello bretone come cenotafi in ricordo degli antenati e della patria perduta. Il popolo e la cultura dei costruttori di megaliti, dei SUPERSTITI DI ATLANTIDE sarebbero all’inizio della civiltà europea.
Io non metto la mano sul fuoco per questa teoria, ma quello che conta, è respingere il pregiudizio, il paraocchi progressista secondo il quale è assolutamente proibito pensare che la civiltà umana possa essere più vecchia di cinque millenni, perché una volta iniziata, DEVE avere uno sviluppo necessariamente ascendente.
Parliamo di Adriano Romualdi: in un suo testo, Gli indoeuropei, l’origine centroeuropea, e non mediorientale (come vorrebbe la teoria nostratica) dei popoli indoeuropei è affermata con tutta chiarezza, e trova il suo appoggio in una solida serie di dati linguistici:
“Un esame più attento delle lingue indoeuropee permette di rinvenire termini comuni che designano l’orso, il lupo, il castoro, la quercia, la betulla, il gelo, l’inverno, la neve, – ci rimanda cioè ad originarie sedi settentrionali. La presenza del nome del faggio – albero che non cresce ad Est della linea Konigsberg-Odessa – e del salmone, pesce che vive nel Baltico e nel Mare del Nord, ma non nel Mar Caspio o nel Mar Nero, ci permettono di collocare l’antica patria indoeuropea in un territorio compreso tra il Weser e la Vistola, esteso a Nord fino alla Svezia meridionale e a Sud fino alla Selva Boema e ai Carpazi. Effettivamente, da questo territorio si irradiano, a partire dal 2500 a.C., una serie di culture preistoriche che dilagano dapprima nelle valli del Danubio e del Dnjeper, e di qui raggiungono l’Italia, la Grecia, la Persia, l’India”.
Concetti dello stesso genere si trovano anche nell’introduzione a Religiosità indoeuropea di Gunther a cui, come sappiamo, ha posto mano anche Ernesto Roli.
Rileggendo questo passo non si può non ammirare la profonda cultura di Romualdi ma anche la sua chiarezza e sinteticità che di solito sono il prodotto di una cultura e di un esercizio nell’arte dello scrivere protratti per decenni, e possiamo ben comprendere di quanto ci abbia privati il crudele destino che ce l’ha strappato precocemente.
C’è certamente una questione che a questo punto occorre considerare: Julius Evola appartiene alla generazione di intellettuali emersi fra le due guerre mondiali. Adriano Romualdi, di una generazione più giovane, è tuttavia precocemente scomparso da un quarantennio. Non può essere che il trascorrere del tempo e degli eventi, nuove scoperte e nuove ipotesi abbiano reso obsolete le loro teorie?
Che ciò non sia avvenuto, è sempre il nostro buon Ernesto Roli a darcene testimonianza:
“Dato che dalla scomparsa di Adriano ad oggi, non sono stati fatti progressi di rilievo nel campo dell’indoeuropeistica, “Religiosità Indoeuropea”, deve intendersi ancora una valida base per qualsiasi discorso di paletnologia europea, insieme a “Origini indoeuropee” di G. Devoto, al “Vocabolario delle istituzioni indoeuropee” di E. Benveniste e alle opere di G. Dumezil.
Questi autori costituiscono una base solida dell’indoeuropeistica, da un punto di vista archeologico, culturale, linguistico, filologico, storico ed istituzionale”.
Si può andare oltre, e asserire con Silvano Lorenzoni che dal punto di vista di questo genere di studi come su tutto il resto, dal 1945 in Europa sono calate le tenebre, che le acquisizioni avvenute fra le due guerre mondiali sono state sostituite manu militari da una serie di falsificazioni come la favola nostratica o quella dell’ “Out of Africa”, volte a sostenere i dogmi della democrazia e dell’antirazzismo, che l’unica tenue luce sia rappresentata dagli studiosi collegati a quella che viene definita – abbiamo visto in maniera quanto impropria – l’area politica dell’ultradestra, che hanno proseguito i loro studi sia pure in condizioni di estrema precarietà e del tutto al di fuori dei circuiti della “ricerca” accademica.
Io credo che non ci si sminuisca nell’ammettere i propri limiti, e non vi ho mai nascosto di possedere una cultura più vasta ed eterogenea che non profonda. Su temi specifici quali l’indoeuropeistica, mi sento non solo di dover riconoscere l’eccellenza di Adriano Romualdi, ma anche la competenza di ricercatori come Silvano Lorenzoni o Ernesto Roli.
Riguardo a Roli, che considero una vera fortuna aver incontrato nelle mie ricerche, riporto ora un estratto che ho già citato in Il coraggio di essere eretici:
“La zona delle steppe ucraine, il Caucaso, l’Anatolia, o altro, in realtà erano più recenti della Cultura Megalitica Nordica (2800). E’ dalla zona tra il Reno e la Vistola che partono le prime migrazioni Indoeuropee (Asce da Combattimento), 2600 a C. Questa cultura megalitica nordica è di tipo neolitico, ma affonda le sue radici nel megalitismo occidentale e soprattutto nella cultura mesolitica detta di Ertebolle e in quella più antica di Maglemose (8000 a C.)”.
Si può non essere, e nessuno è obbligato a essere un esperto di culture neolitiche, e tuttavia il simbolismo dell’ascia da combattimento salta subito agli occhi, specialmente se contrapposta a quella della zappa dell’agricoltore nostratico che i democratici “politicamente corretti” vorrebbero far impugnare ai nostri antenati per disarmare psicologicamente noi.
Teniamo la nostra ascia da combattimento ben affilata in vista della prova decisiva che stabilirà se questo continente sarà ancora abitato da genti indoeuropee “bianche” o invece da meticci figli dell’immigrazione mondialista.
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