Il Cristianesimo come forma di esoterismo giudaico.
A differenza di Evola, Guénon sostenne l’origine puramente esoterica del Cristianesimo, che non esitò a paragonare ad una “tariqah” ebraica.[1] La sua posizione è comprovata dalla stessa dottrina della redenzione vicaria, che si pone nel solco del Messianismo esoterico mutuato dagli insegnamenti enochiani, esseni, e cabalistici e che, come abbiamo precedentemente accennato, Evola interpretava invece alla luce di un’asserita spiritualità semitica improntata al pathos della colpa e dell’espiazione, di cui il Messia si farebbe carico in quanto prototipo delle divinità semitiche della vegetazione e della fertilità, che muoiono e rinascono nell’ottica di una concezione ciclica di natura tellurico-femminea. Tuttavia, lo stesso Evola aveva individuato in alcune idee tipiche del Cristianesimo l’eco di originarie pratiche ascetiche originariamente ascritte a particolari circoli iniziatici o filosofici, ma senza trarvi alcun motivo per mutare la propria opinione.[2]
Ad ogni modo, un’analisi più rigorosa dell’interpretazione evoliana relativa alla dottrina della redenzione ne rivela il carattere parziale, essendo il senso più profondo del suo simbolismo di ben altra portata. Difatti, secondo l’esoterismo ebraico (i cui insegnamenti, a prescindere dalle diverse formulazioni assunte nel corso del tempo, risalgono nella loro interezza alla rivelazione discesa su Mosè nel Monte Sinai, e rendono le stesse mutualmente intelliggibili), Dio è innanzitutto il Ayn Sof, ossia l’infinita ed ineffabile Essenza non-duale, dalla cui luce infinta (ohr) tutte le cose procedono per riflessione. Questa avviene nello specchio di un “nulla” che, non potendo realmente porsi al di fuori del Principio (pena il venir meno della propria infinità), è da intendersi in senso puramente concettuale, attraverso un “ritiro” (tzimtzum) di Ayn Sof che “lascia spazio” a quest’ultimo, permettendo l’originarsi della creazione. Il primo atto creativo consiste nella manifestazione dell’immagine totalizzante del Principio, l’Uomo Universale (Adam Qadmon) che partecipa dell’insieme dei quattro mondi (‘olamot),[3] e che si identifica essenzialmente con la figura di Metatron, l’angelo supremo che, alla fine dei tempi, si manifesta sulla Terra come Messia (Mashiakh). Il ritorno escatologico al Principio si configura come una vera e propria “immolazione” di quest’ultimo, in quanto vittima di un sacrificio unitivo speculare al sacrificio distintivo che ha dato inizio al Creato.[4] La figura del Messia diviene allora quella del “Servo del Signore” (‘Eved ha-Shem) di cui parla il profeta Isaia, personificazione collettiva dell’intero popolo d’Israele (che egli, in quanto suo sovrano, rappresenta per antonomasia), la cui intera vicenda storica diventa figura del tormentato processo di reintegrazione del tutto nell’Uno senza secondo.[5]
L’insegnamento acroamatico circa l’identità suprema dell’Uomo col Principio, su cui si fonda e col quale si dimostra la natura esoterica del Cristianesimo delle origini, ne evidenzia inoltre il carattere descrivibile evolianamente come virile e solare. Difatti l’Uomo, venendo considerato nella sua natura essenziale di compendio microcosmico di tutte le cose, si pone in rapporto a queste secondo una condizione di supremazia gerarchica, e si identifica alla realtà totalizzante dell’Adam Qadmon, che la tradizione cristiana chiama Logos (o “Figlio di Dio”), e l’Islam Insan al-Kamil. Si tratta, cioè, di quell’essere che la Bibbia e il Corano (sacre scritture dell’Abramismo) chiamano il “Mistico Agnello”[6]e il “Vicario (khalifa) di Allah sulla terra”, espressione della regalità primordiale davanti alla quale si prosternano persino gli angeli. Se, in questa prospettiva, permane una qualche traccia di approccio “lunare” al divino, essa si spiega, da un lato, con quanto richiesto dalle convenienze spirituali in merito all’imprescindibile adesione alla pratica essoterica (ottemperata, però, non più in senso “religioso”, ma come impersonale conformazione all’ordine cosmico di cui questa è espressione), e, soprattutto, dal carattere monoteista delle religioni abramiche. Ovviamente, ogni forma tradizionale ortodossa è strictu sensu “monoteista” – nel senso che testimonia dell’unità del Principio – ma sarà più precisamente definibile come tale solo quando farà della sua trasposizione in senso essoterico e teologico il proprio oggetto di culto. In caso contrario, ci troveremo di fronte ad un “politeismo” che, non contemplando una simile trasposizione (o relegandola alla prospettiva di un Deus Otiosus, o di un “Fato” a cui le stesse divinità sono sottomesse), si rapporta alla sola intermediazione delle potenze angeliche (gli “dèi”) o di una qualsiasi delle altre realtà esistenti tra il divino e l’umano.[7]
Ora, se il culto dei monotesmi non è rivolto ad un numen particolare, ma allo stesso Principio “deificato”, ne conseguirà che l’assoluta incomparabilità tra esso e tutto ciò che è altro da Lui non può tradursi che in una devota e femminea sottomissione alla sua signoria, sia da parte di chi non ne ha realizzato la conoscenza unitiva, che da parte di chi è pervenuto a tale realizzazione, ogni qualvolta si ponga in una prospettiva creaturiale. Nel primo caso, tale adorazione riprenderà il tema lunare della venerazione passiva, servile, e timorosa dei numina ascritta alle civilizzazioni semitiche;[8] nel secondo, invece, assumerà i tratti di una perfetta servitù del Realizzato che, consapevole della realtà del Sè Divino, e della nullità dell’involucro formale con cui ha smesso di identificarsi, sa che, ogni volta che quest’ultimo si manifesta illusoriamente, non può che farlo come servo del Reale (cioè, in definitiva, del suo Sè più profondo), il quale cessa di essere “signore” solo quando sia scomparso ogni “servitore”. Questo è il motivo per cui le religioni abramiche descrivono altresì l’Uomo come la “sposa” di Dio nel Cantico dei cantici ebraico-cristiano, e come il suo servo (‘abd) serenamente sottomesso (muslim) della tradizione islamica. Ciò indica anche che, se la virilità della concezione impersonale del Principio è superiore alla femminea adorazione dello stesso secondo una prospettiva personale (che la precede nel percorso conoscitivo dei misteri divini), il ritorno a quest’ultimo, dopo aver conseguito l’identità suprema, è superiore al primo, in quanto implica una più ampia realizzazione spirituale (o, per meglio dire, l’acquisizione di un “sovrappiù”, che va ad aggiungersi ad una relizzazione già di per se perfetta e completa).[9] Quanto a colui che vi perviene, egli può veramente essere definito un “individuo assoluto”, ma quanta differenza intercorre tra la regale umiltà che promana dalla sua persona, e una certa estetica pretenziosamente “arya”, che insegue titanicamente l’illusione di giungere al Principio senza sbarazzarsi delle catene della prospettiva individuale – queste, si, veramente tipiche dello schiavo!
Considerate le cose da questo punto di vista, anche l’influenza del Profetismo nel pensiero ebraico e cristiano assume una portata differente da quella descritta da Evola; le figure dei profeti (nevi’im) emergono proprio in concomitanza con il passaggio definitivo della tradizione ebraica da un’originario poli/enoteismo al monoteismo vero e proprio, in cui Yahveh cessa di essere percepito quale numen tutelare delle tribù israelitiche, per divenire la personificazione stessa del Principio Supremo.[10] Da questo punto di vista, i nevi’im si configurano come vere e proprie forze oracolari, la cui apparente avversione al ritualismo sancisce semplicemente il necessario ri-orientamento del culto yahvista in senso monoteistico, con la conseguente diversa interpretazione del senso di riti e sacrifici. Siamo dunque ben lontani da quelle figure di “ossessi” che avrebbero inaugurato il sorgere di una religiosità inferiore, e sancito il sopravvento delle tendenze tenebrose connaturate all’animo ebraico-semitico sulla superiore spiritualità dell’Ebraismo del primo Tempio, nelle quali non è possibile esaurire il fenomeno profetico. Senza necessariamente negare l’esistenza di un elemento dissolutore al suo interno, questo costituirebbe un solo aspetto del fenomeno che, nella misura in cui le tradizioni mosaica e gesuana non siano state alterate dal loro accoglierne le tematiche, sarà piuttosto da considerarsi da esse rettificato. A tal proposito, proprio l’anti-ritualismo contenuto nei libri profetici del canone biblico non impedirà affatto al culto sacerdotale di continuare ad essere il centro della spiritualità ebraica fino alla diaspora; e sarà solo con la successiva trasformazione della tradizione giudaica nel Rabbinato odierno che prenderà il sopravvento quell’Ebraismo spurio contro cui si scaglieranno con veemenza sia i vangeli che il Corano.[11] Anzi, la missione del Cristo si configurerà, oltre che come un adempimento della tradizione mosaica, proprio come una rettifica del suo processo di decadenza, e non a caso alcuni insegnamenti gnostici le attribuiranno una funzione di liberazione dal demiurgico “dio degli ebrei”.
Le due vie dell’oltretomba.
Ma come spiegare la presenza di elementi di chiara provenienza lunare in una tradizione considerabile solare nei suoi fini ultimi? La questione è facilmente spiegabile dalla natura stessa delle forme tradizionali, che sono per definizione degli adattamenti della Tradizione Primordiale emanata dal Centro supremo, con cui i rispettivi centri secondari e derivati si identificano essenzialmente. Pertanto ogni forma tradizionale, avendo lo scopo di porre un argine alle pulsioni tenebrose della specifica comunità alla quale è indirizzata, favorendone l’esplicitarsi delle virtù innate entro i parametri di una vita tradizionale, ed esercitando così un’azione regolatrice che faccia emergere il kosmos dal chaos e riconduca l’umano al divino, per svolgere proficuamente la propria funzione si modellerà necessariamente alla forma mentis del suo destinatario, anche adeguando (in modo del tutto contingente) i caratteri formali del proprio essoterismo a concezioni che possono essere di per sè anti-tradizionali. Come sottolineato da René Guénon, questo è precisamente il caso delle forme tradizionali di tipo religioso (quali sono, per l’appunto, le tre vie abramiche), la qual cosa giustifica, ad esempio, la loro accoglienza del profano punto di vista morale.[12]
I caratteri lunari di una civilizzazione possono quindi esser sì espressione di una spiritualità inferiore o di una vera e propria degenerazione anti-tradizionale, ma corrispondere anche a degli adattamenti formali di natura ciclica in seno ad una spiritualità di tipo superiore, dovuti alla progressiva decadenza dell’umanità dall’aurea perfezione della razza iperborea alla sua attuale natura ferrea, la cui mescolanza con dei caratteri solari non andrà intesa nel senso di una contrapposizione, bensì di una sintesi e di un’integrazione nella perfezione totale. Una tale distinzione è ben presente nella Bibbia, per la quale i diversi popoli semitici si ricollegano a filiazioni spirituali molto diverse; così, mentre gli ebrei e gli arabi sono detti discendere dal patriarca Sem, i popoli cananei e Nimrod (rappresentante della rivolta del principio guerriero assiro contro la casta sacerdotale caldea) hanno origine dalla discendenza “maledetta” di Cam.[13]
Quanto alla menzione precedentemente fatta sulla presenza di un carattere “tifonico” del culto ebraico di Yahveh, e delle forme tradizionali da esso derivate,[14] esso andrà visto più correttamente come la possibilità latente di una loro perversione, celata nella natura ambivalente dell’archetipo da cui hanno origine. Il va sans dire, infatti, che l’origine “sethiana” dei tre monoteismi abramici non denota alcun loro inesistente substrato “demoniaco”, dal momento che essa si ricollega semmai al lato benefico del simbolismo rettile in questione.[15] Non a caso, Seth è anche il nome del patriarca biblico dal quale discendono Noè e i suoi figli (e che, insieme ad Adamo, è dunque il comune antenato dell’umanità post-diluviana), ed è per questo motivo che l’interpretatio greco-romana identifica altresì Yahveh con Dioniso e con Sabazio, teofanie che si connettono al simbolismo del serpente, al tema dell’ebbrezza divina e iniziatica, ed al compimento dei “grandi misteri”.[16]
Nell’ottica su menzionata, si dovrà dunque distinguere tra una spiritualità lunare tanto nella forma quanto nella sostanza, ed una spiritualità che sarà “lunare” solo nel primo aspetto, non limitando il proprio scopo ad un’evoluzione postuma dell’individuo che si fermi ai limiti dell’esistenza formale, reintegrandolo nel grembo della Madre Terra, e impedendogli così di conquistare l’immortalità celeste.[17] Ogni forma tradizionale che oltrepassi un simile obiettivo si configurerà invece come una spiritualità “solare” (a prescindere dai caratteri formali con i quali si sarà rivestita in via del tutto contingente), in quanto culminante nell’estinzione dell’individuo formale dentro il fuoco del “Sole” principiale.
Per meglio comprendere quanto detto finora, dovremo spendere qualche parola sugli insegnamenti tradizionali relativi al post-mortem, in merito ai quali Evola parla giustamente di due differenti “vie dell’oltretomba”: la prima uranica e solare, destinata a coloro che hanno eroicamente trionfato sulla morte ordinaria e conquistato l’immortalità olimpica;[18] e la seconda, infera, oscura, e larvale, alla quale è soggiogata la massa degli uomini ordinari che, al termine della loro esistenza terrena, lasciano dietro di sè solo un’ombra, destinata alla dissoluzione nei totem che l’avevano generata, e dei quali torna ad essere nutrimento.[19] Questa seconda via è propria a quelle forme di religiosità che non concepiscono alcuna superiore ascensione celeste, com’è il caso, secondo Evola, della primitiva escatologia giudaica. È vero, infatti, che nella Bibbia si parla di uno še’ōl dove prendono indistintamente dimora tutti gli esseri umani, e se l’ebraismo parla altresì di un giardino dell’Eden (gan ‘ēḏen), in cui le anime attendono beate la resurrezione dei corpi e l’avvento del regno messianico, il significato più elevato di questo regno corrisponde iniziaticamente all’ottenimento dell’identità suprema, che, effettivamente, risulterebbe esser dunque esclusa dagli orizzonti dell’ebraismo pre-gesuano. Tuttavia, se la funzione di Gesù implica precisamente l’instaurazione del “regno dei cieli”, ciò dimostra sufficientemente come l’insegnamento cristico non possa essere sbrigativamente relegato ad una prospettiva meramente “lunare”, nel senso sostanziale da noi precedentemente ricordato.
Non è possibile tentare di risolvere in poche righe l’intricato nodo gordiano della comparazione tra la concezione abramica dei destini postumi dell’umanità e quella di altre civiltà tradizionali, come l’ellenica, l’indù, l’egizia, o la tibetana. Volendo sintetizzare la questione nei suoi termini essenziali, possiamo dire che, al momento della morte corporale, per colui che non è pervenuto alla Liberazione si aprono le porte del passaggio ad altri stati condizionati.[20] Se egli non si eleva oltre la corrente dell’esistenza formale, all’interno di questa sarà per lui “paradisiaca” ogni condizione postuma di beatitudine e ricompensa dei meriti acquisiti, e “infernale” ogni sofferenza e punizione per le colpe accumulate.[21] In una prospettiva più elevata, l’Inferno sarà però costituito dall’intero permanere nella corrente delle forme, mentre il paradiso sarà l’affrancamento dalle stesse e l’ottenimento di uno stato sovra-formale o “angelico”.[22] La tradizione indù parla, in merito a tale prospettiva, di un “sentiero degli antenati” (pitri-yana) edi un “sentiero degli dei” (deva-yana), che sono gli esatti equivalenti delle “due vie dell’oltretomba” di cui parla Evola.[23] Ma, dal momento che Paradiso e Inferno, nel senso più elevato del termine, non sono altro che l’unione o la separazione dal Principio,[24] è possibile considerare un’ulteriore prospettiva, in base alla quale l’ingresso nel primo sarà dato strictu sensu dalla liberazione finale e dal raggiungimento dell’identità suprema, mentre la caduta nel secondo sarà il risultato del fallimento nella quête che porta ad essa. E dal momento che l’Inferno così concepito (qui meglio definibile in termini di “inferi”) include qualunque stato condizionato (ivi compresi quelli che determinano una parziale realizzazione spirituale), esso può certamente ospitare al suo interno anche delle figure eroiche e sacrali. Queste, del resto, vanno considerate in senso eminentemente simbolico, come riferimento a coloro la cui liberazione è differita al termine del ciclo cosmico (kalpa), e che rimangono fino ad allora ancorati alla manifestazione. Per questo la tradizione cristiana parla dei patriarchi e dei profeti dell’Antico Testamento liberati dal Cristo, il cui sacrificio escatologico ne permette l’uscita da quel “Limbo” che, nella rappresentazione dantesca, è a tutti gli effetti un girone infernale.[25] Il Paradiso e l’Inferno possono quindi essere considerati secondo una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali può tramutare l’uno nell’altro in relazione ai diversi gradi di vicinanza o di separazione dal Principio.[26] Del resto, la differenza tra le due dimore ultraterrene (o tra queste e la vita terrena) non esiste che dal punto di vista delle creature, i cui gradi di conoscenza e di ignoranza rendono “beatifica” o “tormentata” la medesima relazione che esse intrattengono con la gloria sfolgorante del Sé.
Risulta chiaro, pertanto, che gli esoterismi delle tre religioni abramiche, tanto per la loro visione della dignità sovrana dell’Uomo che per il fine ultimo a cui tendono, rientrano a pieno titolo nell’ambito della spiritualità solare. Si potrebbe dire lo stesso per quanto riguarda la declinazione tradizionale degli essoterismi a cui si ricollegano, nella misura in cui il loro fine ultimo (cioè il raggiungimento della salvezza, implicante la beatifica fissazione perpetua dell’individuo nei prolungamenti dello stato umano, che gli permetterà di scampare all’eventualità di trasmigrare in un’altro stato individuale) comporti, al termine del ciclo, quantomeno l’accesso ad uno stato sovraindividuale o “angelico”.[27] In caso contrario, essi si confermeranno invece delle forme di spiritualità lunare tanto formale che sostanziale; la quale, nella molteplicità delle sue declinazioni, può intendersi in un senso puro e luminoso che, all’interno delle condizioni proprie dell’età del ferro, riproponga una sorta di “demetrismo” argenteo per tutti coloro che, non avendone le qualifiche necessarie, non possono partecipare all’elitaria via degli iniziati. Gli “eroi” che simboleggiano questi ultimi rappresentano, a loro volta, la possibilità sempre attuale di un ritorno microcosmico dell’età dell’oro, la cui “era” è da situarsi innanzitutto nell’eterno presente, e per i quali la “civiltà della madre” sarà da intendersi nel senso di un materno generatore di virilità.[28]
[continua]
NOTE
[1] Cfr. R. Guénon, Sull’esoterismo cristiano, Luni 1995, parte I cap 2. Il medesimo giudizio verrà reiterato privatamente nella sua corrispondenza epistolare con Evola, in merito alla quale cfr. R. Guénon, Lettere a Julius Evola (1930-1950), Arktos 2005, p. 72.
[2] Cfr. J. Evola, Metafisica del sesso, Edizioni Mediterranee 2006, pp. 208-212. È interessante notare che il peculiare approccio alla sfera della sessualità e del rapporto con la dimensione corporea dell’essere umano è solo parzialmente debitore del retaggio abramico o semitico del cristianesimo (l’idea del sesso o della cura del corpo come intrinsecamente peccaminosi è sconosciuta sia agli ebrei che agli arabi), essendo soprattutto il risultato dalla moralizzazione (e dell’introduzione nell’ambito della vita ordinaria di tutti i fedeli) degli ideali e delle prassi ascetiche di cui sopra. In merito al punto di vista morale nelle tradizioni abramiche, cfr. infra, nota 12.
[3] Questi sono Atzīlut (stato di non-manifestazione), Beri’ah (manifestazione informale), Yetzīrah (manifestazione formale allo stato sottile), e ‘Asiah (manifestazione formale allo stato corporeo), cosí chiamati in corrispondenza con le azioni divine elencate in Is. 43, 7. I quattro mondi della Qabbalah sono rappresentati, nella tradizione esoterica occidentale, dai quattro semi dei tarocchi (bastoni, coppe, spade, e denari), i numeri delle cui carte sono invece rapportati alle dieci sefīrot. Nella Bibbia, il processo emanativo delle possibilità di manifestazione è invece indicato dalla “caduta” di Adamo, che implicherà quell’allontanamento dal Centro (il “giardino” in cui viene posta ab origine la creatura che rappresenta lo stato centrale e sintetizzante della Manifestazione, e che è deputata ad essere il vicario del Principio in seno a quest’ultima) dal quale consegue l’assimilazione della molteplicità distintiva a discapito dell’originaria visione unitaria (simboleggiata dall’atto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male). Da questo momento, i progenitori si macchiano del “peccato originale”, di cui partecipano anche i loro discendenti in quanto potenzialità insite nella propria individualità. Evola sbaglia, pertanto, quando paragona criticamente il mito di Adamo a quello della conquista del vello d’oro da parte di Giasone, o dei frutti dell’immortalità da parte di Gilgameš ed Eracle; questi indicano, piuttosto, la reintegrazione iniziatica dello stato centrale, il cui corrispettivo giudaico-cristiano è dato dal re-ingresso nel giardino dell’Eden da parte di Seth per prendere in custodia il Graal, o dal suo successivo ritrovamento da parte di Parsifal e di Galahad.
[4] L’oggetto di questo sacrificio primordiale è lo stesso Adam qadmon, che è qui identico al Purusha del Rg-Veda (X, 90) e agli altri esseri delle mitologie di diverse civiltà tradizionali, la cui uccisione e smembramento sono all’origine della creazione del mondo e dell’uomo.
[5] Secondo la prospettiva esoterica, lo stesso “Israele” non è nient’altro che l’élite inizatica, il vero “popolo eletto” destinato alla liberazione dalla schiavitù di questo mondo, e così chiamato a compiere il proprio ingresso nella “terra promessa” in cui si realizza l’età dell’oro ventura, e si ricostruisce il “terzo Tempio” della Gerusalemme celeste. La visione ad un tempo macro e microcosmica della reintegrazione finale dimostra come la funzione del Cristo, oltre che di natura escatologica, è parimenti iniziatica.
[6] E parimenti “Leone di Giuda”, simbolo eminentemente solare che rimanda anche al “ruggito” emesso dal Buddha, nel momento in cui giunse all’Illuminazione.
[7] Il “politeismo” è erroneo solo quando attribuisce ai numina una natura indipendente, giungendo fino alla contraddizione logica di concepire più princìpi infiniti e perfetti che, tuttavia, limitino vicendevolmente la propria perfezione e infinità. È questa l’idolatria (in arabo: shirk) che le religioni monoteiste condannano nel “paganesimo” e che, secondo il maestro sufi Muyhī al-Dīn Ibn ʿArabī, costituisce l’unico peccato che determini la permanenza perpetua nell’Inferno.
[8] Anche secondo la tradizione bhakti indù l’essere umano deve considerarsi al cospetto del sommo Vishnu come un servitore (in modo simile ad Hanuman di fronte a Rama) o un’amante (come le gopi di fronte a Krishna). A tal proposito, cfr. Swami Nikhilananda, The gospel of Sri Ramakrishna (abridged edition), New York 1980, pp.
[9] Cfr. R. Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale, cap. 32.
[10] Cfr. M. Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica d’Israele, Laterza 2003, pp. 225-228.
[11] Limitandoci alle scritture cristiane, vedasi ad esempio Gv. 8, 44, e Mc.79 5-13.
[12] Cfr. R. Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale, Edizioni Studi Tradizionali 1967, cap. 9. La mancanza di un punto di vista propriamente morale nelle forme tradizionali di tipo non-religioso non significa, ovviamente, che queste ultime condonino l’immoralità. Esse sono, piuttosto, amorali, perché il punto di vista in questione è a loro indifferente, e ciò che la morale richiede in fatto di adesione puramente esteriore a dei principi che vengono considerati quali meri imperativi etici o doveri sociali (la cui non-osservanza è giudicata in termini di “peccato”), è da esse accolto solo come intima affinità e innato desiderio di conformazione agli attributi divini di bontà, bellezza, purità, giustizia, et cetera; i quali, a loro volta, non costituiscono oggetto di imposizione alcuna, se non nella misura in cui gli attributi in questione informano la legge tradizionale (dharma) che mantiene la comunità umana in armonia con l’ordine cosmico.
[13] I tre figli di Noè rappresentano le razze sorte dopo il diluvio, stirpi che condividono modalità sottili comuni e che, perciò, si manifestano con caratteri simili.
[14] Tra le quali consideriamo qui anche l’Islamismo, benchè (in quanto eredità diretta della prisca tradizione abramica) esso si ricolleghi alla spiritualità israelitica solo in senso lato, allacciandosi formalmente alla linea della rivelazione biblica. Un esempio di deriva tifonica della tradizione islamica è dato dalla pan-eresia kharigita, che il Profeta Muhammad ha dichiarato appartenere alle forze che serviranno l’Anticristo alla fine dei tempi, e di cui il movimento wahhabita viene tradizionalmente considerato una tardiva manifestazione.
[15] Cfr. R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi 1997, cap. 20.
[16] Cfr. Plutarco, Tutti i moralia, Bompiani 2017, pp. 1277-1281. In una precedente fase politeista della religione israelitica, Yahveh è una divinità guerriera della tempesta, che guida l’esercito divino contro i nemici di Israele, e lotta per la salvezza del mondo contro il drago/coccodrillo Levīatan (manifestazione di tehom, l’abisso cosmico primordiale menzionato in Gn. 1, 2, ed equivalente della babilonese Tiamat, sconfitta da Marduk). Il tema dello scontro tra un dio delle forze atmosferiche ed un mostro marino è ricorrente nella mitologia universale (Zeus contro Tifeo, Thorr contro Jormungandr, Ra contro Apofis, Indra contro Vṛtra…), ed indica il processo cosmogonico della manifestazione a partire dal caos indifferenziato. Si osservi anche che, nel successivo monoteismo ebraico-cristiano, le funzioni del Yahveh arcaico verranno traslate nella figura dell’arcangelo Michele.
[17] Nella tradizione indù si dirà, per l’appunto, che l’individuo non si è elevato oltre il “cielo della Luna” (candra-loka), limite ultimo degli stati formali.
[18] Spesso tale sentiero ultraterreno viene simbolicamente equiparato alla ricompensa spettante ai guerrieri caduti in battaglia (il Valhalla della tradizione norrena, o il paradiso dei mujahidin musulmani), e ciò a motivo dell’analogia esistente tra la piccola e la grande guerra santa.
[19] Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee 2007, pp. 93-99.
[20]È la dottrina delle trasmigrazione, intesa come continuo ritorno al vortice dell’esistenza di un identico nucleo personale, causato dall’ignoranza della propria vera natura. Esso non è però l’individualità umana, ma il Sè che, nel presente stato dell’Essere, si è di essa “rivestito”. Si tenga altresì presente che, riguardando qualunque stato condizionato (ivi compresi quelli sovraformali e “celesti”), la trasmigrazione del Sè non può essere riduttivamente considerata nell’ottica di un soggiacere alla “legge ctonia” di un principio telluricamente soggetto alla rinascita come individuo, concetto che suggerisce una trasmigrazione nei soli stati formali. Nè può essere confusa con la dottrina della reincarnazione, che è una pura e semplice impossibilità logica estranea all’autentico insegnamento tradizionale.
[21] Trattasi degli svarga (intesi come cieli sublunari) e dei naraka della tradizione indù.
[22] Cioè i deva della tradizione indù, o gli dèi del “paganesimo”. Questa possibilità è l’esito auspicabile della perpetuazione post-mortem dello stato umano, che costituisce la “salvezza” di cui parlano le religioni abramiche. Quest’ultima non va poi confusa con ciò che la supera nell’ambito della realizzazione spirituale, motivo per il quale è erroneo vedere in essa una “democratizzazione” della via eroica, che si riferisce invece al cammino iniziatico e che, anche nella tradizione abramica, è sempre stato appannaggio di una élite spirituale. Vero è che, con l’avanzare della decadenza ciclica, le stesse vie iniziatiche possono degenerare in senso proselitistico, ed è altrettanto vero che le qualificazioni richieste per venirvi ammessi possono diventare meno rigorose. In quest’ultimo aspetto convergono però delle considerazioni di carattere ciclico non necessariamente attinenti ad una decadenza intellettuale delle autorità preposte all’iniziazione. Ad esso si riferisce la parabola evangelica dei vignaiuoli, ed è per questo motivo che anche diversi maestri indù considerano desiderabile la nascita nel kali-yuga (cfr. H.H. Wilson, The Vishnu purana, London 1840, pp. 627-629).
[24] Cfr. A.K. Coomaraswamy, Chi è Satana e dov’è l’Inferno?, in: Rivista di studi tradizionali, numero 43. Nella prospettiva essoterica della Chiesa Cattolica, tale concetto è adombrato dalla definizione dogmatica dell’Inferno come “auto-esclusione dalla comunione con Dio”. Anche la tradizione islamica insegna che i dannati sono essenzialmente tali in quanto la visione di Allah è loro interdetta in perpetuo.
[25]In un’ottica microcosmica (dove gli inferi rappresentano gli stati inferiori dell’Essere, in cui l’iniziato “discende” quale tappa preliminare per la realizzazione dei piccoli misteri), essi sono invece la conoscenza precedentemente (e per sempre) acquisita, che ora riposa placidamente nel “grembo di Abramo”, in attesa di essere ri-attivata (cfr. G. G. Filippi, Discesa agli inferi, Novalogos 2014, p. 82, nota 35).
[26] Nella misura in cui l’ingresso nell’Inferno è un preludio all’accesso al Paradiso, si potrà allora parlare di “Purgatorio”. L’esistenza di uno specifico locus oltremondano con questo nome è teorizzata dalla sola dottrina cattolica, mentre il Giudaismo, il Cristianesimo ortodosso, e l’Islam contemplano la possibilità di una fuoriuscita dall’Inferno dei credenti peccatori.
[27] Cfr. R. Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale, op. cit., cap. 8.
[28] La fuoriuscita dell’eroe dal focolare materno può essere simbolicamente espressa sia da un atto di volontà della madre (che educa il proprio figlio a realizzare pienamente ciò che è chiamato ad essere) che dalla rimozione dell’ostacolo da essa rappresentato ad un certo punto del percorso spirituale. Ritroviamo quest’ultimo esempio nella leggenda di Parsifal, la cui madre muore di dolore quando il figlio l’abbandona per diventare cavaliere.
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