Uno dei vantaggi della Rete è che permette di raggiungere figure, idee e personalità che difficilmente avremmo potuto conoscere con i mezzi di comunicazione del passato. Chi scrive è un appassionato lettore di uno scrittore spagnolo, Juan Manuel de Prada, cinquantenne pensatore “tradizionale” di origine basca. Il suo libro più recente è uno straordinario contributo alla battaglia culturale contro il cosiddetto progressismo. Il suo titolo, “Enmienda a la totalidad”, echeggia l’istituto giuridico della “modifica totale” a una legge in discussione. Modifica, emendamento totale nei confronti del pensiero contemporaneo per impossibilità di condividerne non gli esiti, ma innanzitutto le premesse: questa la tesi di fondo del de Prada. Ci pensavamo leggendo un emendamento alla legge di bilancio presentata da Forza Italia, volta a finanziare con quindici milioni di euro il cambio di sesso. I sostenitori della rivoluzione liberale, araldi della privatizzazione di tutto, gli stessi che invocano meno tasse per i ceti abbienti, chiedono denaro pubblico per finanziare la transessualità, pardon “la transizione di genere”.
Non riusciamo a rintracciare vere differenze tra la visione dell’uomo di costoro e quella della sinistra, progressista o “risvegliata”. Non ci può essere alleanza o vicinanza con il pensiero liberale, ammonisce de Prada. L’antropologia e l’ontologia liberali sono il male, il resto sono variazioni sul tema, a cui si deve opporre l’” emendamento alla totalità”, ossia un pensiero radicalmente distinto. Con l’insistenza di un disco rotto, da destra si alza l’appello ad ingaggiare una battaglia culturale contro il progressismo rampante. Sembra lo scontro tra due treni in corsa in cui due visioni del mondo opposte si contendono l’egemonia culturale. Il problema è che per dare battaglia bisogna esprimere principi opposti a quelli avversari, proporre un’alternativa radicale non perché estremista, ma in quanto giunge alla radice delle questioni in gioco. Se non è così, battaglia e guerra sono inevitabilmente perdute.
La destra arriva in ritardo alla battaglia culturale, appesantita dal concetto di libertà proprio del liberalismo, con la “cassetta degli attrezzi” dei diritti individuali fornita dal liberalismo, animata dalla visione antropologica liberale, e così via. L’avversario non deve far altro che utilizzare tali principi a proprio vantaggio, facendoli propri, adattandoli ai propri interessi e sviluppandoli sino ad estremi che la timida destra non aveva mai sospettato. Una volta generalizzati quei principi, diventati senso comune, la destra si scaglia contro quello che chiama erroneamente marxismo culturale, il quale non è altro che liberalismo portato a conseguenza, l’abito di scena di una società rovesciata, confezionato dalla scuola di Francoforte, ex marxisti approdati al radicalismo post borghese. Il liberalismo, con il suo principio emancipatore, la sua indifferenza spirituale e il fastidio per il limite, è il brodo di coltura per tutte le ingegnerie sociali che convengono al progressismo per costruire un ethos, un impianto egemonico, al quale la destra dal fiato corto, sorpresa dagli eventi, intrappolata dalla narrativa liberale, finisce per adattarsi sia pure in versione attenuata o imbarazzata.
Talvolta la destra si impegna in scaramucce che esacerbano gli antagonismi sociali e, allo stesso modo in cui la sinistra, per favorire la sua ascesa al potere, utilizza gli immigrati, le femministe o gli ecologisti come “soggetti rivoluzionari”, i paladini di questa versione light della battaglia culturale usano il movimento pro vita o le classi medie impoverite. Alla fine, niente più della pesca delle occasioni che finisce per riarmare l’avversario, generando una dis-società avvelenata da una scia di odio. La polarizzazione favorisce l’avversario perché intimorisce la massa dei timidi, la palude dei senza idee che finiscono per cedere al canto della sirena progressista, unica titolata a stabilire dove si trova la “moderazione”, il punto di equilibrio. La conclusione è che non si può condurre una vera battaglia culturale se le premesse sono condivise, un grottesco chiacchiericcio che favorisce l’egemonia avversaria, a cui è stato consentito da decenni di condurre il gioco e imporre le regole.
L’autentica battaglia culturale è armata di premesse filosofiche, politiche e antropologiche contrarie all’unica ideologia rimasta in lizza, il liberalismo proteiforme. Serve il contrattacco del pensiero tradizionale, libero e non liberale, conservatore e rivoluzionario. Manca la consapevolezza che le regole vengono dettate dall’alto, dai padroni del denaro. Con esse, vincerà sempre il progressismo. Lo ha spiegato Nicolàs Gòmez Dàvila: il suffragio universale – scimmia della partecipazione – non fa trionfare gli interessi della maggioranza, si limita a farlo credere.
La democrazia, se intesa come fondamento e non come forma o procedura di governo, è una frode basata su un grossolano errore filosofico che fa comodo al Denaro per trasformare i popoli in masse omologate assoggettate alle pulsioni. L’errore che la natura umana non è sempre la stessa, ma progredisce indefinitamente attraverso la conquista di nuovi “diritti”, fino a raggiungere il paradiso in terra, al quale tanto più ci avviciniamo quanto più “progrediamo”. Così, in democrazia vincono sempre i progressisti, anche quando perdono, poiché i conservatori, per soddisfare le aspettative generate dalla democrazia stessa, sono portati a trasformarsi in progressisti “lenti”. Nel gioco democratico le carte le distribuisce il denaro, la sua distruzione “creatrice”, i suoi spiriti animali, per cui vincerà sempre il progressismo, per la via veloce (sinistra) o per quella lenta (destra).
Sotto la maschera carezzevole della democrazia si nasconde la presa ferrea delle oligarchie del denaro. Da almeno mezzo secolo – il Sessantotto dovrebbe insegnare qualcosa – il denaro gioca con la mano sinistra, con le buone o con le cattive, come quando organizza brogli, rivolte manipolate o detta l’agenda dei nuovi diritti. Il banco – con il nome d’arte di democrazia – vince sempre. Tutte le rivoluzioni “di sinistra” sono al servizio del capitalismo. Il concetto di libertà liberale non è l’unico esistente, la democrazia è una procedura, non un fondamento o un totem. Al termine della vita, lo comprese Norberto Bobbio. L’ingegneria sociale sta trasformando l’uomo occidentale sino a far presagire la sua abolizione, come intuì C.S. Lewis. Il pensiero tradizionale sa che il capitalismo reale e i cosiddetti nuovi diritti – de Prada li chiama “diritti della patta dei pantaloni“ – sono le facce di una medesima moneta falsa: aborto libero, politiche “di genere”, migrazioni, gelido materialismo, tutti prodotti del capitalismo globale.
Ne prese atto un marxista eretico, Pier Paolo Pasolini, constatando che l’intera società soccombeva all’edonismo del consumo. Comprese per primo la metamorfosi storica della sinistra, postasi al fianco del capitalismo. La rivoluzione neo-capitalista post Sessantotto usa la sinistra come utile idiota e disprezza giustamente la destra. L’evidenza è clamorosa: tutte le rivoluzioni antropologiche “di sinistra” sono al servizio del capitalismo, o, se preferite, il neo-capitalismo promuove un modello antropologico (la “società aperta”) che la sinistra accoglie con entusiasmo per miopia e per matrice culturale comune. Nessuno più mette in discussione il capitalismo a sinistra, mentre sconcerta il riflesso condizionato liberal-conservatore (una contraddizione clamorosa), attardato in schemi mentali da guerra fredda. Per la destra di sistema, criticare il capitalismo è filo comunismo. La sinistra, più agile e reattiva, promuove una bolsa retorica anticapitalista a uso degli sciocchi per far avanzare la rivoluzione antropologica e sociale voluta e pagata dai padroni universali per consolidare il loro dominio. Lorsignori distruggono la ricchezza delle nazioni e degli individui, travolgono la piccola e media impresa, negano di fatto la proprietà privata diffusa, uccidono la famiglia, concentrano denaro, mezzi di produzione e servizi in pochissime mani, le loro.
Non è pensabile che la destra e la sinistra non se ne rendano conto, l’una difendendo l’impresa e il tessuto produttivo, l’altra millantando la rappresentanza dei deboli e dei lavoratori. Entrambe condividono lo stesso orizzonte di idee, oppure sono a libro paga dell’oligarchia, il che ai fini pratici è lo stesso. E’ frustrante, per il pensiero tradizionale, essere trattato da estremismo di sinistra a destra e da fascismo altrove. Viviamo sotto un potere-piovra che riesce a manipolarci, instillare il panico, trasformarci in un grumo di carne tremante. Il peggio è che la nuova tirannia non ha oppositori e il progetto di riconfigurazione antropologica procede dall’alto, mentre le rivoluzioni salgono dal basso. La più grande la fecero, due millenni or sono, dodici pescatori medio orientali apostoli del figlio di un falegname di Nazareth.
C’è bisogno di un nuovo umanesimo che recuperi una scintillante tradizione e respinga senza sconti le follie montanti. Umanesimo, ovvero rispetto della persona umana, della sua specificità e del ruolo superiore che riveste in natura, che per il pensiero tradizionale è scintilla divina. Al contrario, vediamo ridurre la persona umana a cosa, strumento manipolabile, oggetto di pratiche zoologiche, mentre avanzano normative che assegnano “diritti” agli animali. Dobbiamo ripetere che non può essere titolare di diritti chi non può essere oggetto di doveri. Ciò non significa che gli animali debbano essere al di fuori della protezione legale. L’essere umano è titolare del diritto ad un giusto dominio sulla natura, che comporta l’obbligo di averne rispetto. Ma quando si parla di diritti si parla di un rapporto giuridico. Insegna Chesterton che dietro l’ideale di trattare gli animali come se fossero esseri umani si cela il desiderio segreto di trattare gli esseri umani come se fossero animali. Il pretesto di elevare l’inferiore nasconde sempre l’impulso a schiacciare il superiore. In definitiva, nei tentativi di rendere gli animali titolari inconsapevoli di diritti scopriamo la volontà tenace di sopprimere la natura trascendente dell’uomo.
Per de Prada, la consacrazione dei diritti degli animali è il feticismo morale di un tempo malato che relega la difesa della vita umana in un sobborgo subalterno. I suoi paladini sono gli stessi che promuovono l’aborto libero, applaudono la sperimentazione sugli embrioni, l’eutanasia, i deliri transgender. I medesimi che elevano gli animali domestici presuppongono che la vita umana non sia più inviolabile, che gli esseri umani non siano degni di protezione in tutte le fasi della loro vita. Aberrazioni dalla stessa origine: equiparare l’uomo all’ animale è un modo elegante per abolirlo, negare la sua unicità, considerarlo il risultato casuale di un’evoluzione, cancellare i tratti distintivi di una creatura unica, misteriosamente singolare. Lo scrittore Alberto Savinio, fratello del pittore Giorgio De Chirico fa notare nella Nuova Enciclopedia che l’avanzamento di civiltà tra Egitto e Grecia si percepisce nella natura dei loro dei. L’ Egitto si arrende alle forze oscure della natura, immaginando un pantheon che è uno zoo spaventoso. La Grecia si ribella a queste forze oscure, immaginando un Olimpo di divinità antropomorfe. L’animalismo, sotto la veste civilizzatrice, nasconde una tremenda involuzione, il ritorno al pantheon egizio popolato da divinità oscure da placare con sacrifici umani, a cui non si può rivolgere alcuna preghiera.
Un altro aspetto della battaglia culturale è superare la contraddizione tra il consumo, i falsi bisogni, e l’ambientalismo radicale. L’ambientalismo, come tutti i sottoprodotti ideologici moderni, è un succedaneo religioso in cui Gea, la madre terra, viene eretta a nuovo dio da adorare. Per l’idolatria ecologista, l’umanità è una piaga che va cacciata dall’Eden e ridotta nel numero: ambientalismo e antinatalismo vanno sempre a braccetto, promossi, imposti dall’alto. Il cambiamento climatico è il filone che permette ai credenti, in coerenza con la sua natura di sostituto religioso, di utilizzare un linguaggio apocalittico. Con il pretesto del cambio di clima, si introduce il pacchetto ideologico woke, “risvegliato”. Per essere ecologisti perfetti, bisogna anche professare le tesi dell’indigenismo, del multiculturalismo, della quarta ondata femminista, l’ideologia epidemica covidiana, la teoria di genere, la cultura della cancellazione, occorre cioè professare tutti i dogmi del mondo dei ricchi.
Questo insieme confuso ma coerente altro non è che un sofisticato strumento di ingegneria sociale, il cui scopo ultimo è far sì che le masse cretinizzate, specialmente i giovani, accettino una vita nomade, senza un lavoro dignitoso, senza famiglia o proprietà, tutto per garantire l’accumulazione del turbocapitalismo, che può costringere ad acquistare a debito una nuova automobile o moltiplicare per quattro il prezzo dell’elettricità con il pretesto dell’economia sostenibile. Con l’aiuto dei media di servizio e di governanti servi di destra, centro e sinistra, il dominio degli straricchi rafforza il conformismo, fino al punto che i comportamenti “devianti” dei dissidenti saranno automaticamente repressi dalle masse condizionate, poiché ogni contraddizione sembrerà irrazionale e ogni opposizione impossibile, come vaticinava Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione. Strano pessimo maestro, che finì per dire la verità invertendo l’ordine dei fattori. O iniziamo una battaglia culturale radicale, o di noi faranno polpette facendo credere che sia ottimo cibo vegano.
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