8 Ottobre 2024
Archeostoria

L’ eredità degli antenati ottantatreesima parte – Fabio Calabrese

Ricominciamo la nostra carrellata dal mese di marzo 2022, anche se a questo punto non sono in grado di fare previsioni su quando questo articolo giungerà alla pubblicazione, e ricominciamo con una notizia davvero sorprendente: uno dei più noti idoli preistorici, la Venere di Willendorf sembra essere italiana!

Ce lo riferisce Nathan Falde in un articolo pubblicato il 2 marzo su “Ancient Origins”. Questa statuetta lunga undici centimetri fu ritrovata nel 1908 in uno scavo archeologico nei pressi del villaggio di Willendorf nella Bassa Austria. Le sue caratteristiche femminili esageratamente accentuate (forma tondeggiante, seni e vagina sproporzionati) hanno fatto supporre che essa fosse usata nel corso di antichi riti della fertilità. La datazione al radiocarbonio di resti organici trovati in associazione con essa, ha permesso di datarla al paleolitico superiore, 25.000 anni fa, il che ne fa uno dei più antichi idoli mai rinvenuti.

Bene, ora una ricerca condotta mediante scansioni high tech da un team di antropologi e geologi dell’Università e del Museo di Storia Naturale di Vienna, guidati dall’antropologo Gerhard Weber e dai geologi Alexander Lukenender e Mathias Harzhauser, ha permesso di stabilire che la pietra in cui la Venere è stata scolpita, proviene dall’Italia settentrionale, a diverse centinaia o a migliaia di chilometri dal luogo dove è stata ritrovata.

L’aspetto più sorprendente della cosa, probabilmente è il fatto che scopriamo una volta di più di aver sottovalutato questi nostri remoti antenati, che commerciavano e si scambiavano manufatti su distanze molto maggiori di quanto finora supponessimo.

Sempre in questo periodo, abbiamo una notizia proveniente da “The Archaeology Magazine”: un team di archeologi polacchi guidati da Piotr Włodarczak dell’Accademia Polacca delle Scienze ha individuato due tumuli che apparterrebbero alla cultura Yamnaya risalenti a 5.000 anni or sono…nella Serbia settentrionale.

Ciò che ha permesso ai ricercatori polacchi di individuare queste sepolture come appartenenti alla cultura Yamnaya, sono le tracce di pigmento rosso ritrovate su alcune ossa, che fa pensare che i defunti fossero ricoperti con ocra rossa prima di essere inumati, e questa è una tipica usanza Yamnaya. Inoltre, gli scheletri rivelano un’altezza superiore di diversi centimetri a quella delle popolazioni della regione della stessa epoca.

L’importanza del ritrovamento è data dal fatto che la cultura Yamnaya, originaria dell’Ucraina è considerata proto-indoeuropea, forse la madre di tutte le culture indoeuropee, e ora abbiamo la prova della sua espansione verso il sud e l’ovest. Come sapete, esiste tuttora chi nega che l’espansione indoeuropea nel nostro continente sia mai avvenuta, e attribuisce le somiglianze tra la maggior parte delle lingue che si parlano in Europa a una sorta di osmosi culturale, o (in alternativa) c’è chi pensa a una diffusione delle lingue indoeuropee dal Medio Oriente, che si sarebbero diffuse nel nostro continente attraverso l’Anatolia (ipotesi del nostratico). Beh, adesso abbiamo una chiara prova archeologica che smentisce gli uni e gli altri.

Una cosa che gli amici di “Ereticamente” mi hanno sempre rimproverato, è l’importanza, a loro parere eccessiva, che ho dato e sto dando all’attività dei gruppi Facebook, ognuno dei quali non raggruppa e non raggiunge che un numero esiguo di persone. Io però al riguardo preferisco avere un atteggiamento pragmatico: è senz’altro vero che non vale proprio la pena di seguire nel dettaglio l’attività di questi gruppi, ma se qualcuno tocca una tematica importante o rilevante, o espone una teoria interessante, perché non parlarne? Il caso viene a essere tutto sommato analogo a quello di un’importante scoperta che però, per qualche motivo, ha avuto eco solo su un quotidiano locale.

Una persona la cui attività non ho mai smesso di seguire, è il noto esperto di mitologia norrena Fabrizio Bandini (che gestisce anche, appunto, il gruppo FB “Mitologia norrena”).

In data 7 marzo Bandini ha postato nel gruppo FB “Il recinto di mezzo” un articolo che riguarda una tematica non specificamente connessa al mondo nordico, ma certamente di grande interesse, che tocca una questione fondamentale: Il re sacerdote in epoca arcaica.

La separazione tra potere civile e potere religioso è un’invenzione moderna che nasce con il cristianesimo. Scrive Bandini:

L’unione, nella stessa persona del Sovrano, del potere religioso e di quello politico è nell’antichità un fatto accertato e normale: in Egitto, in Persia, in Etruria e altrove. Non è dunque sorprendente constatarla nell’Ellade antica, ad epoche diverse. Per gli Elleni dell’epoca eroica, il re è sacerdote, o capo dei sacerdoti. Omero rappresenta più volte i re intenti a celebrare riti sacri (…).

Seguono poi esempi tratti da Eschilo e da Euripide.

Si può ricordare quanto hanno scritto a questo proposito gli storici Giorgio Falco e A. Passerin D’Entreves da più volte citati: la polis antica era, in uno, stato e Chiesa, una comunità strettamente connessa con le sue divinità che la proteggevano e ne indirizzavano i destini, e la stessa cosa valeva per Roma fino alla (forzata) cristianizzazione. La lacerazione fra obbedienze contrapposte è stata certamente uno dei fermenti di decadenza introdotti in Europa dal cristianesimo, il che però non ha impedito ai papi di pretendere per secoli di esercitare abusivamente anche un potere politico.

Come probabilmente avrete capito, in contrasto con quanto abbiamo visto all’inizio dell’anno, e sempre a prescindere dal momento in cui leggerete queste note, questo periodo sembra alquanto “morto”, a parte la scoperta dell’origine italiana della venere di Willendorf, e verrebbe da commentare con amara ironia, molti nostri capolavori hanno preso nei secoli la via dell’estero, e questo deve aver cominciato ad accadere molto prima di quanto pensassimo. La venere di Willendorf probabilmente è stata uno dei primi.

L’archeologia non è, come vi ho spiegato più volte, come la politica, lo sport o il gossip, dove si può sempre contare su di un flusso regolare di nuove informazioni, o forse dipenderà dalla crisi internazionale causata dal conflitto in Ucraina che ha spostato tutto l’interesse altrove?

Intanto però occorre segnalare che proprio in un momento in cui la ricerca archeologica internazionale si rivela avara di novità, quella italiana (indubbiamente una cenerentola per il sistema mediatico che dà ben altro peso a cose di gran lunga più transitorie e frivole) dimostra di essere in piena attività, Ce lo racconta archeomedia.net.

Cominciamo il 6 marzo con la notizia che a Manerbio (Bs) è iniziato lo studio del cosiddetto “tesoretto di Manerbio”. Si tratta in realtà di una collezione di 4194 dracme d’argento galliche coniate imitando il modello delle dracme in uso presso i Greci di Marsiglia. Il “tesoretto” rinvenuto nel 1955 era probabilmente “la cassa” di una coalizione di tre tribù celtiche.

Proseguiamo l’8 marzo con la notizia di una scoperta piuttosto singolare: ad Albano Laziale, località dei Colli Romani di notevole interesse archeologico, è iniziata l’esplorazione di un misterioso cunicolo scoperto la scorsa estate, che è stato scavato dall’uomo e ha l’aria di essere molto antico. Il cunicolo è stato scoperto dietro una porta di un locale di servizio di un vecchio albergo addossato a una parete montana. Evidentemente c’è anche qualcuno che anche in questo giorno pensa ad altro che alle mimose.

 Il 9 apprendiamo che sono cominciati lavori di scavo e di contestuale recupero del nuraghe di Sedilo (Oristano) a cura di ricercatori dell’Università di Sassari. L’aspetto più interessante è forse che nei pressi del nuraghe si trovano le tracce di una fucina all’aperto. Di questo tipo, risalenti all’Età del Bronzo non se ne trovano in Sardegna, e anche altrove sono estremamente rare.

L’11 marzo si parla dello scavo nella necropoli di Fossa in provincia dell’Aquila, appartenuta alla popolazione sabellica dei Vestini e risalente a un periodo dell’Età del Bronzo fra il 1700 e il 1350 avanti Cristo, che si trova sulla riva settentrionale del fiume Aterno.

La necropoli ha restituito in particolare ricchi corredi funebri femminili che fanno pensare a una società matriarcale.

Il 15 abbiamo la notizia che la Regione Sicilia ha messo in opera un progetto di esplorazione dei fondali dell’isola mediante droni subacquei che durerà tre mesi, allo scopo di individuare relitti di navi e resti di insediamenti sommersi. Oltre alle coste dell’isola, la ricerca coinvolgerà Ustica e le isole Eolie.

Infine una notizia che riguarda Trieste: il 25 marzo, a cura del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste si terrà un convegno sul mitraismo nel mondo romano. La religione mitraica, lo ricordiamo, in età romana imperiale, si presentò come un serio concorrente al cristianesimo. Il convegno triestino è certamente legato al fatto del ritrovamento, pochi anni fa a Duino (località a un tiro di fucile da Trieste) di un mitreo – tempio sotterraneo dedicato al culto di Mitra – praticamente intatto.

Vediamo ora cosa ci presenta in questo periodo “L’arazzo del tempo”. E’ quasi superfluo evidenziare che questo sito, di cui l’ingegner Felice Vinci, l’autore di Omero nel Baltico è magna pars, è attivamente impegnato nel ricollocare nel settentrione europeo episodi ed aspetti della tradizione classica.

C’è per esempio un articolo di Felice Vinci datato 22 febbraio: La geografia omerica e le località sul lago Sommen. In sostanza, secondo l’ipotesi vinciana, l’Eubea omerica non sarebbe la lunga isola che corre parallela alle coste dell’Attica, ma l’isola svedese di Oaland. Omero ci parla poi del lago Boagrios su cui si affaccerebbero le località di Tarphe e Tronios, per Vinci si tratterebbe del lago Sommen nell’entroterra svedese, su cui si affacciano le cittadine di Torpa e Tranas.

Sempre a sostegno di questa reinterpretazione “nordica” dell’epos classico, ci sono poi due articoli Kaliju Patustaja: Svyatoy Nos o Santo Naso, la Scilla del nord del 28 gennaio e “Troia” tra Estonia e Russia? del 22 febbraio.

Per dire la verità il primo di questi due articoli non vuole traslocare la leggenda di Scilla e Cariddi in ambito nordico, ma più modestamente segnala un punto settentrionale altrettanto pericoloso del passaggio dello stretto di Messina, che potrebbe aver influenzato la suddetta leggenda, sempre nell’ipotesi di una provenienza nordica dei nostri remoti antenati, si tratta di Svyatoy Nos al largo della penisola di Kola. Qui le acque calde atlantiche della Corrente del Golfo s’incontrano con quelle fredde, artiche del Mar Bianco, e il risultato è un mare perennemente agitato e pericoloso per la navigazione. Come nel caso della Scilla siciliana, questo avrebbe ingenerato nei popoli della regione, la leggenda un un mostro marino in agguato.

Il secondo articolo riprende invece la vulgata “nordica” di Felice Vinci, ma offre per Troia una collocazione diversa, più a oriente, al confine tra l’Estonia e la Russia attuali, essa coinciderebbe con l’attuale villaggio di Vtroja non distante dal lago Peipus, che si trova tra due fiumi, lo Skamja e il Soomoja che  Patustaja non ha difficoltà a identificare con lo Scamandro e il Simoenta.

L’ho detto più volte, ma sarà il caso di ripeterlo: la tesi di Vinci secondo cui le narrazioni che fanno da base ai poemi omerici sarebbero nate nell’ambiente nordico da cui provenivano gli Achei, e solo in un secondo tempo riadattate all’ambiente mediterraneo una volta che questi ebbero raggiunto la Penisola ellenica, è una tesi per la quale non metterei la mano sul fuoco, tuttavia a mio parere meriterebbe un’attenta valutazione e approfondite indagini prima di un “si” o di un “no” definitivi.

Naturalmente, la questione omerica-baltica non è la sola cosa di cui si occupa “L’arazzo del tempo”, ad esempio, un articolo redazionale del 26 gennaio ci pone un interrogativo inquietante: La Terra è ricoperta da antiche linee? Lo si è scoperto grazie alla rilevazione aerea, e si vede molto bene nella Yakuzia siberiana che è uno dei luoghi meno antropizzati del pianeta: il territorio appare percorso da linee lunghe anche centinaia di chilometri, che talvolta si intersecano formando rombi e rettangoli che sembrano quelli di una mappatura geodesica, ma, ci viene detto, simili linee dove non cresce né un albero né un cespuglio, erano/sono presenti in molte altre parti della Terra, e la gente le ha trasformate in strade sfruttando i percorsi già tracciati. Chi o quando le abbia tracciate, rimane un mistero.

Non potevano mancare gli argomenti più propriamente mitologici, ad esempio un articolo di Felice Vinci e Arduino Maiuri del 16 marzo, basandosi sull’inno omerico a Hermes, ci parla di questa divinità come antico dio del fuoco.

E devo dire che ho trovato molto bello il motto che fa da intestazione al sito: “La condivisione della conoscenza è la più grande di tutte le vocazioni. Non c’è nulla di simile sulla Terra”.

Diamo un’occhiata anche a cosa ci offre “Il fatto storico”.

Velia è oggi una modesta localita della Campania che non sembrerebbe avere molta importanza, ma nell’antichità ellenica essa era la città di Elea, sede tra l’altro di una delle più importanti scuole filosofiche presocratiche, quella eleatica appunto, di cui basta ricordare le figure di Parmenide e di Zenone, i cui paradossi hanno fatto discutere i filosofi per secoli.

Bene, a quanto ci racconta “Il fatto storico” in un articolo del 9 febbraio, sono state ritrovate le offerte votive alla dea Atena poste alla fondazione della città.

Nella polis greca di Elea, oggi in Campania, è stata rinvenuta intatta l’offerta votiva che i Greci fecero alla fondazione della città. Vi sono una ceramica a vernice nera con l’iscrizione IPH (“sacro”), un elmo greco di tipo calcidico, un elmo etrusco a calotta di tipo Negau e uno scudo. Erano in una camera costruita sotto il tempio della dea Atena sull’acropoli”.

Io penso che si possa dire in conclusione che la ricerca archeologica in Italia ha gli stessi problemi della ricerca scientifica in generale: un lavoro eccellente, compiuto lontano dai riflettori, non adeguatamente riconosciuto e spesso non adeguatamente remunerato, in contrasto con quanto abbiamo visto spesso accadere all’estero, dove, metal detector in mano, la ricerca delle tracce del passato sembra coinvolgere una parte non piccola della popolazione, e sappiamo che spesso i nostri ricercatori emigrano in cerca di miglior fortuna.

Ma che genere di futuro può avere un Paese dimentico del proprio passato e che fa fuggire le eccellenze per importare vu cumprà?

NOTA: Nell’illustrazione, la locandina del convegno triestino sul mitraismo.

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