di Mario M. Merlino
30 gennaio 1945, cella dei condannati a morte, carcere di Fresnes, Parigi, con il pennino ficcato nel beccuccio della pipa scrive: ‘Alla culla del giovane Onore – sono state viste due fate recare – i loro doni per il giovane Onore: – il coraggio e la gaiezza. – A che cosa serve un dono come il vostro – si chiede alla prima. – Quasi a nulla, essa risponde: – a dare coraggio agli altri. – L’altro, si chiede alla seconda, – non è forse di troppo per l’Onore? – Un fanciullo, risponde la fata, ha sempre bisogno di un fiore’. Poi, a sette giorni di distanza, dodici bocche di fuoco, avide del suo sangue, gli lacereranno la carne, illuse di strappargli l’anima. Così viene fucilato Robert Brasillach.
Voglio provare a raccontarvi una storia, una fiaba forse, cara a Pietrangelo Buttafuoco, che l’ha saputa raccontare meglio di me, erede di quel mondo di cantastorie che incantavano bambini ed adulti con l’opera dei pupi. In ricordo di Mario Castellacci, del Bagaglino di ‘Forza venite gente’ de La Memoria bruciata e, soprattutto, di quella Canzone strafottente che tutti abbiamo cantato con il suo primo endecasillabo ‘le donne non ci vogliono più bene’.
Mi confidava Franck Coppola, don Ciccio, mentre si passeggiava avanti e indietro nel piccolo cortile di Regina Coeli, come il povero puparo venisse assediato nella sua dimora perché il traditore Gano di Maganza non pagava il giusto per il suo reato, il più infame, quello a cui non può darsi perdono e tanto era lo sdegno che lo si costringeva a cambiare il finale…
Una sera il vento raggiunse il giardino di periferia della grande città dove, da una fontanella, sgorgava lenta e sicura la sua amica, l’acqua. A ridosso, su una panchina dalle assi consunte e la vernice scrostata, sedeva l’Onore. Le ombre del tramonto quasi ne confondevano il tratto d’eterno fanciullo. Era l’ora di chiusura del grande cancello di ferro battuto e l’ultimo ospite, un piccolo cane condotto al guinzaglio da un anziano signore appoggiato al bastone, si avviava all’uscita.
‘Sono in ritardo, lo so, amici miei. Però non dovete mai diffidare. Ovunque voi andiate, sempre mi trovate vicino. Basta che sollevate il coperchio di una minuscola scatola di fiammiferi ed anche lì, impercettibile, io ci sono. In ogni luogo, in ogni gesto sarò a farvi compagnia’. Aggiunse l’acqua con voce cantilenante: ‘Oh, compagno di tante avventure, ricordi quante volte hai riunito le nuvole e le hai addensate in cielo? Ecco che io apparivo sotto forma di pioggia, di gocce sempre più fitte. E piegavi le cime degli alberi e scrollavi le foglie di colore d’oro mentre io scorrevo dai monti verso il piano. Ovunque tu sei, io sono. Non c’è dubbio’. Fu, allora, che l’Onore si passò le dita fra i capelli mossi, sollevò il capo e con un filo di voce, quasi un sussurro, ammonì: ‘Fate attenzione a non distrarvi perché, una volta che mi avete perso, poi non mi trovate più…’.
A questa storia, che in fondo è poco più di una favola, forse si potrebbero aggiungere ancora, a far loro compagnia, altri due elementi: la terra ed il fuoco. ‘Le radici profonde non gelano mai’ sosteneva Tolkien. Beh, anche loro necessitano di solida terra ove avventurarsi e rendersi forti. Così, ove il passo e il destino s’impongono e ci conducono, esse vengono con noi e solo noi possiamo reciderne il tratto. Ricordate i solstizi d’inverno, intorno al fuoco e, in piedi con le braccia in posizione di riposo, il canto che si levava in attesa del risorgere del sole, quel Domani appartiene a noi e ‘La terra dei Padri, la Fede immortale…’?
E Tirteo, maestro di scuola e zoppo, innamoratosi di Sparta, ammonisce con il verso i guerrieri di calcare la terra e non aver paura, con il piede ben fermo e solido scudo. Infine il fuoco, quello che arde nella mente e nel cuore in primo luogo, senza il quale vana si rende ogni nostra impresa…
L’aria l’acqua la terra ed il fuoco, i quattro elementi tanto cari al filosofo Empedocle che, guarda caso, viveva all’ombra del vulcano e guardando l’azzurro intenso del mare. Perché senza l’Onore essi sono misera cosa e noi con loro…