di Mario M. Merlino
A metà degli anni Ottanta, tutte le mattine, prendevo una malconcia e male odorante corriera per arrivare fino ad Artena ed insegnare con incarico a tempo determinato a degli scalmanati ragazzini e giustamente privi di alcuna motivazione nella scuola media Serangeli. Cittadina rasa al suolo e con il simbolico spargimento del sale perché terra di briganti al tempo del dominio del Papa e resa famosa dagli studi del discepolo del Lombroso sulla sua popolazione che esprimeva nel tratto, appunto, le caratteristiche inesorabili d’essere soggetti a delinquere. Un tempo anche per la sagra delle ciliegie, ma i costi per la mano d’opera l’avevano fatta scomparire – come molte tradizioni del mondo contadino – e rimaneva la fioritura di primavera e i rami che mi portavano gli alunni conoscendo la mia passione per l’etica del bushido.
(Ebbi il sospetto che trovassero ‘particolare’ questa mia richiesta e che si passassero la voce di possibili mie tendenze femminee, giustificate anche dall’ostinazione di portare i capelli lunghi… Dei samurai porto tatuata sul braccio destro in ideogrammi la frase ‘fra i fiori il ciliegio fra gli uomini il guerriero).
Artena possiede un palazzo in pessimo stato di conservazione di proprietà della famiglia Borghese. Vi ero stato una sera ad una cena organizzata per i decumani e pochi altri dal principe Junio Valerio, seconda metà degli anni Sessanta. Siedo al medesimo tavolo con Franco Grazioli, btg. Lupo, che, in una notte a Milano, pur di non farsi sottrarre la pistola da un gruppo di gappisti, s’è beccato un colpo a bruciapelo in un polmone, prigioniero degli alleati nel 211 P.O.W. nei pressi di Algeri e poi a Taranto, nella legione straniera a Dien Bien Phu e durante la rivolta in Algeria. Arriva Luca Scafardi, suo commilitone, una gamba amputata sul Senio, fra i primi ad avvicinarsi al PCI tanto da essere invitato a prendere la parola a Napoli nel novembre 1948, durante la prima Conferenza nazionale dell’Alleanza Giovanile, di cui era presidente Enrico Berlinguer. Fra i due sprizzano scintille, si alza il tono della voce, stanno per venire alle mani. Interviene Borghese: ‘Io sono il Comandante della Decima ed io solo decido chi invitare o meno. Adesso vi stringete la mano e sedete allo stesso tavolo’. Li doma con il suo carisma. Sono tornati ad essere dei marò…
Tramite uno dei bidelli che ha il cugino pastore vado a comprarmi una forma di pecorino fresco. Lo prepara davanti a me in un pentolone che gira continuamente con un mestolo. Poi mi offrirà in una scodella la ricotta calda con il siero. Dentro ci sono dei rametti legati fra loro. Sono curioso e gli chiedo se servono per cagliare il latte. ‘No. Sono di fico. Per cagliare usiamo le interiora delle bestie. Ma così faceva mio nonno, così mio padre.
E io continuo a farlo…’ (Penso con l’arroganza del cittadino che in ciò c’è qualcosa d’ottuso, una superstizione che lo spirito dei Lumi non è riuscito ad estirpare. Una cretineria, ovvio, la mia).
Pochi anni dopo compro una raccolta di frammenti dei filosofi fisiocratici in una traduzione che, per volersi distinguere ad ogni costo, si rende quasi illeggibile. (Appartiene, di conseguenza, ormai a quelle centinaia di libri che ho disperso con il trasloco. Stupida necessità, lo so, di spazio). Spero che l’introduzione possa confortare l’acquisto. Poco o nulla. Però… ecco che l’autore cita l’Iliade dove si dice di un guerriero, non ricordo se acheo o troiano, caduto in combattimento e che il suo sangue era stato assorbito rapidamente dalla terra così come avviene con il latte quando i pastori vi mettono rami di fico…
Ci sono molti modi di tradire la terra. Nietzsche ammoniva a non farlo per non cadere nelle grinfie della metafisica. Questo è uno dei modi in cui noi, ormai prigionieri del cemento e capaci solo di calcare l’asfalto, rinunciamo alla linfa vitale della terra madre e, al contempo, sebbene eretti nel corpo, siamo dimentichi di quel dio che ci prende per i capelli. Un libro vede le sue pagine ingiallire e disperdersi in poca polvere; un ignaro pastore e un rametto di fico ‘trasmettono’ attraverso i secoli la voce del mistero e delle sue origini… Noi, i veri trogloditi, a quali miserabili e caduchi graffiti siamo condannati?