Cosa sono gli scritti di Julius Evola? Il libro per Evola cosa è e che cosa rappresenta? Qual’è il senso profondo dell’intera opera evoliana? Siamo fermamente convinti, e non da ora, che per tentare di dare una risposta a tali quesiti sia necessario, diremmo inevitabile, cercare di pensare in guisa contestuale sia l’opera scritta che quella vissuta, la linea dell’esperienza esistenziale evoliana in uno con ciò che ha scritto, il suo essere autentico, nel significato ontologico, insieme alle Immagini, ai Simboli, ai Pensieri viventi, alle vicende dello Spirito, come esperienze catartiche dello stesso, che Evola “racconta” nelle sue pagine, come se fossero tutte l’autobiografia cosmica del Soggetto universale che, con la sua persona quale Io storico-sociale, non ha avuto mai nemmeno il pur minimo rapporto di mediazione. Si dirà che Evola ha pur scritto un libro, Il cammino del Cinabro, che è un’autobiografia intellettuale, ma essa è, infatti, di natura assai differente da quello che vogliamo esplicitare con il nostro discorso.
La vicenda intellettuale narrata, consiste nell’esposizione, seppur profonda ed esplorativa delle ragioni causali di un processo di conoscenza e progettualità culturale, del Sapere come frutto, effetto, risultato… che
Vi è, infatti, in essa un intero e complesso Logos, unico, sebbene organicamente diversificato, che, in termini oggettivi, cioè al di là della stessa volontà intellettuale dell’autore, presenta l’autentico Essere, inteso come Spirito, Mente, che è, in termini solari, asciutto e superiore, distaccato, Sovrano e Invisibile, palesemente cosmico, quindi al di là e al di sopra del soggetto come individuo che, proprio perché visibile, resta semplice specchio umano dello stesso. Tutto ciò non solo Evola medesimo lo evidenzia nei suoi scritti ma lo rivendica e lo indica come meta, esito necessario ed inevitabile del percorso di sublimazione gnosica dell’umano in quanto Identificazione-riconoscimento con e nell’Assoluto. Il fatto che Evola medesimo sia consapevole di ciò non significa altro che il “suo” Io o ciò che “era” tale (o che forse non lo è mai stato…) è stabilmente il medesimo dello Spirito stesso che è come dire puro Intelletto, il nous dei Greci; e significa inoltre che il percorso che ha per esperienza il Fine dell’ “Io sono Te!”, percorso esclusivamente di natura iniziatico-solare, egli lo ha vissuto da Vegliante, sempre desto ed in uno stato di coscienza che è autocoscienza e, quindi, apollineamente Autoconoscenza attiva. In Evola, pertanto, la identificazione con l’eghemonikòn è senza dubbio un processo che è già, in fieri, il Risultato; il che vuol dire che egli è, per natura essenziale e da sempre, il “Signore” che è Sè stesso, in una parola, il Sé, l’Ātman dei Veda. Nella Tradizione Platonica, che è teosofico-sapienziale ed a cui Evola appartiene, lo stato dell’Essere, ciò che ontologicamente esso è, e nella misura e nel grado in cui quell’esso è identico all’egli, coincide, essendo effettuale, con lo stato del Pensiero, atteso che in tale Tradizione, Essere e Pensiero sono il Medesimo, Tautòn! Da Platone, Plotino, Proclo, Marsilio Ficino, Gemisto Pletone, Jacob Boehme, sino ad Hegel, la Filosofia è intesa e vissuta infatti come Teosofia che è Teoscopia, e, in senso esoterico, autentica divinificazione che è Teogonia assolutamente estranea a qualsiasi sofisticheria libresca o intellettualistica: secondo tale Tradizione spirituale, la vita o è filosofica o non è, è ritualità costante e consapevole o non è nulla di vivente, è e deve essere vita che si sveglia come più-che-vita, Anima che si sveglia come Spirito, è vivere accanto agli Dei al fine di divenire simile agli Dei (omòiosis Theò), pensando ed essendo necessariamente e naturalmente nella dimensione del Divino, che è l’esperienza del Mondo come l’immagine dell’Eterno nella Luce e la Rivelazione del Sé come Fuoco dei Primordi: Solfuro di Mercurio. E proprio in tale stato, come livello ontologico dell’Essere (qui siamo già nell’oggettività universale..) che Evola, in uno sia con la sua esperienza di vita che con ciò che ha consegnato negli e con gli scritti, è nella dimensione del Sé che è il Mondo come Idea divina, dove la somiglianza con il Dio è tanto invisibilmente visibile quanto la sublimazione dell’Io storico è visibilmente invisibile; dove la prima è invisibile all’occhio fisico ma visibile all’occhio della Mente, mentre per il secondo vale il contrario. Vogliamo dire che, come è sempre manifesto nella spiritualità Platonica che è simile a quella Ermetica, ciò che appare agli occhi fisici, la persona visibile, il soggetto storico è come trasfigurato, nel senso proprio etimologico del termine; esso va, oltre la propria “figura” come immagine, e viene sostituito, nel senso che “diviene” o si Sveglia, con ciò che è sempre stato, solo che non vi “era” il Sapere, la consapevolezza, poiché è assente la metànoia, l’indiarsi; qui ciò che emerge, avanza, si presenta da sé, in termini non temporali ma logici, è la Potenza (dýmamis) del Divino medesimo come Luce dell’Essere (che è l’Essere nella Luce) come stato interiore indicibile che è l’Intuizione, la Visione e non più il soggetto storico; si manifesta, quindi, il Simbolo. Come accade in tutte le Tradizioni, sia nella loro dimensione dommatica con la santità o con il misticismo psicologico-narrativo che nel superiore livello sapienziale, che è tanto la Tradizione Platonico-neoplatonica quanto la Filosofia Ermetica, le opere, la vita, la persona medesima non sono più, anzi non sono mai state, relative ad un Io legato a quel “momento” storico né appaiono come “fatti” conoscibili solo nel movimento del Divenire, dell’essere e del non-essere; tutt’altro! Essi sono, si presentano e sono conoscibili solo ed in quanto, divenendo, entrando e, quindi, pensando nella loro dimensione, si divenga simili a tale stato dell’Essere, che è sempre tanto “interno” quanto il medesimo del cosiddetto “esterno”, Mondo unitario che nessuno vede e di cui nessuno sa alcunché!
Si conosce quindi solo ciò che si è e si è solo ciò che si conosce, poiché c’è totale corrispondenza concreta e vivente, nel senso che sono identici, tra l’Essere ed il Sapere nei loro rispettivi e diversificati livelli.
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A chi insegnano e di cosa parlano, pertanto, Plotino e Proclo, il primo in un’“epoca d’angoscia” ed il secondo al tramonto avanzato, che è quasi notte, del mondo Classico! Ed a chi si rivolge Gemisto Pletone nella dimensione tragica del momento storico in cui la sua persona fisica vive? E gli stessi Boehme ed Hegel, il primo letteralmente incompreso, mistificato e perseguitato dal suo tempo ed il secondo tanto vivente nella modernità quanto straordinariamente antico e/o eterno, quasi un novello Proclo, e quindi anch’egli stravolto e non compreso, a chi espongono il loro logos, le loro Visioni (da sapienti visionari quali sono…), di quali Dei parlano, a quale Mondo si riferiscono, a quale essere come esserci, cioè uomo, fanno appello?
Indubbiamente tutti, mutando solo il lessico e la struttura del Discorso, pensano poiché sono e quindi parlano della dimensione ontologica del Mondo, dell’Essere dello stesso a cui loro sono simili, parlano da simili agli Dei agli stessi Dei, del Divino a coloro i quali sono nel Divino; è, in una parola, il Sé invisibile, è l’Idea che parla al Mondo in quanto questo è la sua immagine speculare e quindi il Sé visibile, è lo Spirito che parla a Sé di Sé medesimo; tale Logos può avere sia la forma dialogico-dianoetica che è necessariamente “narrativa” che la forma intuitivo-noetica in cui la vicenda dello Spirito non c’è più, poiché è presente la Conoscenza immediata, istantanea (l’exàifnes platonico, vedi Lettera VII) che irrompe nell’Istante, anche se dopo lungo tempo passato nella esperienza precedente, cioè la dialogica; che assume, quindi, la stessa funzione catartica del Rituale Misterico come iniziazione al Sapere, alla Conoscenza suprema. Sia per quanto concerne la vita, come testimonianza di un più-che-vita, che gli scritti, testimoni anch’essi della invisibilità visibile del Sé, su Evola è da svolgere e tematizzare il medesimo discorso. Se si riflette, l’intera vicenda storica dell’uomo non fa che rendere manifesta e reale la simbolica di un farsi, di un processo realizzativo, proprio come le “stazioni” catartiche di cui parlavamo innanzi, sino ed oltre l’evento occorso al filosofo, a causa dei bombardamenti su Vienna. È il Sé che viaggia nel tempo, sul tempo, attraverso il tempo, ma non appartiene ad esso; è il Sé, impassibile, esente da passioni, sentimenti, ideologie e da qualsiasi caratteristica umana troppo umana, invisibile ad occhi fisici, ma presente come la luce del Sole, che, in pieno 1943 e nel cuore della tragedia dell’Europa e dell’irreversibile tramonto di quello che era l’ultimo grande tentativo di Resurrezione della Tradizione dello Spirito indoeuropeo, riapriva e approfondiva il dialogo con l’India vedica nella forma della sua ultima epifania come quella dell’Ascesi dello Svegliato. Vi è, però, una “traccia”, una fonte, dove la dottrina e la Rivelazione del Sé appaiono in guisa tanto evidente, diremmo pedagogicamente evidente, che la riflessione su la stessa è necessaria proprio per “leggere” come e quanto fosse consapevole lo stesso Evola della manifestatività della Forza, della Funzione, dell’ Archetipo, quale persona autentica, in quanto maschera oggettiva ed universale del Nume. È proprio l’opera Cavalcare la tigre che squaderna tutto ciò e lo fa in guisa tanto eloquente quanto necessariamente teosofico-iniziatica. In buona sostanza, affermare che essa è l’archetipo dello stato superiore del Pensiero equivale a sostenere che essa contiene, esprime e presenta la “meraviglia”, lo “stupore” filosofico della Rivelazione del Sé, della sua naturale emergenza nell’uomo che non è più tale ma ormai differenziato, attesa la perfetta reminiscenza (nei termini dell’Anamnesi platonica) della sua autentica natura.
Tutto ciò è il processo di Identificazione, che è Sublimazione di quello che era l’Io, riconosciutosi ormai Sé, con il Mondo, nella dimensione, nel livello di Essere simile al Sé medesimo. È la Verità dell’Anima che parla a Se stessa di Sé stessa e della sua “storia” che non è tale ma Eterno Presente: Evola ha sempre affermato che tutto inizia e termina nel Mercurio, tanto Ignificato quanto Lunare, cioè nell’Anima! In ciò consiste il segreto più nascosto di ogni Logos iniziatico, nascosto, esoterico in quanto Indicibile: “L’Uno infatti non è in un punto qualsiasi ma è presente solo in chi può toccarlo e in chi non può non è presente…” (Plotino, Enneadi, VI; 9, 7). Alla fine del Ciclo, sia come si evince dalla lettura spirituale e universale della Spirale di Stefanio, antico simbolo della Tradizione alchemica ellenistica, che come insegna Aristotele, nel momento dell’avanzata maturità o tramonto di una Civiltà, la Filosofia, intesa sempre nel significato e secondo la Tradizione platonica, giunge certamente al Sapere che poi, con l’inabissarsi di quella civiltà, scompare nell’Oblio, ma intanto essa è sorta come Domanda Ascetica fondamentale,come Via Secca e come ricerca dianoetica della risposta, in quanto la Tradizione mitico-religiosa, ormai al tramonto, non manifesta più la potenza della Verità ed ogni rapporto con la stessa, anche e soprattutto come Rito pubblico e cerimoniale, si affievolisce. È così che dalla crisi del culto religioso, dal suo inaridirsi, sorge il concetto, come pensiero concreto e vivente, della Vita Filosofica in quanto vita rituale e cultuale, che si avvia a sostituire, nella sostanza spirituale del Rito filosofico interiore, secondo la tradizione neoplatonica di Plotino, il culto religioso tradizionale, divenendo così Culto Filosofico (“non io devo andare agli Dei ma gli Dei venire a me!” afferma Plotino) che è la “costruzione” dello Spirito, la “fabbricazione” dell’Oro perduto (come affermerà la Tradizione Ermetica); l’uomo Filosofo, come insegnano Socrate e Platone, è quindi il nuovo Sacerdote, il nuovo Eroe guerriero, incarna pertanto quasi il ritorno degli Eraclidi, dell’uomo omerico che osa pensare, vivere e quindi essere l’uomo della Tradizione, nonostante l’Oscurità del tramonto, questo è il significato della Rituale purificazione della Mente che è poi l’esperienza del Gruppo di UR, dove è assente qualsiasi forma di cerimonialità, attesa la natura oscura del presente Ciclo. Evola, infatti, in Cavalcare la tigre, particolarmente nella parte centrale della stessa, non fa che presentare lo stato dell’Essere in cui la dimensione della Trascendenza non solo è presente ed operante ma, a differenza della esperienza mistico-penitenziale, che è sostanzialmente passiva, è consapevolmente e quindi intellettualmente presente, attiva e quindi magica poiché è effettuale al riconoscimento, allo svegliarsi, al Sapere di essere sempre stato solo e soltanto il Sé e che solo attraverso il Sapere, la Conoscenza si può giungere all’Identificazione che è la legge suprema di ogni Tradizione iniziatica: “Non essere uomini buoni è il compito, ma essere Dei!”, insegna, infatti, Plotino. Quando Evola qui parla di Apollinismo dionisiaco, in sostanza, opera una “traduzione” dell’immagine orientale che è il cavalcare la tigre in quella occidentale, dove, ciò che è lo stato dell’Essere è al contempo lo stato del Pensiero, dove esso non è altro che la dimensione superiore della Mente (manas nei Veda, mens in latino) che è come dire, in termini mitico-religiosi, Apollo, il Sé, che si specchia nel Mondo e vede Sé medesimo come Dioniso; è Apollo pertanto che “cavalca” Dioniso, dove, infatti, a Delfi l’altare del Dio del Divenire era collocato sotto quello del Dio dell’Essere. Appare oltremodo evidente che nel concetto, che è Pensiero Vivente, dell’Apollinismo dionisiaco, Evola ha indicato la Verità, nel livello esoterico della stessa che è quello spirituale: tale concetto è la realtà sia del micro che del macrocosmo, dove poi le “due” dimensioni sappiamo essere una sola e cioè l’Uno.
Se Apollo è la Mente sovrana, è il Sé impassibile, potente ma in atto da sempre, Invisibile ad occhio fisico, Egli, proprio nello specchiarsi nel Mondo, che è il Divenire, immagine mobile dell’Eterno, come insegna Platone, vi vede la sua Immagine, il Sé visibile come essere e non-essere, cioè Dioniso che, come ci rammenta Plutarco, è Apollo capovolto o, come afferma Eraclito, è l’Ade; pertanto la Dottrina del cavalcare la tigre non è solo l’insegnamento per i tempi ultimi, non è solo l’esperienza dello Spirito relativa alla possibilità di attraversare le Tenebre, con l’ausilio delle stesse, per non solo mettere in una sorta di “prova” la dimensione del Sé ormai rivelato ed uscirne poi indenne ed Invitto, ma è il Destino Cosmico e quindi eterno, che sempre inizia e termina dove inizia per poi rinnovarsi in Circolo, del Principio, dell’Uno che, ermeticamente, deve uscire da Sé medesimo (proodòs), scendere nei Mondi, competere con essi e conoscere che tutti gli stati degli stessi, quali Coscienze, Civiltà, Storie e Vicende delle stesse, non sono altro che “storie” della sua stessa Vita come movimento, per poi ed in virtù di tale acquisito Sapere, ritornare in Sé, nell’Uno, quale Essere immutato (epistrofé). Pertanto, sia l’immagine del Cavalcare la tigre come quella dell’Apollinismo dionisiaco quanto quella del processo neoplatonico del proodòs ed epistrofé, esprimono il medesimo logos cosmico, che è anche relativo al piccolo cosmo, dove il Fuoco che arde ma non consuma è la “lucida follia”, è il Sapere come gnosi che si coniuga, abbraccia e cavalca l’eros che è la mania come uscita di senno, cioè dal piccolo Io; e questa è anche la natura, come essenza, della vera Filosofia; nonché del concetto evoliano di apolitia, che tanto ha fatto discutere interpreti ed esegeti del suo pensiero e che è così apparentemente e quindi essotericamente lontano dall’azione e dalla paideia politica quanto lo sono state l’esperienza e la battaglia di Platone in Sicilia, conclusesi, come è noto, con la sua sconfitta davanti agli eventi del mondo, restando integro ed immutato nei Cieli, l’Archetipo del vero Stato che egli indica. È, infine, il medesimo itinerario di cui parla lo stesso Evola in Tradizione ermetica a proposito della Via Secca e di quella Ultrasecca, dove quest’ultima è la più consona alla catastrofe spirituale della fine del Ciclo e quindi ad un novello tempo degli Eroi.
Aristotele, smentendo, ovviamente, ogni futura fisima “progressista”, afferma (Metafisica, XII, 8, 1074a, 38-b) che la conoscenza Mitico-Religiosa, che è Simbolica, nasce e si sviluppa nei vari cicli storici, sempre da una precedente e superiore ancorché perduta Conoscenza Suprema che è la Filosofia, giunta all’apice del Sapere alla fine, alla maturità del ciclo che precede, essendo poi travolta dal cataclisma che è la causa della fine di quel mondo e di quella civiltà; Aristotele, in guisa straordinaria, ha così rivelato qualcosa di autenticamente vero: la Filosofia sorge come ricerca del Sapere apicale e quindi supremo, in quanto Atto Eroico nell’età oscura, cioè proprio alla fine del ciclo; Hegel, d’altronde, esprime il medesimo pensiero quando afferma che “la Filosofia è la nottola di Minerva che s’invola sempre al calar della notte”, essendo essa non un sapere aurorale ma il Sapere Assoluto a cui si giunge dopo che lo Spirito ha percorso l’intero ciclo delle sue esperienze; Evola con ed in tutta la sua Opera non ha fatto altro che indicare, esplicitare e tematizzare tale Verità; in particolare Cavalcare la tigre (che è quindi l’Apollinismo dionisiaco) presenta proprio l’esperienza del Sé come stato superiore del Pensiero, della Mente, talché può affermarsi che, se la Filosofia è il Sapere della maturità di una Civiltà e l’esperienza dello Spirito nonché la relativa dottrina contenute in Cavalcare la tigre sono l’unica Via che l’uomo differenziato deve percorrere alla fine del ciclo, può affermarsi, quindi, che la Dottrina spirituale difesa e vissuta da Evola è la Filosofia medesima, nel suo autentico significato che è quello platonico-ermetico cioè iniziatico-sapienziale, quale ultimo grande tentativo eroico, nonostante la Notte apparentemente imperante, di restaurare ciò che si è perduto: l‘essere sempre più simili agli Dei, che è l’Anamnesi dell’esserlo sempre stati!
Giandomenico Casalino