La musica accompagna l’uomo fin dalla preistoria: con la danza, anzi, è il più antico mezzo di espressione della nostra specie. Dalla più rozza percussione africana e dai primi strumenti a fiato, come i mitici aulos e dialos, sacri al culto di Dioniso nell’antica Grecia, il suono ritmico o armonico ha suscitato emozione, cementato comunità, invitato alla guerra, alla festa o alla preghiera.
Orfeo, con la sua lira, piegava e fermava la natura e gli animali, e da lui presero il nome i misteri orfici, ed il pitagorismo per primo teorizzò e filosofò intorno alla musica, armonia cosmica quanto i numeri e la matematica. Platone, nella Repubblica, forse l’opera di fondazione del pensiero occidentale, assegnò alla musica una posizione centrale, in quanto riflesso dell’armonia del mondo delle idee che può essere attinta dall’intelletto, condannandone però l’esercizio pratico se volto soltanto a provocare diletto, anziché innalzare alla contemplazione. Per altri grandi dell’antichità, come Agostino e Boezio, la musica, vista come scienza del misurare attraverso un ritmo, è capace di mettere in contatto il sensibile e l’intellegibile.
In età più vicine a noi, si assiste ad una valorizzazione della musica come strumento di intensificazione delle passioni e disvelamento dell’interiorità. Schopenhauer parlò di metafisica dei suoni, e definì la musica come l’arte universale capace di collegare le radici dell’essere.
Quanto a Nietzsche, per il solitario di Sils Maria essa è l’arte universale, depositaria dello spirito dionisiaco, ovvero della parte più libera e naturale dell’uomo. Potrei credere solo in un Dio che sapesse danzare, afferma Zarathustra, e musica e danza, così vicine e talvolta inscindibili, rappresentano per lui la vitalità, l’istinto, il ritmo e la volontà di potenza.
Non c’è quindi dubbio che qualunque osservazione o giudizio sulla realtà e su un periodo storico non può essere formulato senza tenere conto della musica che ne è stata la colonna sonora. Ciò è ancora più vero per gli ultimi cinquanta o sessant’anni dell’Occidente.
Mai c’è stata tanta musica, mai ha pervaso in maniera tanto sistematica milioni di vite, mai è stata ascoltata per così tanto tempo e con mezzi così vari e potenti come dagli anni Sessanta. E nessuna forma musicale come il rock ha avuto ed ha l’importanza capitale, lo spazio ed il ruolo nella formazione di un certo modo di vedere e “fare” il mondo, tra le élite e tra decine, centinaia di milioni di persone comuni.
Non è un caso, credo, che il primo grande esistenzialista, Kierkegaard, già nella prima metà dell’Ottocento abbia osservato che “dove i raggi del sole non giungono, pur giungono i suoni “. Tra i sensi dell’uomo, l’udito che distingue la musica, ne individua i ritmi, le armonie e le fughe, gli echi, è probabilmente quello che, per un’alchimia che è insieme spirito e biochimica, più intensamente sa catturare pulsioni, sentimenti, bisogni e paure della nostra specie.
Il rock ha avuto, per una serie di circostanze tecnologiche, artistiche, mediatiche, economiche e politiche, il ruolo di esca e di detonatore di tutte le generazioni occidentali formatesi dagli anni Sessanta del XX secolo. Peccato davvero che un pensatore della profondità di Theodor Wiesengrund Adorno, morto nel 1969, non abbia avuto il tempo di conoscere compiutamente la musica rock e darne un giudizio.
Il Francofortese scrisse infatti un importantissima Filosofia della musica moderna, che può a buon diritto essere annoverata tra gli esiti più alti della riflessione musicologica e filosofica del secondo Novecento. Nell’interpretazione di Adorno le linee di fondo della prima metà del Novecento musicale sono rappresentate da due figure contrapposte, Schönberg e Stravinsky, le cui opere, profondamente immerse nella dialettica storica, riflettono le ansie, i timori, le contraddizioni e la violenza del tempo.
I due compositori, attraverso la musica, rivelano in vario modo la crisi dell’uomo del Novecento, minacciato da forme di dominio che avversano o spengono ogni aspirazione alla libertà.
Schönberg dà voce a solitarie istanze individuali che si confrontano con “tutta la tenebra e la colpa del mondo”. Stravinsky crea un universo sonoro il cui “furore antipsicologico” è modellato a immagine della totalità che reprime l’aspirazione del singolo a esprimersi in forme autonome. In entrambi i casi, per Adorno, la musica non è solo oggetto di interpretazione, ma si pone essa stessa come soggetto culturale, dal momento che elabora una articolata visione del mondo, della quale egli propone la traduzione in termini concettuali.
A partire dai microcosmi sonori dei due compositori, dunque, è possibile intraprendere un’analisi (non priva di risvolti etici) degli aspetti più profondi della contemporaneità. Per questi motivi il testo adorniano è ben più di un saggio di critica, o di sociologia, o di estetica musicale: è il tentativo – per il quale si possono individuare solo pochissimi precedenti nella storia della cultura – di intendere la musica come strumento di indagine della realtà.
Egli, tuttavia, che detestava la musica leggera come banale e ripetitiva, rimase nel recinto della musica “alta” e non ebbe comunque il tempo di volgere sguardo e pensiero al rock. Non c’è dubbio che lo avrebbe fatto: eccellente pianista e fine musicologo, collaborò alla parte musicale del grande libro di Thomas Mann, Doktor Faustus. Certamente, egli sarebbe stato tra i primi a coglierne il carattere dirompente in termini di costume, idee veicolate, impatto sui modi di intendere la vita.
I fatti sono chiari: la cosiddetta musica classica non parla più al cuore dei popoli che pure l’hanno creata ed amata, ed ogni tentativo di rianimare i generi che la compongono, dal melodramma alla musica sinfonica d’orchestra hanno dato scarsissimi risultati. A parte pochi brani, persino le musiche dei giganti della musica sono ignote ai più. Comunque si valuti tale circostanza, non vi è dubbio che tutte le altre forme musicali sono state sostituite, nell’animo popolare, dal rock, e mantengono un carattere di nicchia, o almeno un’ influenza del tutto imparagonabile a quella del rock.
Il titolo della presente riflessione fa riferimento alla decadenza, e dà quindi già un giudizio, non solo sull’epoca nostra, ma in qualche modo anche sulla sua musica più importante.
Giudizio che ha pochissimo di colto in senso musicale, giacché chi scrive è un ascoltatore saltuario e disattento del rock, ma che attribuisce a tale forma di arte e di conoscenza una valenza, non un valore artistico, negativo rispetto a ciò che il mondo è, ed è diventato, anche per l’azione della sua musica.
Nei primi anni del nuovo millennio, una giuria di circa cinquecento esperti (ahi, questa categoria di nuovi, insindacabili chierici!) valutò che l’opera d’arte più significativa del Novecento sia stata la Fontana di Marcel Duchamp del 1917. Si tratta di un comune orinatoio di fabbricazione industriale, e l’artista fu tra i fondatori del Dadaismo, movimento artistico nato a Zurigo accanto al Cabaret Voltaire, il cui nome non significa nulla, e che aveva come regola il fare tabula rasa del passato e negare il futuro. L’esito è sotto gli occhi di tutti, e la provocazione dell’orinatoio è ritenuta fondante dell’arte di cui siamo figli. Tragga ognuno la conclusione che preferisce.
Le arti creative hanno via via fatto davvero tabula rasa dell’intero patrimonio culturale europeo, e, demistificata ogni cosa, gettato a mare un mondo, non sono state più in grado di crearne uno nuovo: di qui l’odio di noi stessi che ci paralizza, l’impasse creativo, il vuoto valoriale, l’incapacità di progettare, anzi, addirittura pensare, il futuro comune, fuori da slogan vuoti, essi stessi ormai solo eco di se stessi, come pacifismo, uguaglianza, diritti.
Il rock, in questa potente opera di decostruzione, ha fatto la sua parte, pur se va detto, con uno slancio, una padronanza della propria materia creativa, musica e strumenti, ben superiore ad altri settori della creatività. Autori ed esecutori la musica la conoscono assai bene, alcuni sembrano anche a noi, ignoranti del ramo, autentici geni. Ma un genio fu certamente anche chi realizzò la bomba atomica, o il signor Kalashnikov, il cui fucile d’assalto è efficiente, economico e straordinariamente preciso.
La musica rock, proprio per la sua indubbia capacità di essere creatrice di sentimenti e valori, oltreché inventrice di sonorità del tutto nuove, tratte dalle infinite possibilità della tecnica e della tecnologia, nonché per la sua sensibilità e capacità di rappresentare ansie, tempi, rumori, vita concreta della civiltà urbana, industriale postindustriale, colta e smascherata anche nei suoi lati crudi, sordidi, violenti, è il sismografo più attendibile delle contraddizioni del presente ma è anche la bomba più potente collocata nel cuore stesso di milioni di uomini.
Un fotografia impietosa, il rock, di un mondo in cui il tradizionale equilibrio storico tra armonia, proporzione, centro, limite, natura, e ritmo, velocità, baccano, artificio, è rotto, definitivamente, a favore di un linguaggio musicale, riflesso di quello civile, duro, spietato, talora osceno, ma che, sempre ed in modo definitivo, chiude con tutto ciò che è stato “prima”. Musica del nostro tempo davvero, quindi, giacché il conflitto tra vecchio e nuovo, passato e futuro, mitologia del progresso e del moderno, che tale è solo oggi e fino a stasera, ha sostituito tutte le categorie concettuali tradizionali, bene o male, giusto o sbagliato, bello e brutto.
Una rivoluzione, imponente e profonda, da valutare nella sua connessione con tutto ciò che ha cambiato in modo permanente, alcuni dicono sfigurato, la visione del mondo di questa fetta di umanità. Le generazioni formatesi negli anni successivi alla tragedia della seconda guerra mondiale vivevano indubbiamente la contraddizione tra le idee di chi, vincitore del conflitto, proclamava di aver liberato l’umanità dal male totalitario, ma nei fatti manteneva intatti rapporti di potere, stili di vita, gusti, che i più giovani consideravano passati, autoritari, svuotati di senso.
Nell’America trionfante che aveva ormai soppiantato l’Europa come guida del mondo, emerse un movimento giovanile, detto beat generation, contraddistinto da un forte spirito di ribellione e di rifiuto verso i valori tradizionali della società, famiglia, patria, religione, culto del lavoro e del successo, nel quale confluirono e si articolarono altri movimenti, quali il pacifismo, specie negli anni della guerra del Vietnam, il femminismo e le rivendicazioni civili dei negri americani.
Tale atteggiamento di rottura ebbe come esponenti più rappresentativi scrittori come Jack Kerouac (Sulla Strada), Allen Ginsberg, William Burroughs, artisti tutti caratterizzati da un linguaggio violento (Urlo è il titolo di un’opera di Ginsberg), da esperienze estreme di sesso, alcool, droghe. Il sodalizio tra Ginsberg e Burroughs era soprattutto attrazione e pratica omosessuale.
Per imitazione, nell’Inghilterra che aveva perduto l’impero, ma mantenute intatte le fondamenta di un potere classista e stratificato, si sviluppò la corrente dei Giovani arrabbiati, il cui esponente più noto fu il commediografo Ted Osborne.
“Beat” poteva significare tanto stanco, abbattuto, termine gergale dei ghetti americani, quanto ottimista, beato, e questa duplicità già ne esprime le complessità e le anime contraddittorie. La musica colse al volo le nuove tendenze, e fu l’Inghilterra a inaugurare la stagione della musica beat, che prese forma tra il 1962 e il 1967 e si caratterizzò anzitutto per la nuova strumentazione (chitarre e bassi elettrici, batteria), ripresa dal rock and roll.
Figlio dell’ America, specie del Sud agricolo, il rock and roll univa i suoni profondi e la tristezza del blues nato dal mondo degli schiavi di colore con la musica popolare di ascendenza europea, in particolare celtica e germanica (folk, country) degli immigrati bianchi.
Dopo le prime stagioni di Elvis Presley, con il suo carico di ritmo, di esplicito erotismo e di un suono del tutto nuovo, amplificato dal microfono e dalla diffusione di nuove tecniche elettroniche, venne rapidamente varcata la linea di confine tra il generico ribellismo adolescenziale del rock ‘n’ roll e la nuova consapevolezza del rock come forma d’arte autonoma.
Fu il tempo di Bob Dylan e di gruppi come i Beatles, i Rolling Stones e gli Who. San Francisco, in particolare l’Università di Berkeley fu l’incubatrice di una vera controcultura: i giovani bianchi della classe media elessero la musica come centro della loro esperienza esistenziale, scegliendo la vita comunitaria in opposizione alla famiglia tradizionale, sperimentando la massima promiscuità sessuale e l’esperienza del consumo di vari tipi di droghe, a scopo di liberazione della coscienza ed intensificazione delle sensazioni.
Di enorme importanza, come evento fondante di una vera e propria cultura giovanile costruita attorno alla musica, fu nel 1969 il festival di Woodstock, con artisti come Santana, gli Who, Jimi Hendrix e Janis Joplin. Di immenso impatto fu la prestazione di Hendrix, che radicalizzò e distorse il suono della chitarra elettrica attraverso performance provocatorie, trasformando lo strumento musicale in una parodia dei cannoni da guerra.
Tre giorni di pace, amore e musica, era lo slogan della folla di Woodstock. Il risultato, dopo decenni, è un minestrone indigeribile fatto di una sottocultura di massa a base di musica sparata nelle orecchie ed assorbita come un nuovo vangelo, un senso comune formato dall’ossessione dei diritti civili e dalla mistica pacifista.
Là fuori, intanto, la guerra continua, la gente non ha più legami comunitari e ha orrore della responsabilità, l’amore universale proclamato non si concretizza in rapporti umani almeno sereni o non conflittuali, la solitudine e l’abbandono sono fenomeni che cinquant’anni fa non coinvolgevano che piccole percentuali di uomini e donne, le coppie figlie e, ormai, nipoti, dell’amore libero, nascono e si disfano ogni giorno, nulla è stabile e definitivo.
Il potere globale ha sostituito allegramente i diritti sociali, negati, con quelli “civili” (aborto di massa, divorzio facile, femminismo a base di quote rosa, pansessualismo, omosessualità proclamata come valore, droghe cosiddette leggere legalizzate, alcool e sballo sin dalla pubertà ).
Quell’omicidio di massa dei padri, al suono della musica rock e della cultura del Sessantotto, ha prodotto un affollato deserto. I nuovi valori si rivelano inservibili, nuove ingiustizie si aggiungono a quelle vecchie.
Ma torniamo alla musica: un rock più vicino al blues fu quello dei Doors e del loro carismatico capofila, Jim Morrison, la cui ultima grande apparizione fu quella del 1970 all’isola di Wight, che riprodusse nel Vecchio Continente lo spirito dell’adunata di Woodstock.
Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison morirono giovanissimi per abuso di droghe, e sono proprio le sostanze stupefacenti il leit motiv dei grandi protagonisti del rock. L’impatto emotivo di Woodstock e dell’isola di Wight ha cambiato per sempre non solo la musica, inaugurando un’era di grandi raduni e concerti che dura tuttora, con la follia degenerativa degli attuali rave party, dove sino alla sfinimento i gruppi suonano musiva tecnologica, elettronica, amplificata in maniera esasperata, mentre gli spettatori sballano con miscele di alcool e droga, in un’atmosfera sfrenata, spesso con gli esiti tragici di cui dà conto la cronaca.
Dopo Woodstock, la ribellione giovanile ha avuto le sue colonne sonore ed i suoi eroi, scavando un fossato di linguaggi, idee e sentimenti con il mondo dei genitori che non si è mai più colmato.
Vietato vietare, era già stato lo slogan del maggio francese, la liberazione sessuale faceva emergere il femminismo più radicale, si abbattevano i muri dei legami familiari, l’uso di droghe diveniva problema di massa, qualunque autorità era derisa e svalutata – allora si diceva contestata – il pacifismo dilagava, anche nella forma di stili di vita come quello dei figli dei fiori (hippie).
Colpa del rock, o la musica ha semplicemente intercettato, ed interpretato, un sentimento che ribolliva nelle viscere di nazioni investite, per la prima volta, da un benessere diffuso, ancorché diseguale, e influenzate dalla grande novità della scolarizzazione di massa? Fiumi d’inchiostro sono stati versati per rispondere alla domanda, ma non vi è dubbio che la musica rock è stata il veicolo privilegiato, il canale più possente, di una mutazione genetica che ha investito tre generazioni, dalla metà degli anni sessanta, e decine e decine di milioni di persone.
Tutti conoscono i pezzi dei Beatles, dei Rolling Stones, dubito che più dell’uno per cento degli europei e dei nordamericani sappia individuare un brano di Bach, che pure è unanimemente considerato il massimo compositore della storia. Quanto ai testi, oltre a collaborare alla folgorante ascesa dell’inglese come lingua franca internazionale, è fin troppo chiaro che sono ben più conosciuti dei vertici della poesia e della letteratura. Shakespeare e Dante battono in ritirata dinanzi a testi rock urlati a voce spiegata da milioni di giovani e meno giovani di tutto il mondo.
Mi azzardo, consapevole di attirarmi insulti e dileggio, ad affermare che tutto ciò è stato un male, e che l’attuale declino, anzi degrado dell’Europa e del mondo cosiddetto occidentale, ha tra i suoi protagonisti, il successo, l’influenza, il potente apparato di imitazione e consenso della musica rock.
Essa pure, nata per contestare con buone ragioni l’ipocrisia, l’avidità ed il vuoto morale del mondo borghese degli adulti, ha finito per assumerne alcune delle peggiori caratteristiche, e per farsi catturare, come preda e tesoro di guerra, dal nuovo capitalismo libertario e post-borghese.
Cosmopoliti come loro, privi di identità familiare e nazionale allo stesso modo, liberati da remore morali, sessuali e religiose, estranei ad ogni tradizione, nudi “sulla strada”, come il povero Kerouac, che poi era dipendente dalla madre, aperti ad ogni esperienza, costretti per rilanciare nella vita ad alzare continuamente l’asticella delle sensazioni attraverso l’uso di sostanze di ogni tipo, prigionieri del desiderio compulsivo di esperienze sempre più forti, hanno tessuto la tela per un ragno temibile e cinico: il potere del mercato, l’omologazione perseguita dalle centrali del consenso e della propaganda.
Forse dirò una bestialità per gli psicologi, ma le generazioni del rock, spesso inconsapevolmente, sembrano avere il problema dell’”arousal”, ovvero dell’ eccitazione, del risveglio del livello di attivazione e di vigilanza a partire dal quale si è disponibili a reagire. L’arousal è una condizione temporanea di risposta ad uno stimolo significativo, ad un generale stato di stimolazione, e credo che pochi fenomeni come la musica moderna costringano chi li vive, da protagonisti o ascoltatori-spettatori, ad attingere condizioni interiori tanto al limite.
Di qui le “performances” di musicisti, spesso imbottiti di droghe, che pervengono a risultati artistici insospettati in un’atmosfera paragonabile a quella degli antichi riti dionisiaci, o di sabba, coinvolgendo gli spettatori in atti e comportamenti irrazionali, estremi, o scatenando la disinibizione della sfera sessuale. La novità, rispetto al passato, è che la trasgressione diventa regola, obbligo, addirittura routine da rinnovare ed innescare con sempre nuovi sostegni farmacologici. Quindi, banalizzazione e generalizzazione dell’uso di sostanze di vario genere, un disordine esistenziale che diventa disagio antropologico da curare con dosi omeopatiche di quegli stessi comportamenti ed attitudini che hanno generato il male.
Pensiamo al ruolo dell’acido lisergico, l’LSD, una droga sintetizzata nei laboratori svizzeri della Sandoz, oggi Novartis, gigante di Big Pharma, e poi studiata dalla Cia a scopi di lavaggio del cervello e di interrogatorio di prigionieri, diventata con intellettuali usciti dai laboratori riservati, come Timothy Leary, un prodotto addirittura consigliato ai giovani per le sue funzioni allucinogene e psichedeliche, e che oggi ricordiamo come il prodotto simbolo della generazione e della musica hippie.
Estratto da un parassita del luppolo chiamato ergot, peraltro, era già conosciuto da secoli nell’Europa centrale nella sua forma grezza, e si dice che Jeronymus Bosch, il grande pittore olandese del quindicesimo secolo se ne servisse durante la realizzazione dei suoi quadri così ricchi di figure mostruose, diaboliche e fantastiche, frutto di una visionaria, febbrile, creatività. Allo stesso modo, non possiamo non riconoscere che in molte civiltà e culture la creatività, ma anche la comunicazione con l’infinito o il trascendente è stata favorita, indotta o forzata da sostanze varie, ma in nessuna epoca le droghe hanno goduto della diffusione e della giustificazione morale dell’ultimo mezzo secolo. La musica rock ne è stata banditrice e veicolo privilegiato.
Guardiamo ad un esponente amatissimo ed obiettivamente molto bravo del rock italiano, Vasco Rossi, un punto di riferimento da almeno trent’anni. Tanta musica, bella e meno bella, ma sarà sempre quello di “voglio una vita spericolata, voglio una vita che non dorme mai”.
Si può: basta avere molto denaro, consumare tanta droga per tenersi su, avere una vita sessuale promiscua e compulsiva, correre a perdifiato per il mondo su una moto rombante, guardare senza vedere. Risultato: si è prigionieri del consumo, quasi sempre indebitati, non si riconosce più la bontà o negatività di un’esperienza, basta che emozioni e sia nuova, la salute è presto distrutta, il cervello perde colpi. E’ successo a lui ed a molti meno fortunati del Blasco.
Il cammino del rock, frattanto, è proseguito ed ha continuato la ricerca di suoni, con i Pink Floyd, i Genesis e i King Crimson. Più diretto, ma altrettanto innovativo è stato il glam rock, dove spiccava il gusto per il travestimento e la trasgressione, portato avanti da artisti come David Bowie, scomparto recentemente ed i Queen. A proposito di questi ultimi, si deve rilevare un altro risvolto del rock, quello morboso del satanismo. Canzoni dei Queens lette al contrario sono messaggi di ammirazione per il Maligno, ed allora non stupisce che i giovani assassinati a Parigi al Bataclan ascoltassero un mediocre gruppo rock cantare un pezzo in cui si invitava ad amare e baciare il diavolo. Uccisi da altri giovani disposti a morire per un folle progetto di dominio religioso, ma già morti dentro per i disvalori nei quali trascinavano esistenze prive di direzione.
Il rock ha poi prodotto il fenomeno punk, fatto di rotture sempre più violente, testi durissimi ed iconoclasti, con i famosissimi Sex Pistols, ed atmosfere e sonorità ruvide e immediate. Gli anni Ottanta hanno segnato l’avvicinamento tra rock e pop, e i confini tra i generi musicali sono diventati più labili. Una star cresciuta in quegli anni, come Michael Jackson, maestro del travestimento e della costruzione di sé, è stato ricevuto con tutti gli onori alla Casa Bianca da un presidente, Reagan, considerato ultraconservatore. Ma il denaro non puzza, dai tempi di Vespasiano, e pochi altri, come le stelle del rock e del pop hanno fatto tanto per l’american way of life. Pazienza se Jackson, un uomo sostanzialmente infelice, è vissuto di esperienze sessuali al limite della pedofilia, ed è poi morto in circostanze poco chiare, sfruttato e probabilmente ucciso dai membri di quelle corti dei miracoli che sono state sempre collaboratori, agenti e medici personali dei musicisti.
Negli anni Novanta è ritornata la semplicità delle origini grazie al movimento grunge di Seattle, e le distorsioni esasperate delle chitarre elettriche, voci urlate, nichilismo e voglia di rivalsa tipici di gruppi quali i Nirvana, che hanno cancellato le sonorità vellutate dei secondi anni Ottanta, facendo esplodere la riscoperta del rock. Più recentemente, si è verificata la fusione tra il rock diretto ed elettrico con la raffinata sperimentazione digitale, a cavallo tra minimalismo e ricerca.
Costantemente, il fenomeno droga ha accompagnato geni e virtuosi del rock, e con essa forme di provocazione sempre più accentuate, nei testi, nell’abbigliamento, nello stile di vita. I primi maestri furono i Rolling Stones, guidati dall’intramontabile Mick Jagger, che costituirono il contraltare aggressivo dei Beatles, presto nominati baronetti dallo stesso Impero Britannico che deridevano, ed il cui capofila, John Lennon fu l’autore di Imagine, il cui testo nichilistico è un po’ la summa dell’intero movimento musicale rock e pop.
Alcuni, sono stati davvero grandi, come Jimi Hendrix, chitarrista virtuoso e anticonformista, che radicalizzò e distorse il suono psichedelico in Are you experienced?, mentre i Doors, piegarono le divagazioni “acide” del periodo, dove la parola acido alludeva ad allucinogeni, in particolare l’acido lisergico, alla poesia del loro carismatico leader Jim Morrison.
Non fu invece la cannabis, droga “socializzante” della California, a ispirare a New York i Velvet Underground di Lou Reed, primo esempio di unione multimediale tra musica e arti figurative ma l’eroina e l’ossessione artistica del loro mentore, Andy Warhol.
Nati sull’onda del rock psichedelico, i Pink Floyd elaborarono un rock concettuale che affrontava il tema della psiche dell’uomo moderno, con brani come The dark side of the moon, The wall.
I Queen si trasformarono in una hard rock band e nei decenni successivi, praticarono un pop dalle mille sfaccettature, anche per gli atteggiamenti istrionici del loro leader, Freddy Mercury.
In America, nel frattempo, il rock, complice anche la modernizzazione delle tecnologie degli studi di registrazione, divenne sempre di meno una creazione collettiva.
Quanto al punk dirompente di Johnny Rotten, le principali case discografiche tentarono con successo di comprarlo, mettendo sotto contratto i protagonisti, contribuendo però al tempo stesso ad affievolire il fenomeno. Dall’esteso bacino del post punk provenivano gli irlandesi U2, quartetto guidato da Bono.
Fenomeno a sé stante nella storia del rock è l’heavy metal, caratterizzato come l’hard rock da un suono fondato su massicce distorsioni del suono della chitarra, sull’utilizzo di volumi imponenti, sulla precisione esecutiva del chitarrista solista e sulla centralità delle parti vocali aggressive.
I maggiori protagonisti furono i Led Zeppelin e i Deep Purple, in parte gli australiani AC/DC e gli inglesi Motörhead, che hanno proposto rispettivamente un hard rock dalle forti connotazioni blues, e un violento rock and roll che mutuava aspetti dal punk e dal metal.
Ma, al di là dei sottogeneri e della sua ormai lunghissima storia, e oltre la vita spericolata e le tante morti premature dei suoi protagonisti, quale società ha prodotto, o almeno contribuito a forgiare, la musica rock? Ed è vera arte? Reggerà al giudizio del tempo?
Certamente, il rock è il documento più straordinario della nostra storia, con le sue chitarre senza cassa, i suoi organi elettrici, la batteria che mette insieme, come in un richiamo arcaico all’alba dell’umanità, le percussioni e le sonorità dei piatti, a fini di ritmo, l’ibridazione della musica con i rumori prodotti dalla tecnologia elettrica prima, elettronica poi, l’infinita varietà dei suoni che è riuscita a creare e replicare, la forza espressiva, le voci inconfondibili di alcuni, i temi che ha affrontato, la capacità di creare, sia pure per brevi momenti di magia collettiva, grandi comunità unite nel suo nome.
Eppure, io continuo a credere che il mondo sia oggi peggiore, anche per responsabilità della musica rock e di chi ne ha cinicamente sfruttato gli eroi, rispetto a quello che videro i primi artisti del genere. Il rock ha contribuito potentemente al declino della civiltà occidentale: non ne è l’autore, né il cattivo maestro, ma è stato ed è la principale finestra sul mondo, la cultura comune e non di rado unica di masse sterminate. Ha contribuito alla rivoluzione, poi rivelatasi intraborghese, del 1968. Ha spazzato via quasi tutti gli altri generi musicali, riducendoli spesso a derisi reperti da museo.
Il pacifismo che ha diffuso non ha abolito le guerre, ma ha reso deboli, fragili, paurose, impotenti, timorose e vergognose di sé alcune generazioni occidentali, due delle quali si stanno avvicendando al potere. L’amore universale si è rivelato una litania insensata, astratta, emotiva, immatura, e non ha scalfito, anzi ha peggiorato, la realtà di un mondo che vive di un individualismo indifferente e di un moralismo d’accatto che ha sostituito i vecchi pregiudizi con nuove parole d’ordine.
Ha, infine, ed è ancora più grave, educato, o diseducato, a suoni, volumi eccessivi, testi a base di turpiloquio, violenza verbale e invettive, ha screditato troppi principi, improntato di sé e della sua idea di musica e di vita troppe persone prive di altri riferimenti morali e culturali. E’ stato più spesso “contro” che a favore di qualcosa. Come distruttore, ha assolto egregiamente il suo compito, avvalendosi della sensibilità, cultura e preparazione musicale di molti dei suoi grandi.
In questo, la musica sopravanza di gran lunga il ruolo delle arti figurative, nelle quali l’imbroglio, l’imperizia, la volgare mistificazione la fanno da padroni, complici mercanti e critici venduti. Non c’è un rock alla Duchamp, ossia un orinatoio spacciato per opera d’ingegno: c’è musica buona e cattiva, ma sempre importante.
Non ci può essere però assoluzione per la cultura della droga e dei paradisi artificiali, per un mondo in cui, alla fine, si vive sulle spalle di quegli stessi padri di cui si sono decostruiti i valori, annientate le idee e le tradizioni ricevute, ma non se ne sono fondate di nuove, nel mito della novità, della scoperta continua, della trasgressione che, trasformata in quotidianità, deve essere continuamente elevata ad un livello più alto di stupore o di scandalo, in genere pilotato o inventato di sana pianta dall’apparato pubblicitario delle case discografiche, le potentissime majors.
Anche nella musica era necessario un rinnovamento profondo, nei temi, nei linguaggi, nelle sonorità, negli strumenti. Non si deve temere il nuovo, anche tecnico, se orientato eticamente.
Ma il rock, purtroppo, ha tratto e plasmato dalle viscere dei suoi ammiratori, ed in primis dei suoi autori ed esecutori, attitudini e sentimenti volgari, bassi, scurrili, talora sconci od ignobili. Ha negato senza affermare. I musicisti si sono presentati come idoli e modelli, ma l’imitazione ha riguardato la loro vita sregolata, la loro ansia di sensazioni border line, la sperimentazione e l’abuso di sostanze chimiche, la ricerca di paradisi artificiali. Hanno scatenato, non di rado consapevolmente, le forze più nascoste ed infere dell’animo umano, veicolando non nuovi valori, ma la negazione violenta, becera, oscena di quelli vecchi.
Uccidendo i padri, ha contribuito in modo decisivo a spezzare il tessuto connettivo delle società, ed a creare la presente civilizzazione liquida, relativista, senza direzione. Ha fondato, o eventualmente, interpretato, un’epoca in cui tutto scorre, tutto fluisce e si inabissa, come un fiume carsico, e poi torna alla luce con negazioni sempre nuove, urlate con indubbia creatività, in un espressionismo artistico seducente, ma che, infine, gira eternamente su se stesso. Se l’arte tende ad elevare lo spirito umano, educandolo al bello, il rock ha indubbiamente e clamorosamente fallito nell’impresa.
Un mulino che macina da mezzo secolo il grano delle generazioni, utilizzando la stessa acqua con pale sempre più potenti, fornite dall’avanzamento della tecnica e dall’immenso apparato di profitto economico che, nascendo, aveva posto in stato d’accusa con ottime ragioni.
La musica, insieme di ritmo e di armonia, è linguaggio primario, e comporta sempre un delicato equilibrio tra passione e ragione, che pende sempre verso l’appassionato. Pensiamo al soldato che è trascinato e rassicurato dalla banda, o all’uomo religioso che è esaltato nella preghiera dal suono dell’organo.
Armato della musica, l’uomo può ignorare il dubbio razionale, sentirsi parte di un mondo che nasce – immaginiamo l’impressione che dovette fare il canto della Marsigliese ai difensori della rivoluzione – o confermare un’appartenenza (ci viene in mente la musica di Strauss, colonna sonora dell’impero asburgico). La storia della musica è una serie di tentativi di dare forma e bellezza alle forze oscure, caotiche, e finalizzarle, diremmo sublimarle, verso uno scopo elevato.
Sono note le intenzioni religiose di Bach e quelle rivoluzionarie di Beethoven. Ma una musica che esprime prevalentemente gli istinti e li assolutizza, come il rock, finisce per essere il contrario di un’educazione qualsiasi, e se diviene il passatempo favorito di intere generazioni, ne mina l’ordine e l’ordinato sviluppo della personalità, scatenando un’irrazionalità pericolosa.
La musica rock, se ha degli antenati nella cultura alta, li rintraccia in Rousseau e in Nietzsche. Essi volevano coltivare gli stati d’animo entusiastici e far rivivere quello stato di possessione che sa dare la musica, allorché raggiunge le zone dell’inconscio e dell’oscuro.
Liberata, depurata dagli elementi della violenta protesta iniziale, il richiamo del rock è quello del desiderio sessuale, non amore, neppure eros, ma proprio libido. Prende atto della sensualità istintiva e naturale dei più giovani e la provoca affinché si trasformi rapidamente in realtà.
Diventata industria e fabbrica di profitto, come ogni altro fenomeno pervenuto nelle grinfie della riproduzione liberalcapitalistica, coltiva il gusto dello stato orgiastico con un po’ di autentica arte e molta pseudo arte. Inevitabile corollario dell’interesse per la liberazione sessuale è la rivolta contro le generazioni precedenti, considerate repressive. L’indignazione si trasforma in odio, e la rivoluzione dei costumi sessuali deve abbattere tutte le forze dominanti nemiche della natura e della felicità.
Solo dopo, viene il desiderio di una società senza classi, libera da pregiudizi, senza conflitti, universale, come in We are the world. Ascoltando la musica, il corpo vibra con ritmi orgiastici, ed in genere è l’unica sottocultura di cui si alimentano a milioni. Qualcuno ha osservato che la forza della cultura rock proviene anche dalla sua rumorosità, che impedisce la conversazione e spesso anche di riflettere su ciò che si ascolta.
Ma questa non è responsabilità del rock: è il vuoto spirituale delle famiglie, insieme con l’incapacità di trasmettere qualsiasi cosa da parte di una civiltà estenuata a permettere che il vuoto, di cui l’uomo ha paura, e quello moderno orrore, venga riempito dall’ascolto compulsivo della musica. Armati di auricolari, walkman prima, i-pad e smartphone adesso, ci si isola autisticamente in un mondo di suoni ritmati dalla batteria, in genere violenti, che raggiungono direttamente il sistema limbico che è la zona del cervello deputata a gestire le emozioni.
Tutte le componenti del sistema limbico, strettamente collegate all’ipotalamo, regolano i comportamenti relativi ai bisogni primari per la sopravvivenza dell’individuo e della specie: il mangiare, il bere, il procurarsi cibo e le relazioni sessuali nonché, per una specie evoluta come l’uomo, l’interpretazione dei segnali provenienti dagli altri e dall’ambiente, dunque anche la nostra percezione della realtà.
Temo che il rock abbia occupato stabilmente i sistemi limbici, espellendone sentimenti ed idee ricevute, e ciò attraverso la perversa alleanza tra musicisti che hanno saputo indovinare i desideri emergenti della plebe e i baroni delle case discografiche, che traggono oro dallo sfruttamento della musica, complice l’assurdo sistema dei diritti di proprietà intellettuale e del pagamento, da parte del pubblico, di somme ingenti per ascoltare la musica ed acquistarne le registrazioni.
Forse aveva ragione Trasimaco, il mediocre competitore di Socrate nella Repubblica di Platone, quando sosteneva che la giustizia, il bene, è l’utile del più forte. Ed il più forte è chi possiede o controllo il sistema di intrattenimento, ed indirizza le coscienze, per di più arricchendosi.
La musica rock è un immenso business, più del cinema, di perfetto capitalismo, fornisce la domanda e contribuisce a crearla: la rivincita della legge economica di Say. Si rivolge soprattutto ai più giovani, le cui menti non sono ancora formate; rivela probabilmente la natura ultima di tutti i nostri svaghi e ci dice che non sappiamo, né vogliamo diventare adulti, e non riusciamo più a concepire dei fini.
Assai interessante è notare come la cosiddetta sinistra, che si vanta delle sue critiche al modello liberalcapitalistico, e analizza inflessibilmente tutti i fenomeni culturali concorrenti, abbia in genere lasciato briglia sciolta a questa musica. La motivazione va probabilmente ricercata nella comune volontà di distruggere tradizioni e credenze, nonché le autorità morali ed i precetti necessari a qualunque comunità minimamente coesa.
Ma il vero punto d’incontro tra la sinistra “diffusa” occidentale, ovvero quel pentolone sempre bollente a base di progressismo e amore per ogni novità, orfana del marxismo, che era una cosa seria, è l’opera di Herbert Marcuse. In Eros e Civiltà e nell’Uomo a una dimensione, sulle piste di Freud e di un Marx spogliato dalla dittatura del proletariato e dalla dimensione sociale, egli promise che l’abbattimento del capitalismo e della sua falsa coscienza avrebbe portato ad una società in cui la più totale delle liberazioni sarebbe stata quella sessuale.
Freud, che era personalmente un borghese con tratti di moralismo, sarebbe forse inorridito, e avrebbe bollato come infantili e polimorfe le soddisfazioni vagheggiate dal guru delle generazioni uscite dal Sessantotto. Pure, il rock tocca le stesse corde, stuzzica le medesime zone dell’anima, anarchismo istintivo, pansessualismo, indebolimento e liberazione dell’inconscio irrazionale.
L’omicidio dei padri, di tutti i padri, pagato da loro stessi. Borghesi bisognosi di non sentirsi tali, prigionieri, oggi più di allora, di una teoria critica del capitalismo che ne diviene l’espressione più grossolana ed il sostegno più convinto. Fattosi antiborghese per dominarci meglio, ha dalla sua tutte le parrocchie della vecchia e della nuova sinistra.
Quanto alla musica, infinite variazioni sul tema, ogni tanto geniali, più spesso prodotti di consumo impacchettati come le pastarelle della domenica: un cartoncino con le dorature ed un fiocchetto colorato confezionato da mani esperte. Un fenomeno che sembra l’adempimento di una promessa fatta da tanta psicologia e letteratura, secondo la quale l’esausta civiltà occidentale avrebbe trovato ristoro ad una sorgente scoperta da poco, l’inconscio. Ora, però, l’oscuro è stato reso chiaro, l’inconscio è stato reso conscio, il represso espresso.
L’effetto, al di là del sesso, e persino della droga, altro mercato gestito da lorsignori i padroni del mondo, è sicuramente un’immaginazione distorta e povera, che rende difficile il rapporto con la cultura e con una visione alta della vita.
Le prime esperienze dei sensi sono decisive per la vita, e costituiscono il legame tra l’animale e lo spirituale che coabitano in noi. La musica rock incoraggia passioni istintive e pulsioni, non sentimenti, senza i quali è lettera morta ogni educazione o sapere che non sia tecnico o strumentale. Induce in modo artificiale, un po’ come la droga, le esaltazioni che naturalmente sono legate all’adempimento dei più grandi sforzi: la vittoria in una battaglia giusta, la creazione artistica, la scoperta di una verità, la fede in una causa, l’amore realizzato.
Nel tempo, i più si liberano dai modelli rock, cambiano prospettive, non pensano o vestono più come i loro vecchi idoli, affrontano la vita, che è però vuota e falsa esattamente come quella della musica che li ha formati e che hanno adorato.
Ma aver escluso dal loro orizzonte tradizioni e culture, essersi allontanati da ogni sapere che non fosse strumentale ed immediato, aver avuto come unica colonna sonora della vita quella musica e quelle idee, rende i suoi adepti degli automi al servizio del consumo, orfani del pensiero critico.
Con l’auricolare sulle orecchie anche quando studiano o viaggiano, come possono ascoltare ciò che tradizioni e cultura hanno da dire? Travolti dal ritmo, riconosceranno ancora, perseguiranno ancora armonie?
E, dopo un uso prolungato, tolto l’auricolare, probabilmente scopriranno di essere diventati sordi.
28 Comments