11 Ottobre 2024
Tradizione

KARMA NAZIONALE: linee fondamentali e prospettive – Gerardo Lonardoni

Il concetto di karma

Karma è parola di origine sanscrita, entrata però nell’uso comune. Benché chi scrive sia tutt’altro che esterofilo, preferiamo usare questa espressione perché una volta spiegati funzione e significato nel contesto non soltanto individuale ma nazionale, sarà più facile comprenderne il significato. Nell’uso comune, si crede che karma indichi una sorta di remunerazione automatica da parte del destino, per le nostre malefatte; una “sanzione divina” per quanto siamo stati cattivi. “Hai fatto questo e quello, riceverai per punizione …” E’ un concetto che non solo non ha niente di autentico e nemmeno di orientale, ma in realtà non è neppure di tipo occidentale tradizionale; affonda piuttosto le sue radici nell’idea, mediorientale e cristiana, di “peccato”.

Dio ti ha punito perché Adamo millenni fa non doveva mangiare la mela nel Giardino. Karma, invece, è la legge di causa ed effetto, spostata dal piano meramente materiale ad ogni livello dell’esistenza; la legge che spiega in che modo si producono le cause e si generano gli effetti, non solo delle nostre azioni, ma anche e soprattutto dei nostri pensieri. Possiamo partire da un famoso discorso del Buddha: “Semina un pensiero e raccoglierai un’azione. Semina un’azione e raccoglierai un’abitudine. Semina un’abitudine e raccoglierai un carattere. Semina un carattere e raccoglierai un destino” (Anguttara Nikaya, discorsi del Buddha). Spiega ulteriormente il Risvegliato, precisando ancor meglio il suo pensiero nel prosieguo del discorso: “Poiché la mente precede i modi d’essere, originati dalla mente, creati dalla mente. Nella mente ha origine la sofferenza. Nella mente ha origine la cessazione della sofferenza”. Il Buddha ci dice che ogni azione nasce dalla nostra mente; noi prima generiamo un pensiero, poi trasformiamo questo pensiero in azione. La catena dei pensieri genera catene di azioni che col tempo si stratificano, determinando il nostro carattere e, inevitabilmente, il nostro destino.

I pensieri sono cause di azioni. E poiché le nostre azioni si intersecano con quelle di tutti gli altri uomini, si generano le catene causali che determinano la nostra vita: dalle amicizie al matrimonio, dal lavoro che scegliamo o per cui veniamo scelti, alla nostra morte per una causa o l’altra. Misteriose energie magnetiche allacciano infiniti rapporti fra noi e ogni altra realtà nell’universo, ma all’origine di tutto c’è la nostra mente. Si vede chiaramente che questo concetto è ben più vasto e onnicomprensivo della credenza così “cristiana” e occidentale, che il karma si ridurrebbe a un codice “ricompensa – punizione”. Il karma è invece la catena delle cause che generano nella nostra dimensione ogni sorta di effetti (tanto buoni quanto cattivi) e plasma ad ogni istante la nostra realtà interiore ed esteriore. La nostra vita non è determinata solo dalle azioni che abbiamo commesso o subìto, ma anche (e forse ancor più) dai nostri pensieri, emozioni, sentimenti. E poiché, come dice il discorso del Buddha sopra citato, tendiamo a ripetere e reiterare continuamente le stesse azioni e gli stessi pensieri, ci rinchiudiamo da soli in una rete che ben presto diviene quasi inestricabile. Superare questa rete è possibile, poiché, come ancora ci dice il Buddha: “nella mente ha origine la sofferenza, ma nella mente ha origine anche la cessazione della sofferenza”. Tecniche e strumenti per superare tale stato di cose esistono, ma non sono l’oggetto di questo saggio; basti per ora sapere che non esiste un destino ineluttabile, almeno finché non si supera una certa soglia di non ritorno. Il karma, sinteticamente parlando, è ciò che ci rende causalmente quel che siamo e determina le linee di evoluzione più probabili. La cosa su cui vogliamo focalizzare a questo punto l’attenzione, è che come esiste un karma individuale che ci accompagna nella nostra vita rendendoci quel che siamo, esiste un karma delle nazioni in cui riposano le cause profonde di ciò che esse sono: grandi o piccole, potenti o deboli, avanzate secondo i nostri parametri oppure retrograde. Sappiamo tutti quali sono le nazioni più importanti del pianeta, ma sappiamo che ve ne sono altre che “sulla carta” hanno forse potenzialità ancor più grandi, ma al contrario sono deboli, incapaci, corrotte. Avrebbero risorse e popolazione tali da potere fare concorrenza alle prime, e invece spesso ne sono addirittura le vittime. Le cause possono essere le più varie – generalmente la più importante è la corruzione, che drena le migliori risorse della nazione impoverendo i molti a vantaggio dei pochi – ma in ultima analisi la vera causa è il karma nazionale. Molte nazioni hanno avuto uomini eccellenti che hanno lottato per il bene comune, ma spesso i loro sforzi sono stati del tutto inutili. La loro nazione non li ha riconosciuti nel loro vero valore e li ha osteggiati, senza rendersi conto con ciò di condannarsi da sola ad essere mal governata e indebolita. In questo saggio tratteremo della nazione che ci riguarda più da vicino: l’Italia. E proveremo a capire quali uomini ed eventi hanno portato al maturare della attuale situazione.

 

Dimensione causale e karma nazionale

Nel karma dell’Italia sono confluite le catene causali che si originarono al tempo delle popolazioni primitive che la abitarono, poi delle civiltà che si sono succedute sul suolo nazionale: l’Etruria, la Magna Grecia, le popolazioni celtiche e soprattutto Roma.  Poi i Goti, i Longobardi, i Franchi e gli Arabi; e ci fermiamo qui perché non serve fare l’elenco. La compresenza sul suolo italico di questi influssi tanto diversi fra loro non ha nulla di straordinario, molte nazioni ne hanno avuti altrettanti senza esserne affatto menomate nella capacità di essere forti e coese. L’Inghilterra è un buon esempio: dopo le popolazioni che edificarono i menhir, di cui non si sa quasi nulla, arrivarono i Celti, poi i Romani, poi gli Angli e i Sassoni, poi una serie di invasioni vichinghe prodromiche alla “Conquista” del duca Guglielmo e dei suoi Normanni. Eppure la nazione si è mostrata nei secoli unita e compatta contro ogni nemico esterno, e ciò malgrado vi siano sempre stati seri problemi interni con irlandesi, scozzesi e gallesi. Anche il fatto che l’Italia sia stata a lungo divisa in staterelli in lotta fra loro è un falso problema. Accadde lo stesso alla Germania, che si unificò contemporaneamente a noi ma fece subito udire il suo ruggito in tutta l’Europa, schiacciando la Francia, che pure era una nazione indipendente e unita da secoli e aveva grandi fasti militari anche nel suo recente passato. La Svizzera è sempre stata ed è tuttora divisa in staterelli, che addirittura sono separati anche da diverse fedi (cattolica e protestante) e lingue (tedesco, francese, italiano) ma questo non altera affatto l’unitarietà indissolubile con cui si è sempre mostrata al mondo. Dunque il caso italiano va considerato a parte. La storiografia può dirsi realmente iniziata nella penisola solo a partire dall’epoca repubblicana romana. Prima di tale periodo non esiste alcuna documentazione di eventi avvenuti in Italia, eccetto pochi accenni di autori greci; questi iniziarono a interessarsi realmente a Roma solo quando divenne una potenza mediterranea e conseguentemente sviluppò una propria storiografia indipendente. Ciò che leggiamo sui libri di storia delinea i popoli dell’Italia romana come razze fiere, bellicose, con un forte senso di identità nazionale. Man mano che la potenza di Roma si espandeva, queste popolazioni furono assorbite dall’impero ed entrarono a farne parte, dapprima in modo forzato e ostile, poi sempre più partecipe e convinto. La città egemone saggiamente estese molto per tempo il diritto di cittadinanza a queste popolazioni, le quali furono assorbite nel mondo romano a tal punto, da dimenticare la propria stessa identità nazionale originaria. L’esempio più eclatante fu l’Etruria, civiltà molto avanzata e che possedeva sicuramente una letteratura propria, cui tuttavia rinunciò completamente per aderire a quella romana, all’opposto di quanto invece fece la Grecia, che fu sempre fierissima della propria cultura. Gli Etruschi abbandonarono anche la propria lingua per usare il latino, tanto che l’etrusco divenne rapidamente una lingua morta e oggi abbiamo difficoltà a interpretare correttamente i pochi testi sopravvissuti. E fu propria in Etruria, ormai chiamata Toscana, che nel medioevo nacque il vernacolo destinato a diventare la lingua nazionale: l’italiano.

Nell’epoca monarchica, repubblicana e imperiale, Roma ovviamente sviluppò un karma estremamente complesso e potente, in quanto si tratta del più grande impero multinazionale della storia. Non il più grande in senso quantitativo, poiché per estensione fu sicuramente superato ad esempio dall’impero mongolo (che si estendeva peraltro anche su immensità desertiche); bensì più grande in senso qualitativo. Roma estendeva la propria ombra su popolazioni molto numerose per l’epoca e il suo dominio si prolungò per un tempo straordinariamente lungo; possiamo iniziare a parlare di un “impero romano” (non in senso strettamente politico, ma figurato), almeno a partire dal II sec. C., quando la città era ancora retta da una oligarchia senatoriale. L’impero vero e proprio (perché retto da un solo uomo, il princeps) nasce con Augusto un secolo dopo e dura, quanto alla parte occidentale fino al V secolo, quanto alla parte orientale addirittura per un ulteriore millennio. Nessun impero a noi noto è mai perdurato per un tempo così lungo. Quando la parte occidentale dell’impero si dissolse definitivamente, nel 476 d.C., dopo una lunga e dolorosa decadenza, le nazioni europee del Mediterraneo rapidamente costituirono regni indipendenti il cui governo era affidato a re germanici; la Spagna con i Visigoti, la Francia sotto i Franchi. L’Italia sembrò avviata a percorrere lo stesso cammino ed ebbe anzi in sorte due re germanici, a loro modo entrambi straordinari: prima Odoacre, poi soprattutto Teodorico. Quest’ultimo prevalse sul primo e fondò un vasto e potente regno, che comprendeva non soltanto l’intera Italia eccetto la Sardegna, ma anche vaste zone balcaniche. Sotto il suo regno illuminato l’Italia sembrò tornare ai fasti di Roma; la nazione, “primogenita” del potente impero appena tramontato, rapidamente svettò su ogni altro popolo europeo, avviandosi a un destino che tutto lasciava presagire luminoso. Ma qualcosa non andò per il verso giusto. Tanto nella penisola, quanto all’estero desta sorpresa la straordinaria diversità che mostra il carattere dell’Italiano “medio” dall’immagine che ci facciamo degli antichi romani. Questi ultimi erano un popolo le cui caratteristiche, come noi ce li rappresentiamo, erano fierezza, consapevolezza del proprio valore e dell’universalità della propria cultura, capacità di assorbire altre etnie e religioni nella propria, trasformandole da potenziali minacce a pilastri di sostegno della romanità. Un aspetto importante da sottolineare è che l’impero romano – caso unico nella storia – conferì ad ogni abitante dei suoi vasti territori il diritto di cittadinanza quanto meno a partire dalla Constitutio Antoniniana di Caracalla (212 d.C.); molti tuttavia avevano già ottenuto il riconoscimento da tempo, un esempio famoso fu San Paolo che, ebreo di nascita, già nel 1° sec. d. C. era un civis romanus. Molti di questi stranieri (rispetto agli italici) giunsero ai più alti vertici della gerarchia amministrativa e militare e alcuni addirittura divennero imperatori: Settimio Severo era nordafricano, Massimino il Trace balcanico, Domiziano illirico. Il millenario dalla fondazione di Roma, che cadde nel 248 d.C., fu festeggiato da un imperatore dal nome eloquente: Filippo l’Arabo, perché era nato ai confini del deserto. Tale esempio d’integrazione è rimasto unico nella storia: se un indio peruviano avesse cercato di farsi eleggere imperatore di Spagna nel XVIII secolo, o un pakistano avesse seriamente cercato di diventare sovrano d’Inghilterra, sicuramente non sarebbero finiti bene.

I Romani apprezzavano ogni valore, purché autentico, e ogni popolo purché fosse disposto a contribuire alla grandezza di Roma; a tali condizioni erano disposti a lasciar percorrere a chiunque il cursus honorum, la carriera politica, fino alle vette più eccelse e impensabili per qualunque altra nazione. I Romani erano consapevoli del proprio valore e del valore della propria civiltà e pur essendo pronti ad accogliere benevolmente i valori altrui, non erano affatto disposti a rinunciare ai propri. Ospitavano volentieri nel proprio pantheon dei e dee esotiche e prestavano loro il dovuto culto – o lasciavano che altri lo prestasse – ma questo non comportava affatto che voltassero le spalle alla propria tradizione. Questo, e non altro, fu il motivo della persecuzione (quando ci fu) dei cristiani: che di accettare gli dei e i valori altrui non avevano la benché minima intenzione. E qui notiamo una prima stridente discordanza col carattere italiano successivo: che dell’esterofilia, dell’amore per tutto ciò che è straniero, del disprezzo più o meno larvato e più o meno ostentato per la propria tradizione e la propria grandezza, ha fatto una bandiera. Tanto i Romani riuscivano ad esempio a diffondere la propria lingua in tutti i popoli conquistati, altrettanto gli Italiani sono pronti a servirsi di ogni vocabolo straniero che “suoni bene” al posto dei propri. Tanto i Romani tenevano fede ai propri dei e dee, quanto gli Italiani (alcuni) si dimostrano pronti ad ammainare bandiera e sottomettersi moralmente a culti stranieri. Al contrario, i Franchi fin dal loro stesso sorgere come nazione dalle spoglie dell’impero romano, furono un popolo aggressivo e combattivo e lo stesso accadde ai Visigoti di Spagna, che contesero palmo a palmo agli arabi invasori il terreno della patria, finché non furono pronti a iniziare la loro gloriosa Reconquista.

Gli Ostrogoti che si erano stabiliti in Italia non avevano nulla da invidiare (anzi!) ai Franchi e ai loro cugini Visigoti. Teodorico era affascinato dalla cultura romana. Aveva imparato a conoscerla ed apprezzarla fin da bambino, perché era stato inviato come ostaggio alla corte dell’imperatore d’Oriente. Ambiva a far rinascere Roma mediante un’opportuna unione tra la forza militare germanica dei suoi Ostrogoti, e la capacità amministrativa dei Romani. Aveva infatti lasciato la cura della cosa pubblica ai più esperti funzionari romani, riservando invece al proprio popolo la difesa militare. Aveva restaurato le antiche grandi opere della romanità ormai cadute in rovina, e compiuto ogni sforzo per mantenere la pace tra il suo popolo e quello latino. Ciò non era facile perché gli Ostrogoti erano comunque dei conquistatori, avevano usi diversi dai Romani e – cosa che nella terra del papa aveva grandissima importanza – non erano cattolici, ma ariani. Era comunque soltanto questione di tempo: la fusione delle due etnie, latina e germanica, sarebbe stata compiuta, se non subito, qualche generazione dopo. Come infatti infine accadde secoli più tardi, ma in circostanze ben più sfavorevoli. All’inizio del VI sec. d. C. l’Italia era tornata ad essere la più grande potenza del Mediterraneo. Teodorico incarnava in misura davvero notevole, per essere un re germanico, i princìpi della pax romana e lottò vigorosamente perché l’Europa, stremata da secoli di invasioni barbariche (compresa all’inizio la sua) conoscesse finalmente una quiete costruttiva. La pace tuttavia era costantemente messa in pericolo dai Franchi del re Clodoveo che, al contrario, non era mai sazio di terre e trovava ogni pretesto per espandersi, a danno dei vicini e a costo di guerre sanguinose. Teodorico chiuse i conti anche con lui; quando la misura fu colma, inviò in Francia due eserciti ostrogoti che sconfissero sanguinosamente i Franchi ad Arles, fermandone definitivamente – per allora – l’avanzata. Cinquant’anni dopo questi fasti straordinari, l’Italia era completamente desolata e spopolata da guerre, epidemie, terremoti. Persa ogni potenza, era divenuta la colonia di un impero – quello bizantino – che secoli prima essa stessa aveva fondato. Il suo futuro appariva molto fosco, ma gli eventi successivi si sarebbero dimostrati ancora peggiori del temuto. Teodorico infatti muore, forse avvelenato, nel 526 d.C. e il suo potente regno si avvia subito al tramonto. Una perniciosa alleanza tra elementi latini influenti da un lato, l’imperatore d’Oriente che aspira a riconquistare la parte occidentale e in primis l’Italia dall’altro, e naturalmente il papa, condanna a morte il regno ostrogoto; Giustiniano cerca il casus belli, lo ottiene, e subito invade l’Italia. Gli Ostrogoti resistono strenuamente ma la loro sorte è segnata: dopo una guerra durata decenni che spopola l’Italia e l’annienta come nazione, la penisola viene incorporata dall’impero bizantino, che la tratterà come una colonia sottomessa anziché come la culla del proprio stesso potere.

Cosa aveva potuto arrestare un’ascesa che appariva così irresistibile? Perché gli Italiani non si fusero con i germanici come i Gallo-romani e gli Ispanici, ma vollero abbattere il regno ostrogoto, che pure li stava portando a vette di splendore che non avrebbero mai più raggiunto nei secoli a venire? E tutto per entrare nell’orbita dell’impero d’Oriente, che ormai di romano aveva solo il nome? La prima causa fu probabilmente proprio la grandezza di Roma, appena passata nel suo fulgore ma sempre presente nella sua influenza; Roma era eterna per definizione e gli Italici più degli altri ne sentivano l’influsso. Teodorico era un Germano e quindi veniva percepito come un invasore. Non si era forse Roma sempre rialzata dopo le più gravi sconfitte? Anche stavolta ce l’avrebbe fatta da sola, senza bisogno di mescolarsi ai barbari; in questa illusione si crogiolavano i latini del VI sec.. Così gli Italiani di allora persero l’occasione di rivitalizzare la propria civiltà con una mescolanza di sangue nuovo e vitale, ormai non più rinviabile; se ne pentirono ben presto ma l’occasione, che fu invece colta da Gallo-romani e Ispanici, per l’Italia fu perduta per sempre. Il secondo motivo fu la presenza sul suolo italico di un altro potere che andava sorgendo e diventando sempre più forte, superiorem non recognoscens. Quel potere non voleva altri sovrani in Italia e da quel momento in avanti, ogni volta che gli Italiani saranno sul punto di emanciparsene, chiamerà in soccorso potenze straniere e ostili, soprattutto i Francesi, che spegneranno nel sangue e nella devastazione ogni velleità di resurrezione. Queste due forze combinate produrranno un risultato esiziale per l’Italia: l’impossibilità di riunire e saldare il karma dell’Italia nascente del VI secolo d. C., a quello dell’impero romano ormai morente (l’impero era finito sul piano politico ma ancora vivo e presente nel Mondo delle Idee, tanto più che la sua pars orientalis sussisteva ancora).
Il karma romano verrà invece ereditato e fatto proprio da quel nuovo potere che andava sorgendo, che stabilì la propria capitale a Roma e sempre ne mantenne la lingua, anche quando ogni altra nazione al mondo la abbandonerà. Un potere che è sempre rimasto multirazziale e ha lungamente aspirato all’universalità e unicità. L’Italia, privata di quella forza karmica antica cui aveva e tuttora ha diritto, rimarrà da quel momento una nazione deprivata delle proprie autentiche radici, sballottata come una banderuola e a lungo incapace perfino di rivendicare la propria unità e identità. Questo fatto all’estero è ben conosciuto, soprattutto nei paesi che hanno abbandonato la sudditanza al Vaticano:
“… e se si considera l’origine di questo grande dominio ecclesiastico, si percepirà agevolmente che il Papato non è altro che lo spettro del defunto impero romano, che siede, incoronato, sulla sua tomba. Infatti il Papato balzò fuori di colpo dalle rovine di quell’impero pagano.
Anche il linguaggio che usano, sia nelle chiese sia negli atti pubblici, il latino, che non è comunemente usato ora da alcuna nazione al mondo, che cos’è se non lo spettro dell’antico linguaggio romano?” (Thomas Hobbes, “Leviathan”, BUR, pag 854) Quale stupore può quindi esservi nel vedere l’Italia, con la sua storia tanto ricca e gloriosa, ridotta al rango di comprimaria (quando va bene) in Europa, se consideriamo che la parte più ricca del suo retaggio continua tuttora ad essere drenata e succhiata da un’altra entità? Ma, come insegnava il Buddha, il karma creato può essere disfatto; la chiave per riuscirci, ventisei secoli fa come oggi, è l’uso corretto del Pensiero.

Gerardo Lonardoni

2 Comments

  • Francesco Zucconi 14 Novembre 2019

    Lo spettro del defunto impero romano è tuttavia ciò che resta di esso. Il problema è effettivamente tutto lì: se assecondiamo lo spettro, la Tradizione in Italia muore, se non assecondiamo lo spettro, inevitabilmente, apriamo il cuore e le porte a forze non italiche. Lo spettro, poi, avendo poi orientazione semita, non è che accetti di buon grado di esser diretto dalla Tradizione italica, anzi, oramai le ha dichiarato uba guerra senza quartiere…

  • Carlo Biagioli 15 Novembre 2019

    La nostra debolezza quindi deriva dall’antica abdicazione difronte alla religiosità mediorientale, che i nostri avi guardavano con disprezzo e sufficienza, salvo poi arrendersi con Costantino, che portò l’Occidente alla rovina. Siamo orfani e dobbiamo confidare in noi stessi. Lasciamo i deliri religiosi ai mediorientali e liberiamoci da questa antica sudditanza culturale.

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