26 Giugno 2024
Cultura

Karl Jaspers ed il senso (frainteso) della storia – Umberto Bianchi

Sull’origine ed il senso della storia, tante se ne son dette e se ne diranno ancora. Tra storici, filosofi, teologi (tanto per citarne alcuni, sic!), sin dai tempi che furono, è stato speso un profluvio di parole e di scritti per cercare di dar un senso o, quantomeno, dipanare e dar un ordine a quell’aggrovigliato succedersi eventi che pare essere la Storia del genere umano. Interrogarsi sul senso della Storia, significa, in fin dei conti, cercare di dare un senso alla nostra esistenza. Cominciarono i Greci con Erodoto e Tucidide, proseguirono i Romani con Tito Livio e Tacito e poi giù, oltre lungo i secoli bui dell’Evo Medio, sino all’Età Moderna e ad un rinnovato interesse per quella Storia, ora guardata sotto l’ottica di un interrogativo esistenziale, corroborato dalle scoperte delle varie scienze specialistiche sorte a partire del 19° secolo, tra le quali, meritano esser menzionate tra l’altro, l’antropologia, la sociologia, la linguistica, l’archeologia, non senza però tener a mente “in primis”, la filosofia.

Qui l’interrogativo si incentra su una riflessione alimentata da quelle istanze neokantiane e vitaliste, che vedono nella civiltà un vero e proprio organismo vivente, oggetto di cicli e fasi esistenziali che ne contraddistinguono la presenza sul proscenio. Vitalismo a fine Ottocento fa il paio con Decadentismo, ma anche con tutto un dibattito che, iniziato con il Romanticismo, troverà i propri prosecutori in autori come Alfred Weber (fratello del più famos Max…), Eisenstadt, Arnold Toynbee, Ferdinand Braudel, Osvald Spengler ed altri ancora, tutti intenti a dare una definizione unitaria di “civiltà” e della “fisiologia” ad essa insita o ad un particolare aspetto di essa o di una sua particolare fase, come nel caso della studiosa Maria Ginbutas.

Jaspers non è propriamente uno storico: è piuttosto un filosofo della Storia, annoverato quale pensatore “esistenzialista”, vicino pertanto al pensiero heideggeriano (e pertanto inserito nel filone nietzschiano…) o anche, per chi lo preferisca per certi aspetti meramente ideologici, a quello di Jean Paul Sartre. Fatto sta che quello sull’Origine ed il Senso della Storia è un testo che merita essere preso in esame e discusso un momento. Tesi di fondo del testo, l’idea che le coordinate spirituali della nostra civiltà, prendano avvio dalla cosiddetta Età Assiale che, a partire approssimativamente dal IX  sino al III secolo A.C., avrebbe prodotto una serie di rilevanti cambiamenti spirituali, che avrebbero riguardato i principali focolai di civiltà del Vecchio Mondo.  Zoroastro in Iran, Parmenide, Eraclito ed i Presocratici in Grecia, Lu Tzu in Cina, in ambito Indù le elaborazioni delle Upanishad, il sorgere del Buddhismo sempre nel medesimo Subcontinente indiano, il Deutero-Isaia ed i Profeti nell’ambito religioso israelitico, costituiscono le manifestazioni di una presa di coscienza a livello globale di cui forse, l’umanità mai più avrebbe potuto fruire, quanto ad intensità ed elevazione spirituale.

L’uomo inizia la riflessione razionale sulla realtà e sulla stessa essenza dell’Assoluto con tutta una serie di elaborazioni che accomunano tutte assieme contesti e civilizzazioni differenti. Il concetto di Essere in Parmenide, al pari di quello di Nirvana o Brahman Nirvana in Ambito Indo-Buddhista, o quello di Tao in Cina con Lu Tzu, ci riportano ad una nuova forma di riflessione sull’intera realtà, non più intesa “sub specie aeternitatis” bensì oltre la stessa dimensione metafisica , sulla cui natura ora ci si va interrogando. Nel porsi questi interrogativi, l’uomo va prendendo coscienza della singolarità della propria condizione esistenziale e della sua apertura a quell’Essere che lo investe anche e specialmente nei suoi più tragici aspetti e che, pertanto, ne va sottolineando la radicale impotenza. E’ pertanto l’età d’inizio di una lunga riflessione che in Occidente partendo dai Pre Socratici condurrà a Socrate, Platone ed alfine, al Cristianesimo, in India al Buddhismo, in Palestina alle più profonde elaborazioni dei Profeti.

E’ l’Età questa, della graduale fine della Città-Stato e dell’inizio delle costruzioni statuali a carattere universale, ovverosia gli Imperi. In Cina gli Huang Ho, in India i Maurya, in Occidente Alessandro Magno e l’Ellenismo, lo Stato romano, nell’inaugurare una stagione di profondo mutamento socio politico, finiscono con il riconfermare una volta di più quella dimensione di dispersione interiore dinnanzi alla quale l’individuo si trova drammaticamente proiettato, ma anche la poderosità della riflessione che ne deriva. Una riflessione che, andandosi ad incentrare sulla potenza esistenziale dell’individuo, lo porta ad isolarsi, al fine di raffinare al massimo le proprie elaborazioni, sempre più all’insegna di un accentuato solipsismo. E’ l’Età degli asceti nel deserto, degli anacoreti, dei Profeti, le cui elaborazioni, a detta del Nostro, rivestono un valore “assiale” non quanto ad elaborazione razionale, ma in quanto prodotti intellettuali “in pace” con lo svolgersi ed il rappresentarsi dell’Essere.

L’Età Assiale assume, dunque, la valenza di una profonda presa di coscienza, di un colpo di reni quali pochi ve ne sono stati nella storia dell’intero genere umano. Solo la scoperta del fuoco, intesa quale prometeico momento di risveglio dell’umanità e, forse, l’attuale Età della tecnica, su cui, però, si appuntano le nubi di dubbio dell’autore e di cui parleremo oltre. Tutto quel che oggidì siamo deriva, dunque, da quei secoli di profondo risveglio e riflessione a cui si contrappongono le centinaia di  migliaia di anni di incubazione del genere umano, che vanno sotto il nome di “Preistoria” e di cui l’uomo non ha né memoria né coscienza alcuna, se non l’archetipo richiamarsi a schemi comportamentali, situazioni, immagini che riaffiorano dalla notte dei millenni, in questo riconfermando una visione profondamente influenzata da suggestioni psicanalitiche. Lo stesso palesarsi dell’Età Assiale in contesti geografici differenti e, peraltro, non comunicanti tra loro (se non molto occasionalmente…) sembra riconfermare quanto poc’anzi detto, proprio nel senso di uno junghiano riaffiorare dell’archetipo dell’inconscio collettivo a livello globale.

Si passa così, da un mondo la cui visione della realtà è tutta impregnata in motivi puramente sognanti e mitopoietici, ad uno impostato su una riflessione razionale, attiva, tutta incentrata sulla condizione tragica dell’uomo. A dare un ulteriore contributo a tali considerazioni, anche le interessanti anche le disamine sulle strutturali differenze tra Oriente ed Occidente e sul fondamentale contributo spirituale delle migrazioni indoeuropee, la cui forma mentis avrebbero offerto il contributo decisivo al processo assiale. E sin qui tutto bene. Il testo di Jaspers, offre suggestioni  e motivi di discussione a bizzeffe. A un certo punto, però, il nostro comincia ad addentarsi nell’analisi del mondo contemporaneo e della sua struttura Tecno Economica e qui, alla stessa guisa di un prestigiatorello da strapazzo, l’un dopo l’altra, tira fuori mirabolanti soluzioni, come tanti asfittici coniglietti dal proprio liso cilindro. A suo dire il mondo, a causa dell’assoluto predominio della Tecnica, derivato da un malinteso uso di essa, va irrefrenabilmente incontro a quello che, in passato imperi e regni a vario titolo, non riuscirono mai a realizzare, ovverosia l’unificazione globale all’insegna di un’ecumene spirituale che qui, nella fattispecie, sarebbe rappresentata dall’ideologia ugualitarista demo-liberale, di cui il nostro apprezza le virtù, dopo essersi buttato a capofitto nell’analisi dei due massimi sistemi dell’epoca: il socialismo marxista e, per l’appunto la democrazia. E, chiaramente, dopo aver dedicato intere pagine a demonizzare dittature et similia, dopo aver amorevolmente pontificato contro individualismo e senso di sopraffazione, si lancia nella stesura finale del suo progetto : quello dell’unificazione globale.

Un solo modello, una sola civiltà, tutti uguali ed amorevolmente affratellati, a patto però, che l’uomo non scherzi troppo con quella Techne che, se mal adoperata, dell’uomo e della sua civiltà potrebbe rappresentare invece la tragica fine.  Conclude il testo un oscuro ritorno alla “ratio” filosofica: l’uomo non può pretendere alla perfezione né al miglioramento, né alla gestione dei processi storici. Egli è aperto a quell’Essere di cui riceve le suggestioni al più potente prometeismo, ma anche alla più tragica percezione della sua ontologica impotenza. Pertanto la Storia finisce con il venir annullata da quell’Essere che fa dell’uomo un ente immerso nella dimensione di un perenne presente, al di fuori della quale non potrà mai situarsi, con il rischio di rimanere per sempre incagliato nella corrente dell’inafferrabile indeterminatezza del Divenire storico. Il testo Jaspersiano, partito con una potente intuizione va spegnendosi  e diluendosi nella palude di un racchio possibilismo ontologico. Sì certo, la democrazia e questo attuale modello, sono pieni di magagne ed imperfezioni, la natura dell’uomo è fallace e con questo bisogna campare e pertanto il cammino dell’uomo è un continuo riadattamento ed andare al compromesso, nel suo protendersi lungo l’Essere.

Al di là di suggestioni e magagne ideologiche, il testo di Jaspers, presenta numerose lacune e svarioni, in parte attribuibili ad una determinata impostazione ideologica, in parte ad una datata impostazione storiografica. Il primo macroscopico difetto della “welthanschaung” jaspersiana, sta proprio in quel suo rifarsi ad un’ontologia parmenidea, intrisa di monoteismo sin nelle proprie midolla. Quel monoteismo da lui mai rinnegato o superato, e che anzi, fa da sottofondo all’intera sua narrazione filosofica. Lo stesso infilare acriticamente i Profeti israeliti all’interno dell’Età Assiale, dimentico del divario ontologico tra questi ultimi e gli altri protagonisti di quel periodo, costituisce una grave lacuna. Il monoteismo che, nella Profetologia israelitica ha trovato uno dei suoi fondamenti, dell’Età assiale costituirà proprio la tara, quell’elemento che cercherà via via di uniformare, omologare e soffocare (specialmente in Occidente…) la variegata creatività dell’Età Assiale nel nome di un “unicum” metafisico che farà da battistrada all’avvento dell’attuale Globalizzazione. Se, quella dell’Età assiale rappresenta certamente un’intuizione degna della massima attenzione, se è vero che, ad un certo punto, vi fu il contemporaneo fiorire di intuizioni in vari angoli del mondo, va però detto che il Nostro tende a farla un po’ troppo semplice.

Non si può affermare che il mondo sino alla cosiddetta Età Assiale, fosse rimasto in panne. Basterebbe citare civiltà come quella Egizia, una tra tutte, per rendersi conto della frettolosità di certe affermazioni. Certamente si passò da civiltà imperniate su una religiosità per lo più teurgica, legate ad un modello socio economico che conferiva, per lo più, un ruolo centrale all’istituzione religiosa, gradualmente sostituiti poi da un modello in cui il ruolo dei sacerdoti e dei re-guerrieri sarebbe andato sempre più bilanciandosi, sino ad invertire il rapporto a favore di questi ultimi, (questo in ispecial modo in occidente, sic!). Né, in assoluto, il sognante mondo del mito sarebbe stato soppiantato dagli iridescenti lumi di un’avanzante ratio filosofica, che avrebbe visto il repentino sorgere di asceti o anacoreti, sino ad allora assenti dalla scena. In India, per fare un esempio, la stessa filosofia delle Upanishad, continuerà a presentarsi come vera e propria “Teosofia”, ovvero riflessione razionale all’interno della dimensione divina. E tornando all’India, essa da sempre, da ben prima dell’Età Assiale, è stata terra di “sadhu” e “rishi”, figure di veri e propri asceti itineranti, anacoreti in grado di vivere anche per anni in completa solitudine ed isolamento. La stessa tradizione aedica nella Grecia pre omerica, ci riporta a rivedere in ben altra ottica le posizioni di Jaspers.

Iniziamo con il dire che, checché se ne affermi il contrario, tra mito e filosofia esiste una specie di misteriosa continuità. Se, sino ad un certo momento storico, la riflessione sulla struttura ultima dell’intera realtà, trovò le proprie risposte all’interno del medesimo ambito religioso ed in particolare, in quello mitico, sarà da quello stesso ambito che quella riflessione si dipanerà in direzione del senso e dell’origine dell’Assoluto. Questo, in particolare in Occidente, trova il proprio punto di partenza proprio nel mito Prometeico, metafora dell’umana aspirazione ad usare il sacro fuoco della conoscenza, per illuminare (e dominare) la realtà intera, in un continuo rasentare quel limite oltre il quale si incorre nel peccato di “ubris”/superbia ed in quella maledizione divina che, nella tragica fine di Prometeo, trova la propria più pregnante rappresentazione. Il richiamo al mito continuerà a ripresentarsi, anche se adeguato e ricorretto allo spirito dei tempi, continuamente, in tutte le successive elaborazioni del pensiero, da Platone, al Neoplatonismo ed alla Gnosi, sino alla filosofia della Rinascenza ed allo stesso sognante Utopismo di un Tommaso Campanella ed in molte altre, successive, narrazioni filosofiche occidentali. Le stesse narrazioni più materialiste, non potranno mai fare a meno di una contrapposizione con quella dimensione superna di cui dovranno, comunque, concepire la presenza anche se solo per smentirne successivamente e per deduzione logica, l’esistenza.

Ora, se per Jaspers l’Età Assiale, rappresenta il momento di presa di coscienza dell’uomo della propria drammatica singolarità e del proprio sconforto esistenziale. Se in un tale momento l’individuo troverà conforto nell’anacoresi e nelle parole dei vari Profeti o Illuminati che dir si voglia. Se l’uomo proietterà se stesso in una riflessione che lo porterà a guardare dall’alto quello stesso Assoluto, per cercare di aprirne e sezionarne i più segreti recessi. Bene, nell’ottica di un radicale esistenzialismo parmenideo, tutto questo potrebbe esser invece inteso quale irrimediabile perdita. Perdita di quel senso di comunione ed osmosi con l’Essere che avevano, invece, caratterizzato i millenni precedenti, durante i quali l’uomo conversava con Dei, Dee, Ninfe, Driadi, senza il bisogno di alcuna mediazione profetologica  e, prima ancora, con tutte le forze di quella Natura Naturans, agli occhi dei moderni intesa quale oscura matrigna da sfruttare con spirito mercantile. Certo, il graduale prender coscienza di sé, lo scrivere, sino ad oggettivare in grandi costruzioni logiche ciò che, naturalmente albergava nel proprio animo, porteranno il genere umano a grandi progressi, a vedere la realtà con occhi da dominatore , ma anche ad una graduale ed irrimediabile perdita di cui, oggi più che mai, la nostra civiltà porta le dolorose conseguenze.

Nel suo tentativo arrangiaticcio di trovare soluzioni pseudo pacifiste e buoniste a questo stato di cose, Jaspers sembra lì per lì voler applicare e far sua la junghiana suggestione di un archetipo dell’inconscio collettivo, senza però riuscire ad inquadrarne la esatta valenza che va, invece, ricercata nella storia dell’umano pensiero o, più esattamente, nella storia del suo manifestarsi, nell’ottica di una vera e propria “fisiologia” di quest’ultimo. Ed allora, non può non sovvenirci l’idea di una mente “bicamerale” tanto ben rappresentata nello scritto dello studioso americano Julian Janes  “La crisi della mente bicamerale e la nascita della coscienza” secondo il quale, gli antichi possedevano un’altra modalità d’uso della mente, definibile, per l’appunto, “bicamerale” e consistente nell’uso dell’altro emisfero cerebrale, in una modalità schizofrenico-estatica. Una modalità che, ben al di là dal costituire un fatto meramente psichiatrico, agli occhi di un attento osservatore, dovrebbe costituire, invece, la prova provata della passata esistenza di un canale aperto di comunicazione, tra due differenti piani di realtà che una volta, contrariamente a quanto oggi accade, si intersecavano ed interagivano. E così, ancora una volta, il tentativo di dare una spiegazione ed un senso alla Storia del genere umano, ricorrendo a categorie ed a parametri sempre più desueti e scaduti, quali egualitarismo, universalismo, progressismo, vetero testamentarismo e via dicendo, si risolve in un bel nulla di fatto, al pari di un gatto che nel tentativo di mordersi la coda, gira e rotea su se stesso, senza alcuna soluzione di continuità.

UMBERTO BIANCHI

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