“Ed io ─ l’Unico ─ innalzo tutte le creature dalla loro coscienza
alla mia, perché in essa divengano unità”.
dagli Atti apocrifi di Giovanni.[1]
Julius Evola (1898–1974) è un autore che non ha certo bisogno di presentazioni. Filosofo, pittore, e alpinista, romano d’adozione ma appartenente ad una famiglia che traeva i suoi natali dall’aristocrazia siciliana, Evola è generalmente riconosciuto, insieme a René Guénon, Frithjof Schuon, e Ananda K. Coomaraswamy, come il più importante esponente del pensiero cosiddetto “perennialista”, o del “Tradizionalismo integrale”. Del resto, proprio Evola fu tra i primi ad introdurre l’insegnamento di Guénon in Italia, dopo averlo abbracciato al termine di diverse esperienze artistiche e filosofiche, culminate con l’illuminante scoperta dell’opera del metafisico francese. Durante gli anni del Fascismo (a cui aderì da posizioni critiche), Evola fu tra coloro che cercarono di esercitare la propria influenza intellettuale per determinare una rettifica “tradizionale” dei regimi italiano e tedesco, visti come movimenti potenzialmente in grado di dare forma a quell’élite (da Evola vista nell’ottica di un “ordine”) che avrebbe potuto favorire il ritorno dell’Occidente ai principi della Tradizione.[2] A seguito della sconfitta delle forze dell’Asse nella seconda guerra mondiale, Evola divenne poi un punto di riferimento per molti di coloro che erano rimasti fedeli ai loro ideali ispiratori, e che, “in piedi tra le rovine” di un’Europa occupata da americani e bolscevichi, si ritrovavano alla ricerca di orientamenti esistenziali per “cavalcare la tigre” del Kali-yuga.
L’opera di Evola presenta diversi meriti: essa sviluppa una brillante critica del mondo moderno e delle sue imposture, il cui spessore e lucidità sono eguagliati da ben pochi. Evola promuove inoltre l’insegnamento già espresso da René Guénon nelle sue opere, approfondendo aspetti degli studi tradizionali che quest’ultimo aveva tralasciato o solo accennato – si pensi ai casi dell’Ermetismo o della Cavalleria medioevale, a cui l’autore italiano ha dedicato alcune importanti monografie. Tuttavia, Evola non è affatto un interprete fedele del Guénon, e dimostra spesso e volentieri di distaccarsi dalla sua autorevole esposizione dottrinale in maniera significativa. Ciò è vero sia per la disamina dei dati tradizionali – che sono talvolta reinterpretati per farli aderire alle proprie idee precostituite[3] – sia, soprattutto, per la comprensione della conoscenza metafisica, e dell’autentica realizzazione spirituale che ne consegue. Secondo Evola, infatti, il fine di quest’ultima non consiste nell’estinzione di ogni prospettiva individuale,[4] bensì in una superomistica divinizzazione dell’Io tesa all’edificazione di un “individuo assoluto”, in cui l’autentico insegnamento della metafisica orientale risulta pesantemente contaminato da filosofie occidentali moderne, quali l’idealismo tedesco (specialmente nella declinazione datagli da Schelling e Novalis) o il pensiero nietzschiano.[5] Del resto, per Evola l’approccio alla Tradizione non è da considerarsi come un abbandono o una rettifica della sua precedente “fase filosofica” (esattamente come quest’ultima non è mai nettamente separata dal periodo artistico), bensì come l’approdo operativo di un pensiero che aveva ormai raggiunto i limiti massimi della sua estensione teorica, e che egli sviluppa in un senso eminentemente magico, ritenendo apparentemente superflua la necessità di un regolare ricollegamento iniziatico, e persino dell’adesione ad un essoterismo tradizionale. Risulta chiaro, pertanto, che rispetto alla sofía che promana dall’opera di René Guénon, il pensiero evoliano si configuri piuttosto nei termini di una filosofía, i cui contenuti saranno da prendere con la dovuta prudenza e discernimento.
In merito alle divergenze esistenti tra i due esponenti del pensiero tradizionale, sembrerebbe che un posto di primo piano debba essere assegnato alla ricezione del Cristianesimo, che Evola considera come una rivolta shudra contro lo spirito arya dell’Europa tradizionale, laddove Guénon ne riconosce non solo la piena legittimità, ma altresì una provvidenziale funzione di rivivificazione intellettuale dell’Occidente. Tuttavia, se teniamo conto del fatto che alcune delle opere in cui il primo espresse più chiaramente il proprio anti-Cristianesimo furono recensite dal secondo in termini elogiativi, possiamo con ciò intuire che la distinzione tra la posizione evoliana e quella guénoniana sia meno palese di quanto possa sembrare.
In una sua recensione all’evoliana “Rivolta contro il mondo moderno”, il maestro di Blois scriveva che le riserve che sarebbero potute esser fatte su alcuni contenuti del libro non avrebbero dovuto impedire di “riconoscere, com’è giusto, il merito e l’interesse dell’opera nel suo insieme, e di segnalarla in modo particolare all’attenzione di tuti coloro che si preoccupano della crisi del mondo moderno“.[6] Ora, la critica evoliana del Cristianesimo è parte integrante di quell’analisi della crisi del mondo moderno per la quale Guénon raccomandò il libro di Evola e, d’altra parte, essa non figura tra i punti di perplessità elencati nella recensione.[7] Del resto Guénon conosceva molto bene il contenuto di “Rivolta”, dal momento che, durante la stesura dell’opera, il suo autore si premurò di inviargliene costantemente le bozze, accogliendone le correzioni che questi man mano gli rispediva. Sembra quindi assai improbabile che, se la loro divergenza sul Cristianesimo fosse stata effettivamente tanto profonda, Guénon non vi abbia fatto nemmeno una menzione di sfuggita. Ma, anche ipotizzando che ciò fosse possibile, tale ipotesi pare essere ulteriormente confutata da una seconda, e nuovamente positiva, recensione guénoniana, questa volta dell’opera “Il mistero del graal e la tradizione ghibellina dell’Impero”, in cui la posizione di Evola sulla natura del Cristianesimo delle origini viene ribadita ed ulteriormente precisata.[8] Per di più, secondo la testimonianza del poeta Pierre Pascal, Guénon avrebbe giudicato come estremamente importante la lettura di “Imperialismo pagano”, in cui l’anti-Cristianesimo di Evola raggiunge il suo apice.[9]
Come giudicare, dunque, le pur apparentemente inconciliabili posizioni dei due autori sulla funzione della tradizione cristiana? Per cercare di far luce sulla faccenda è necessario fare un passo indietro, e partire dall’analisi del pensiero evoliano circa il Cristianesimo antico e medioevale, comprendendo su quali basi esso poggi.
Spiritualità solare e spiritualità lunare.
Secondo Evola (che reinterpreta, alla luce della ciclologia guénoniana, tesi formalmente riconducibili soprattutto al pensiero di Bachofen e di Wirth), la storia dell’umanità è fondamentalmente scandita dall’opposizione tra una spiritualità luminosa, uranica, regale,[10] e virile, che corrisponde alla Tradizione nel suo significato più autentico e completo, ed è incarnata da stirpi iperboree provenienti da una sede nordica primordiale, ed un’opposto approccio alla trascendenza di natura oscura, tellurica, sacerdotale, e femminile, frutto di una degenerazione manifestatasi presso stirpi emigrate verso meridione in epoca ancestrale. Il declino che, a partire dall’età dell’argento, ha condotto sino alle catastrofi dell’età del ferro, non è altro che la conseguenza dell’influsso sempre più pervasivo di questa seconda tendenza che, nelle civiltà in cui è predominante (e nella misura in cui esse possano ancora esprimere una forma di vita spirituale),[11] definisce le stesse come latrici di una “spiritualità lunare”. Viceversa, laddove predominino i caratteri dell’originaria tradizione iperborea, si avranno civiltà forgiate dall’aurea “spiritualità solare”.
Ora, mentre la spiritualità solare è propria di popolazioni “ariane”[12] come quelle indoeuropee,[13] e trova una delle sue massime espressioni nella tradizione romana,[14] un tipico esempio di spiritualità lunare sarebbe rappresentato dai popoli semitici, eredi diretti di quella “razza rossa” che aveva creato la civiltà atlantidea, e che era caduta a seguito dell’insinuazione, nella loro natura “divina”, di un carattere “umano” – interpretato da Evola nel senso di un imbastardimento delle stirpi nordico-atlantiche con elementi appartenenti ai popoli meridionali, adoratori del principio ctonio e femminile.[15]
L’avversione di Evola per il Cristianesimo si spiega dunque con la sua più generale critica verso le civiltà e le tradizioni semitiche. Di queste, egli stimava solo l’Islamismo (da lui considerato alla luce degli elogi nietzschiani per la maschia religione guerriera che aveva dato i natali alla civiltà moresca, e a cui attribuiva un superamento dei motivi negativi insiti nelle altre due forme abramiche),[16] ma ebbe parole di apprezzamento anche per la tradizione mosaica e per il Giudaismo del primo Tempio, fondato sull’osservanza della Legge, il ritualismo anti-sentimentale, e la spiritualità regale incarnata dalle figure di Davide e Salomone, o da quella del Messia guerriero, visto come condottiero di un popolo “eletto” dal “Dio degli eserciti” a dominare il mondo. Tuttavia, l’Ebraismo in generale rappresenta, secondo Evola, la quintessenza stessa dello spirito semitico-lunare,[17] la cui spiritualità servile e devirilizzata risalterebbe, ad esempio, nel costante sentimento di una colpa e di un peccato da redimere, nell’esaltazione della figura del “santo” a discapito del modello eroico,[18] nella particolare visione “matematica” del cosmo (propria delle civilizzazioni lunari e sacerdotali),[19] e nel non concepire alcuna superiore esistenza oltremondana, dal momento che l’oltretomba della primitiva tradizione biblica viene inteso come uno she’ol, in cui anche i grandi re e patriarchi d’Israele condividono la sorte dell’uomo comune.[20]
La deriva anti-tradizionale della primitiva tradizione sacrale d’Israele avrebbe raggiunto il suo culmine nella deviazione sentimentale ed anti-ritualistica operata dal Profetismo che, in accordo con la tematica semitico-lunare del dio o dell’eroe devirilizzato che patisce, muore, e risorge, avrebbe introdotto il tema del Messia sofferente a discapito di quello del Messia guerriero, e posto le basi per il successivo sviluppo del Cristianesimo.[21] Tutto ciò avrebbe portato a compimento l’affermarsi di una religiosità tifonica sempre latente nell’animo giudaico, che giustificherebbe anche l’accusa romana di considerare l’Ebraismo e il Cristianesimo primitivo come manifestazioni della fede nel “dio dalla testa d’asino” – oggetto di un antichissimo culto contro-iniziatico che, secondo René Guénon, potrebbe essersi tramandato fino ai giorni nostri.[22]
L’asino simboleggia il lato tenebroso di Seth, la divinità egizia che, in questo suo aspetto, è omologa al demone greco del caos Tifone, e la cui presenza nel presepio cristiano indica proprio l’insieme delle forze malefiche all’interno della caverna cosmica, contrapposte alle forze benefiche rappresentate dal bue.[23] Significativamente, anche gli egiziani indicavano gli ebrei come adoratori di Seth, nonostante tale accusa (attribuita a diversi popoli loro nemici) non fosse esente da motivazioni di semplice propaganda politico-religiosa.[24] Ad ogni modo, Evola vide nel Cristianesimo una ramificazione di questa deleteria influenza sethiana e dello spirito ebraico nel mondo, e giudicò la cristianizzazione dell’impero romano come la sincope della tradizione occidentale, ossia il punto più profondo della crisi che diede origine alla degenerazione del mondo moderno, solo parzialmente frenata da quella rettifica che trasformò il Cristianesimo delle origini nella Cristianità medioevale.
Secondo Evola, infatti, la civiltà feudale medioevale, fondata sull’ideale imperiale ghibellino[25] e sulla spiritualità crociata e cavalleresca, ha sicuramente avuto una dignità tradizionale, ma solo nella misura in cui abbia espresso una continuità con la tradizione europea pre-cristiana. Tuttavia, in essa sarebbero sempre rimasti latenti i caratteri anti-tradizionali del Cristianesimo originario, la cui riemersione avrebbe finalmente imposto quel processo disgregativo cominciato con la sua diffusione nell’antica Roma.[26] Secondo il punto di vista evoliano, dunque, il problema posto dalla tradizione cristiana riguarda più precisamente il suo nucleo primitivo, al quale è negato ogni carattere che non sia quello di un’infima religiosità plebea.
[continua]
NOTE
[1] Cit. in: J. Evola, L’Uomo e il divenire del mondo, Arktos 1989, p. 67.
[2] L’opinione di Guénon in merito a simili iniziative fu assolutamente negativa, ed egli sottolineò in più occasioni le origini a suo dire sulfuree ed il carattere parodistico dei fascismi italiano, tedesco, e romeno (cfr. J.-L. Gabin, René Guénon contre «l’extrême-droite» et les idéologies modernes, in: http://www.leporteurdesavoir.fr). Si può dire che, mentre pensatori come Evola, Reghini, o De Giorgio valutavano la possibile rettifica tradizionale dei fascismi europei da un punto di vista puramente teoretico, Guénon la giudicava alla luce della sua conoscenza della “Storia occulta”.
[3] Si pensi, ad esempio, alla ben nota questione dell’inversione dei rapporti gerarchici tra la casta regale e quella sacerdotale. Vero è che la regalità intesa da Evola non è veramente distinta dal sacerdozio di cui parla Guénon, e che il sovrano da intendersi al vertice della gerarchia tradizionale è colui che riassume in sè sia l’autorità spirituale che il potere temporale. Tuttavia, siffatto sovrano è al vertice in quanto brahmana e, quando tale funzione viene scissa da quella regale-guerriera, è ad essa che spetta il primato (cfr. R. Guénon, Autorità spirituale e potere temporale, Luni Editrice 1995; e: A.K. Coomaraswamy, Autorità spirituale e potere temporale nella teoria indiana del governo, Edizioni Mediterranee 2017). È altresì da sottolineare che la casta sacerdotale esplica la pienezza delle proprie facoltà solo nella misura in cui ottemperi completamente alla sua natura, giungendo a quella conoscenza realizzativa che la rende davvero detentrice del sacrum facere. In caso contrario, la dignità brahmamica è piuttosto da intendersi come potenziale, e le funzioni sacerdotali legittimate solo in senso vicario. La spiritualità che Evola qualifica di “sacerdotale” è da riferirsi precisamente a possibilità spirituali riferibili a quest’ultima classe (meglio definibile come clericale), alla quale corrisponde l’analoga discesa di livello della casta guerriera dal suo normale statuto ad una condizione di mero esercizio della forza bruta, che il sacerdozio così definito governa nell’ambito di una spiritualità argentea – almeno fino a quando la ribellione del principio guerriero non inneschi le successive rivolte delle caste inferiori, e scateni nel mondo l’irruzione delle età del bronzo e del ferro. In ogni caso, il rapporto vigente è sempre quello del primato della conoscenza/contemplazione sull’azione, e della “femminea” subordinazione del principio guerriero al predominio “maschile” del sacerdozio.
[4] Motivo per il quale, ad esempio, egli qualifica l’Advaita-Vedanta shankariano con i tratti di una evasione “panteistica” [sic] di natura demetrica, a cui contrapporre la tradizione buddhista arya o quella del Tantrismo (cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterrane 2007, pp. 286-290). Tuttavia, l’equivoca interpretazione evoliana di tali dottrine è facilmente risolta dal semplice considerare che anche l’eroe tantrico (vira), che possiede e domina la potenza deificata (shakti) e che, dall’alto della sua realizzazione spirituale, guarda all’umanità profana come a degli armenti (pashu), non è altri che il Sé (atma). Per quanto riguarda la corretta comprensione del rapporto tra questi e l’individualità umana, cfr. R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi 2004, cap. II.
[5] La questione della realizzazione spirituale secondo la prospettiva evoliana non può certamente essere liquidata in poche righe, ma un suo approfondimento in questa sede implicherebbe una deviazione dal soggetto che ci proponiamo di analizzare. Per inquadrare la questione, rimandiamo all’ottimo: A. de Giglio, Julius Evola: la comunità degli individui assoluti, Tesi di laurea, Università di Roma “La Sapienza”, a.a. 2008/2009 (consultabile sul sito: http://www.fondazionejuliusevola.it). Il lettore sufficientemente formato sull’opera di Guénon rileverà facilmente le differenze tra i due autori, ma anche le inesattezze di alcuni poco attenti critici “guénoniani” dell’opera di Evola.
[6] Cit. in: J. Evola, op. cit., p. 437.
[7] D’altra parte, questi sono esplicitamente indicati come non esaustivi. Guénon osserva altresi l’ingiustificabilità del giudizio evoliano sul pitagorismo, oggetto di giudizi non dissimili da quelli rivolti verso la tradizione cristiana e, forse, indicativi del fatto che le riserve guénoniane sull’interpretazione evoliana di quest’ultima potrebbero rientrare tra i “non-detti” di cui sopra. Ma, d’altra parte, Guénon teneva in buona considerazione gli studi pitagorici di Arturo Reghini, caratterizzati anch’essi da una forte venatura anti-cristiana.
[8] Cfr. A. Grossato, Due recensioni dimenticate di René Guénon, in: Futuro Presente, numero 6, Perugia 1995, pp. 111-113.
[9] Cfr. G. De Turris, Testimonianze su Evola, Edizioni Mediterranee 1985, pp. 169-170.
[10] Sul rapporto tra regalità e sacerdozio, cfr. supra nota 3.
[11] Strictu sensu è spirituale solo ciò che è attinente allo Spirito. Ad ogni modo, utilizzeremo qui il termine “spiritualità” secondo l’accezione comunemente intesa di generica relazione col sacro e col trascendente.
[12] Dal termine sanscrito arya (nobile), che indica le tre caste dei sacerdoti (brahmana), dei guerrieri (kshatriya), e dei lavoratori (vaishya), che la tradizione indù ritiene qualificati per il compimento dei riti e lo studio delle sacre scritture. Questo termine non ha in sè nessuna connotazione etnica, dal momento che l’istituzione delle tre caste summenzionate vige indistintamente presso tutte le etnie che compongono tale civiltà. D’altra parte, la loro partecipazione ad una medesima civilizzazione tradizionale contribuisce a plasmarle nel senso di un’unica “razza dello spirito”, forgiata a partire dall’incontro/scontro dei conquistatori nordici dell’India con le pre-esistenti popolazioni ivi locate.
[13] È da osservare che, secondo René Guénon, questo termine indicherebbe un insieme di natura esclusivamente linguistica – non dissimile, ad esempio, da quello degli odierni “popoli anglofoni”. Anche in tal caso si potrebbe però ammetterne una conseguente unità tradizionale, analoga a quanto già detto circa la civiltà indù.
[14] L’apprezzamento di Evola per la tradizione romana è condiviso da Guido de Giorgio, pur con alcune differenze. Di opinione assai diversa era invece Guénon, il quale espresse delle forti riserve sulle qualità intellettuali degli antichi romani. Tuttavia, egli giudicava in modo estremamente positivo l’opera di Dante, la quale, secondo De Giorgio, rappresenta precisamente la massima espressione sapienziale della tradizione di Roma (cfr. G. de Giorgio, La tradizione romana, op. cit., pp. 327-337). Giandomenico Casalino ha altresì rilevato l’importanza in essa rivestita dalla scienza ermetica, la cui funzione corrisponde precisamente all’instaurazione del “santo impero” attraverso la realizzazione dei “piccoli misteri” (cfr. G. Casalino, Il nome segreto di Roma, Edizioni Mediterranee 2003; e: R. Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, Luni editrice 1996, cap. 39).
[15] Trattasi di ciò che la Bibbia ricorderebbe come l’unione tra i “figli di Dio” (b’nei ha-Elohim) e le “figlie dell’Uomo” (b’not ha-Adam), che diede vita all’abominio dei gibborim, spazzati via dal Diluvio universale. Questo corrisponde proprio alla distruzione dell’Atlantide di cui parla Platone, la cui arca rappresenta l’influenza spirituale atlantideo-noachita scampata al cataclisma. Quanto al diluvio di Deucalíone, esso è da identificare invece al più tardo cataclisma che si colloca tra la fine dell’età del bronzo esiodea e l’inizio dell’età degli eroi – cioè di quella generazione, perita combattendo sotto le mura di Tebe e di Troia, che prelude alla vera e propria età del ferro.
[16] Cfr. J. Evola, op. cit., pp. 285-286. Effettivamente, con la sua estraneità al motivo del peccato originale e del sacrificio redentore del Messia, la tradizione islamica è aliena a quella prospettiva giudaico-cristiana da Evola deprecata, che si riconnette non già all’incontro tra migrazione atlantidea e iperborea all’origine della tradizione caldaica (cioè di quell’Abramismo primigenio a cui l’Islam idealmente si ricollega), bensì da un ramo derivato di quest’ultima, e adeguato alle peculiarità del popolo ebraico. L’Islam riprende altresì, in modo più esplicito e marcato che in altre forme tradizionali, l’ideale già neoplatonico del “monoteismo solare” (la cui origine fu peraltro siriaca), ed il motivo “romano” dell’imposizione virile e guerriera della pax Dei sulle forze del chaos, che vengono soggiogate e ordinate all’interno del kosmos della “dimora dell’Islām” (dar al–Islam).
[17] Cfr. J. Evola, op. cit., pp. 282-285; e: Tre aspetti del problema ebraico, Edizioni di Ar 1994 pp. 13-27.
[18] Evola sottolinea giustamente che, nelle forme di spiritualità lunare, alla figura dell'”eroe” si sostituisce quella del “santo”. Quest’ultimo termine però può indicare sia un personaggio la cui realizzazione non travalica i limiti dell’ambito religioso (raggiungendo, al massimo, il possesso di stati mistici), che una figura che si situa nell’assolutamente differente dominio iniziatico. In questo secondo significato il santo non si contrappone all’eroe, ma rappresenta semplicemente la personificazione, nell’ambito della contemplazione, del medesimo archetipo spirituale che quest’ultimo esplica nell’ambito dell’azione, secondo la bipartizione della virilità tradizionale in ascesi e via guerriera. Un’eco di ciò è rintracciabile nella stessa definizione cattolica del santo come “persona che praticato in modo eroico le virtù cristiane”, e figure come quella di San Michele o di San Giorgio dimostrano che le due concezioni possono persino fondersi. Lo stesso ideale della cavalleria medioevale, di cui sono paradigma i paladini carolingi e i cavalieri della tavola rotonda, si basò proprio sull’esempio di “nove prodi”, tre dei quali provenivano dalla tradizione cristiana (Re Artù, Carlo Magno, e Goffredo di Buglione), mentre i restanti sei erano suddivisi tra la tradizione pagana (Ettore, Alessandro Magno, e Giulio Cesare) e quella ebraica (Giosuè, Davide, e Giuda Maccabeo). D’altra parte, la figura dell’eroe solare non è ignota nemmeno alle tradizioni semitiche, come indicano i casi del Gilgamesh accadico-babilonese, di Sansone, o dell’Imam ‘Ali.
[19] Cfr. J. Evola, op. cit., pp. 65-72. L’interpretazione evoliana della numerologia, pur se plausibile nel suo ambito specifico, è tuttavia riduttiva nell’esaurirsi in quella che, tutto sommato, ne rappresenterebbe un aspetto inferiore o degenerato. La scienza delle lettere e dei numeri è suscettibile di ben più alte interpretazioni che, del resto, non sono affatto incompatibili con quella “visione ariana del cosmo” che, non casualmente, gli antichi romani definivano ratio, cioè “calcolo” (cfr. R. Guénon, Simboli della scienza sacra, Adelphi 1997, cap. 6).
[20] Tuttavia questo è lo stesso esito degli eroi dell’hádes omerico (i campi elisi essendo riservati a pochi eletti dagli dèi), e vedremo più avanti come debba venire contestualizzato tale locus ultraterreno.
[21] Cfr. J. Evola, op. cit., p. 20-21.
[22] Cfr. R. Guénon, op. cit., p. 130.
[23] Esso viene altresì rappresentato come il paredro di diverse personificazioni del principio tenebroso, ma il suo utilizzo come cavalcatura può anche simboleggiarne il soggiogamento.
[24] Cfr. J.W. Van Henten and R. Abush, The depiction of the jews as typhonians and Josephus’ strategy of refutation in Contra Apionem, in: L.H. Feldman and J.R. Levison (edited by), Josephus’ Contra Apionem, Brill 1996, pp. 271-309.
[25] Dal nome del castello di Weiblingen, sede del casato degli Hoenstaufen, i cui sostenitori si opponevano alle casate baveresi e sassoni dei Welfen (da cui il termine “guelfo”). Nell’Italia medioevale il termine passò a designare i sostenitori del Sacro Romano Imperatore contro il Papa e, in quanto tale, lo stesso Dante viene indicato con l’appellativo di “ghibellin fuggiasco”. Tuttavia, egli apparteneva più precisamente alla fazione fiorentina dei guelfi bianchi.
[26] Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., pp. 322-330.