8 Ottobre 2024
Archeostoria

L’ eredità degli antenati, centotreesima parte – Fabio Calabrese

Era prevedibile. Nonostante tutti gli sforzi, nonostante il fatto che io abbia dedicato il mio spazio settimanale su “Ereticamente” unicamente a L’eredità degli antenati, anche stavolta, come era già successo gli anni scorsi, mi trovo a confrontarmi con una notevole “coda” dell’anno passato. Era abbastanza ovvio che succedesse, perché, se ricordate, avevo concluso la novantanovesima parte con la fine di ottobre, e la centesima, centounesima e centoduesima parte sono stati tre articoli riassuntivi dell’annata trascorsa. Restavano dunque due mesi, novembre e dicembre.

Ai primi di novembre su un gruppo facebook è comparsa la traduzione, peraltro pessima e quasi illeggibile, probabilmente fatta con il traduttore automatico di internet, di un articolo apparso sul sito russo moscp.ru nel 2019. Data la difficoltà a ricavare un senso dall’articolo, il fatto che è piuttosto datato e nemmeno firmato, ora non me ne occuperei se non affrontasse una questione di notevole importanza, attorno alla quale si sono perlopiù affastellati errori e pregiudizi in maniera notevole: il rapporto fra slavi e “ariani”, parola usata nel senso ristretto e tecnico di indo-iranici.

Le lingue (e possiamo dire le popolazioni, perché basta risalire nemmeno tanto indietro nel tempo per accorgersi che le società multietniche sono un orrore tipico della modernità, sconosciuto in un passato nemmeno tanto remoto) indoeuropee si dividono in due grandi rami, occidentale, del centum, e orientale, del satem, dalla radice della parola con cui si indica il numero cento. Le prime comprendono le lingue e le popolazioni latine, germaniche, celtiche e il greco, le seconde le slave e indo-iraniche.

Questo implica che tra slavi e indo-iranici esista un rapporto piuttosto stretto, non solo, ma, dato che tutto suggerisce che il gruppo del satem sia ancestrale rispetto a quello del centum, determinare l’origine di quest’ultimo significherebbe identificare l’Urheimat, la patria ancestrale indoeuropea.

Bene, qui cominciano i problemi, perché, come ricorda questo articolo, essa è stata cercata per duecento anni senza mai giungere a risultati definitivi. Qui si ricorda che l’archeologo V. A. Safronov nel suo libro La patria ancestrale indoeuropea ha contato ben 25 sedi che sono state proposte sulla base di argomenti archeologici e/o linguistici. Al riguardo, l’articolo presenta una lamentela pienamente giustificata: la scarsa tendenza per non dire il rifiuto di archeologi e linguisti di incrociare i dati delle rispettive discipline.

A mio parere, questa confusione deriva da un errore di fondo: osservate bene: lingue e popolazioni indoeuropee, già all’origine di questo termine si accorda all’India una priorità. I linguisti dell’ottocento (ma qualcuno la pensa ancora oggi così) ritenevano il sanscrito dei Veda, i libri sacri della religione induista, ancestrale a tutte le lingue e gli “arja” dell’India ancestrali a tutte le popolazioni indoeuropee perché i Veda sono i testi più antichi scritti in una lingua indoeuropea che ci siano pervenuti.

L’errore è palese: che il sanscrito sia stato la prima lingua indoeuropea scritta, non implica necessariamente che sia stato la prima lingua indoeuropea parlata.

Non solo, ma c’è di mezzo il fascino (morboso e insidioso) dell’oriente, quello “strabismo orientale” che ho tante volte denunciato. Bisogna rovesciare il binocolo, cioè raddrizzarlo. Non sono gli slavi, né tanto meno le altre popolazioni dell’Europa ad aver avuto origine da una migrazione dall’India di cui non si trova traccia, al contrario, gli indo-iranici avrebbero avuto origine da una migrazione da nord-ovest, da una popolazione affine agli slavi, il che è coerente con i dati dell’archeologia (cultura Yamna o Yamnaja, ritenuta la cultura indoeuropea più ancestrale, collocata tra Ucraina, Russia meridionale e Kazakistan), e con il fatto che l’India, già prima della migrazione indoeuropea era abitata da una popolazione non indoeuropea e non bianca, i Dravidi.

L’articolo presenta poi dei link ad altri articoli, fra questi colpisce uno dal titolo alquanto ironico: Il sarmatismo è cattivo o pessimo?

I Sarmati erano una popolazione di ceppo slavo-indo-iranico affine agli Sciti. Un’idea della loro collocazione la dà il fatto che la grande pianura che si estende tra Germania e Russia è stata chiamata dai geografi bassopiano sarmatico. Secondo alcuni erano tout court gli antenati degli Slavi. Guerrieri sarmati hanno militato come ausiliari nell’esercito romano. La loro specialità era la cavalleria pesante, cavalieri catafratti, cioè corazzati, una sorta di carri armati dell’epoca. Li vediamo raffigurati così sulla Colonna Traiana, perché presero parte alle campagne daciche dell’imperatore Traiano.

Il fenomeno del sarmatismo, ha però poco a che fare con ciò. Il regno di Polonia raggiunse probabilmente il suo apogeo nel XIV secolo, quando la dinastia Jagellone unificò la Polonia al granducato di Lituania, ma dal 1572, con l’estinzione degli Jagelloni cambiò tutto: la monarchia polacca divenne elettiva nelle mani di una nobiltà fra le più egoiste d’Europa che a ogni nuova elezione regia, in cambio del trono, si garantiva sempre più privilegi e autonomie. In questo periodo si affermò il sarmatismo, un’ideologia diffusa tra la nobiltà, che la voleva discendente dagli antichi sarmati, e quindi etnicamente distinta dal popolo polacco che si poteva sfruttare senza riguardo. Il progressivo indebolimento del potere centrale portò allo sfaldamento dello stato polacco, che nel XVIII secolo fu diviso tra Austria, Prussia e Russia, cancellando fino al 1919 uno stato chiave della storia europea. Ricordiamo che nel 1529 erano stati i cavalieri polacchi a porre fine all’assedio ottomano di Vienna, sventando così una delle più gravi minacce dirette contro il cuore dell’Europa. L’articolista ha ragione, il sarmatismo che ha aperto la strada allo smembramento della Polonia è stato un fenomeno pessimo.

Vorrei ora parlarvi di due libri “fuori dagli schemi” che ho ricevuto ultimamente, e che, in maniera diversa, ci illuminano grandemente sul nostro passato remoto: Celti di Alessandro Marchesan e Aurelio La Scala Marchesan, e I misteri della civiltà megalitica di Felice Vinci.

Un testo recentemente pubblicato la cui uscita vale senz’altro la pena di segnalare, è Celti di Alessandro Marchesan e Aurelio La Scala Marchesan (nonostante il cognome comune, non sono parenti), un corposo volume edito dalla BiDiGi editrice di Attilio Fraccaro, che in 500 pagine ci racconta di: “Genti celtiche e ritrovamenti archeologici di origine e cultura celtica nell’area nord orientale venetica e retica (VI° – I° secolo a. C)”.

Come recita l’introduzione di Aurelio La Scala Marchesan:

“Passando attraverso nozioni sull’insediamento nel territorio, sulla cultura, la vita, la spiritualità e la tradizione mitologica dei Celti, si arriva ai ritrovamenti materiali, catalogati con ordine, località per località, nel paesaggio del Nordest, un elenco quanto mai generoso sul lascito di quel popolo che ha contribuito non solo all’integrazione di nuovi elementi stilistici nel “venetorum angulus” ma anche alla costituzione genetica del sangue della nostra gente”.

Tutto ciò ancora non basta, perché Aurelio La Scala Marchesan ha pubblicato sul sito “Hyperborea Veneta” un articolo in cui ci parla di: “Tumuli, motte and Bailey (non ho capito l’anglicismo) e castellieri, tra Veneto e Friuli”, ovvero “La Tumulilande di Nordest”. L’articolo è il resoconto di alcune “passeggiate archeologiche” compiute in compagnia di Alessandro Marchesan e di Piero Favero, l’autore del libro La dea veneta, di cui vi ho parlato a suo tempo.

Qui è il caso di riprendere un discorso che vi ho già fatto: noi oggi vediamo un po’ dappertutto riemergere un interesse per la nostra storia passata e le nostre tradizioni, ma, se al riguardo dovessimo stilare una classifica fra le varie regioni italiane, il Veneto risulterebbe nettamente in testa. Ebbene, diciamo pure che i nostri tre amici, i due Marchesan e Favero, sono una parte non trascurabile di ciò.

I misteri della civiltà megalitica. Vale la pena di citare il fatto che ho avuto il piacere di ricevere una copia di questa sua nuova fatica direttamente dalle mani dell’ingegner Vinci, che è una persona quanto mai simpatica e cordiale, in contraccambio di una del mio Alla ricerca delle origini.

Questo testo ha il potere di sorprendere anche chi abbia letto Omero nel Baltico. Qui infatti Felice Vinci ci porta in una lunga carrellata non solo sulle costruzioni megalitiche (che grazie alla persistenza della pietra sono le tracce più evidenti di remote civiltà), ma attraverso i miti di ogni parte del pianeta, dal mondo greco-romano alla Polinesia, al Giappone, ai Dogon del Mali, agli indiani Hopi, agli aborigeni australiani, un po’ alla maniera del Ramo d’oro di Frazier. Una carrellata talmente vasta e ricca di spunti da meditare, che non cercherò di riassumerla, ma vi evidenzio piuttosto la sua tesi di fondo: tutte le corrispondenze fra culture lontanissime le une dalle altre che andiamo man mano scoprendo, suggeriscono che in un’età remota debba essere esistita una comune civiltà planetaria.

Vediamo cosa ci offre in questo periodo “Ancient Origins”. Continua la rassegna sulla mitologia greca. Un articolo del 1 novembre di Adrienne Mayor ci parla del mito di Icaro, espressione come ben sappiamo, dell’antichissimo sogno umano di volare, e non dimentica di menzionare il fatto che tra i primi a cercare di tradurre questo sogno in realtà, c’è stato il nostro Leonardo Da Vinci.

Non mancano poi le notizie di argomento propriamente archeologico che riguardano stavolta il mondo scandinavo, un articolo sempre del 1 novembre di Ashley Cowie ci racconta di un tesoro vichingo composto da collane, bracciali e monete d’argento che è stato ritrovato sotto il pavimento di una casa a Taby, frazione di Viggbyholm, un villaggio poco fuori Stoccolma.

Il 5 novembre, invece è Sahir a raccontarci della sepoltura mesolitica, risalente a 6.000 anni fa, di un bambino, che è stata ritrovata a Majoonsuo nel comune di Outokumpu nella Finlandia orientale. Ciò che rende notevole questa sepoltura, è che essa fornisce preziose informazioni sulle usanze funerarie di questi antichi scandinavi. Pare che il bambino fosse avvolto in una stuoia di fibre vegetali decorata con piume di uccello, e avesse accanto la carcassa di un cane, probabilmente suo compagno di giochi, destinato ad accompagnarlo nell’aldilà.

Beninteso, poiché il 4 novembre è caduto il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamen (ma sembra che quasi tutti si siano dimenticati del fatto che questa data è anche l’anniversario della nostra vittoria nella prima guerra mondiale), non potevano non esserci un paio di articoli su questo argomento, così come se ne è parlato su tutti i media, ma permettetemi a questo proposito di non dire altro all’infuori di questo accenno: Lungi da me voler contribuire all’egittomania anche troppo dilagante, alla sopravvalutazione di tutto ciò che è egizio-mediorientale e alla corrispondente svalutazione della nostra eredità europea.

Vediamo ora “The Archaeology News Network”. Troviamo le notizie del tesoro vichingo ritrovato in Svezia e della sepoltura del bambino mesolitico finlandese, per cui ora non mi ripeto, ma abbiamo anche altro, in particolare, un articolo del 31 ottobre di James Ashworth che ci parla dell’estinzione dell’uomo di Neanderthal. Essa sarebbe dovuta non tanto alla guerra, quanto all’amore con l’uomo di Cro Magnon anatomicamente moderno: a forza di ripetuti incroci con l’uomo moderno, i neanderthaliani sarebbero stati del tutto assimilati. Gli è convenuto “fare l’amore, non la guerra”? Oggi non c’è più su questo pianeta un solo individuo vivente che si possa definire neanderthaliano, ma se contiamo quel 2% di genoma di Neanderthal mediamente presente in tutti gli esseri umani che non provengono dall’Africa sotto il Sahara, ci accorgiamo che oggi c’è in giro più DNA di Neanderthal di quanto ve ne fosse nella preistoria.

Paradossalmente, allora, la domanda che si pone è: se siamo meticci di Cro Magnon e di Neanderthal, come mai la percentuale di genoma neanderthaliano che abbiamo è così bassa? A lungo, la risposta è stata che nelle popolazioni umane ibride, i geni neanderthaliani sarebbero stati gradualmente eliminati dalla selezione naturale a favore di quelli moderni più vantaggiosi, ma le cose non sembrano essere andate così, perché quel 2% pare del tutto stabile. Probabilmente la spiegazione consiste nel fatto che i neanderthaliani fossero fin dall’inizio una popolazione assai più rada degli uomini anatomicamente moderni.

Vediamo cosa ci offre in questo periodo “The Archaeology Magazine”, e abbiamo un’ulteriore conferma che di questi tempi quella più attiva sembra essere l’archeologia scandinava. A parte la notizia del tesoro vichingo ritrovato a Taby, che troviamo sia su “Ancient Origins” sia su “The Archaeology News Network”, troviamo una notizia che ha come fonte l’Università di Oslo, secondo un ricercatore di questo ateneo, lische di aringhe rinvenute a Truso in Polonia e provenienti da occidente dal Mare del Nord risalenti all’VIII secolo, sarebbero la prova che i Vichinghi erano dediti già allora al commercio su larga scala di questi pesci, e avessero sviluppato le necessarie tecniche di conservazione, già 400 anni prima di quanto finora si pensasse. Questi vichinghi che, ricordiamolo, non erano soltanto pirati, ma anche mercanti e artigiani.

Tanto per non farci mancare nulla, un articolo del 4 novembre ci informa che a Ysby nella Svezia sud-orientale, durante i lavori per le fondamenta di un complesso residenziale, è stato ritrovato un mjolnir, ossia un amuleto riproducente il martello di Thor che risalirebbe a un periodo compreso tra il IX e l’XI secolo.

E la nostra Italia? Non c’è proprio niente da segnalare in questo periodo? Tranquilli, qualcosa c’è, e non da poco, e non poteva essere diversamente in un Paese che è un vero e proprio scrigno di tesori archeologici.

Se ve ne ricordate, ve ne avevo già parlato tempo fa: nella vasca votiva di San Casciano dei Bagni (Lucca) sono stati ritrovati ex voto e monete di epoca romana. Beh, gli scavi sono proseguiti, e quel che è emerso è davvero sorprendente. Ce ne parla su “Il Messaggero” dell’8 novembre un articolo di Mario Landi.

Dal fondo della vasca sono emersi ben 24 bronzetti:

Adagiato sul fondo della grande vasca romana, il giovane efebo, bellissimo, sembra quasi dormire. Accanto a lui c’è Igea, la dea della salute che fu figlia o moglie di Asclepio, un serpente arrotolato sul braccio. Poco più in là, ancora in parte sommerso dall’acqua, si intravvede Apollo e poi ancora divinità, matrone, fanciulli, imperatori”.

L’articolista paragona questa nuova scoperta a quella dei bronzi di Riace.

Che dire? Il nostro passato è ancora intorno a noi, pronto a riprendere vita.

NOTA: Nell’illustrazione, cavalieri catafratti (cioè corazzati) Sarmati, a sinistra in un bassorilievo della Colonna Traiana, a destra in un bassorilievo conservato nel museo di Kazan (Russia).

2 Comments

  • Orazio Sguazzero 13 Febbraio 2023

    Leggo sempre i suoi articoli. Finalmente si fa strada la verità sulle nostre origini.

  • Fabio Calabrese 14 Febbraio 2023

    Orazio Sguazzero, la ringrazio. La verità sulle nostre origini è quello che non mi sono mai stancato di cercare.

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